E’ noto che nel primo Supremo Consiglio dell’Ordine Martinista figurava il Fr::: Stanislas de Guaita, esoterista di primissimo ordine mancato purtroppo assai giovane. Di famiglia nobile di antica origine italiana, il marchese de Guaita visse la parte decisiva della sua breve esistenza a Parigi, in un appartamento al numero 20 di Rue Trudaine, divenuto presto noto agli esoteristi e agli occultisti del tempo. In pochi anni, riuscì con perseveranza a creare una biblioteca personale di scienze occulte e tradizionali ineguagliata. La sua riservatezza, tratto tipico di quest'uomo aristocratico, mite e gentile, era acuita dall'oggetto dei suoi studi, e nonostante ciò, con pazienza egli riceveva ed incontrava fratelli di diversi Ordini iniziatici, e quasi naturalmente intorno a lui si formò una ristretta cerchia di discepoli.
Morì come detto giovanissimo, all'età di trentasei anni, sufficienti comunque a dare alle stampe numerosi volumi ed articoli di alto valore iniziatico e a ricoprire il ruolo di fondatore e Gran Maestro dell'Ordine Cabbalistico della R+C, da cui sarebbero transitati i Maestri più noti dell’occultismo a cavallo tra il XIX ed il XX secolo: Papus, Oswald Wirth, Marc Haven, Victor Blanchard, Sédir, Téder, Péladan e – circa mezzo secolo dopo - quel Constant Chevillon trucidato dai nazisti per essersi rifiutato di rivelare, in cambio della vita, i nomi degli appartenenti al Martinismo ed alla R+C.
In vita de Guaita fu accusato di tutto: magia nera, negromanzia, fatture... al contrario de Guaita e gli altri “compagni della ierofania” sempre furono convinti sostenitori della Luce, al punto da combattere le forze che sostenevano la tenebra, particolarmente attive nella Parigi di fine '800. Uno degli scopi precipui dei R+C era infatti: «la rovina degli adepti della magia nera»[1], da attuarsi attraverso il battesimo della Luce ossia la messa a nudo delle loro malefatte, sia pure senza divulgare i loro nomi profani. Tale sorte toccò ad un certo Boullan, seguace di E. Vintras, che ne “Il tempio di satana” venne letteralmente sbugiardato, anche se solo col suo nome controiniziatico di Jean-Baptiste. Quando poi Boullan morì, Huysmans che lo aveva conosciuto e ne era stato in un certo senso traviato, dichiarò che la sua morte era da imputarsi ad un maleficio di de Guaita. Il nostro R+C ottenne peraltro un’equa riparazione attraverso scuse scritte, evitando così una composizione “a mezzo spada”[2].
Oswald Wirth così lo ricorda: «le nature solari s'incarnano soltanto con reticenza e per un periodo di tempo limitato. Come Raffaello e Mozart, de Guaita doveva morire giovane […] il Maestro ispiratore, per me non è mai morto. Il suo pensiero resta il mio: con lui e grazie a lui, io aspiro ad iniziarmi al segreto delle cose». Sèdir, per indole più legato a Papus e a Maitre Philippe, così lo descrive: «Ebbene, Stanislas de Guaita, era, per diritto di nascita, il cervello potente, la volontà reale davanti al quale tremano e spariscono tutte le voluttà del Grande Serpente. Infatti, tutto il suo lavoro fu consacrato a definire ed illuminare, per mettere un giorno a nudo l'essenza, la natura e la biologia di questa forza misteriosa nel suo aspetto radicale».
La sua forza interiore fu tale che, avendo intuito l'intima essenza del male, ne scrisse a fondo allo scopo di farne comprendere agli esoteristi la ripugnante natura, ed esortandoli a meglio opporsi ad esso. “Alla Soglia del Mistero” fu il suo primo libro, ma è con “Il Serpente della Genesi” che egli indaga a fondo nelle scienze occulte al servizio della controiniziazione: questa sua opera, tripartita ne “Il tempio di satana”, “La chiave della magia nera” ed “Il problema del male”, è rimasta purtroppo incompiuta. La morte precoce di de Guaita, dopo una lunga malattia, gli impedì infatti di scrivere “Il problema del male”, le cui linee generali aveva già impostato nei suoi diari. Nell’approccio sintetico che ci siamo imposti, cercheremo qui di tratteggiare quantomeno i motivi dominanti del pensiero di de Guaita, che risente in modo particolare dell’influenza di Fabre d’Olivet ed Eliphas Levi.
Il primo errore concettuale che de Guaita si sforza di rettificare, assolutamente drammatico per le sue conseguenze, è quello commesso da coloro che nel Bene e nel Male vedono due principi coeterni, condannati per sempre alla lotta; questo, in effetti, è vero solo nell’ottica della manifestazione, come insegna il simbolo delle due colonne importato nel Martinismo dalla tradizione massonica. «Luce ed ombra sono le due eterne vie del mondo», come afferma Zoroastro, e la loro alternanza è la vita stessa dell’universo, poiché introduce una differenziazione in ciò che per sua natura sarebbe uniforme. Epperò trattasi di una situazione temporanea, poiché il principio oscuro è tendenzialmente recessivo: anzi, tutto sommato esso non deriva che da una “contrazione” della Luce, che vela in parte se stessa dato che «L’Unità, Fratello mio, nulla può produrre che per opposizione a se stessa»[3]. Lo stesso Fil. Inc. mette in guardia contro il rischio di attribuire al principio cattivo valore equivalente (sia pure opposto) a quello buono[4].
De Guaita vede nel simbolo della lotta tra Dei e Titani (ovvero Deva e Asura) una conferma dell’esistenza di un unico principio, che gradua se stesso per dare vita al gioco cosmico: egli scrive che «nella lotta misteriosamente rappresentata in questo profondo simbolo [cioè quella tra dei e giganti], il Bene ha trionfato perché esso è l’ordine, la norma, l’armonia, in una parola perché è il BENE; e che la causa necessaria, assolutamente prevedibile, la quale, rendendo il Male accidentale e transitorio, lo consacra al futuro annientamento, consiste nel fatto che questo rappresenta il disordine, l’arbitrio, l’anarchia e che si chiama, appunto, il MALE. […] Non si potrà negare l’esistenza del Male (quanto alla sua essenza è un’altra cosa). La sua manifestazione nell’Universo è sicuramente al di fuori di ogni dubbio, come quella del freddo in inverno e dell’ombra durante la notte. Ma viene la luce e l’ombra svanirà, viene il calore e il freddo passerà: poiché l’ombra ed il freddo non sono dotati che di un’esistenza privativa; essi mancano d’essenza propria essendo delle negazioni. Altrettanto è del male, transitorio, accidentale, contingente.
Attribuire un’esistenza al male, significa rifiutare un’esistenza al bene; sostenere il principio del Male significa contestare il principio del Bene, affermare l’esistenza propria del Diavolo, quale assoluto male, significa negare Dio. Infine, sostenere la coesistenza di due assoluti contrapposti, significa proferire una bestemmia in religione e una semplice assurdità in filosofia»[5].
Se quindi, come si è sostenuto, la credenza in una esistenza autonoma del male è figlia di ignoranza metafisica, quello che tradizionalmente viene raffigurato con la testa di capro non è altro che un concetto vitalizzato, un aborto della fantasia umana che tenta di personificare un concetto che in realtà è impersonale, cieco e addirittura malleabile per l’uomo che, per usare il gergo di Martinez de Pasqually, è stato reintegrato nelle sue primitive potestà e virtù. Nell’esoterismo dell’epoca, questo concetto era come noto simboleggiato dalla stella fiammeggiante, che quando ha la punta in su «è l’emblema dell’Uomo in tutta la forza della sua Volontà libera, capace di dominare le passioni quando l’Intelligenza domina la materia»[6] mentre con la punta in giù diventa la sagoma del capro, in una sorta di delirante oggettivazione dell’incubo passionale e sensuale.
Osservando che il termine “Shatan” viene nominato solo nei Numeri ed ha unicamente il significato di “contro” (in latino “adversus”), de Guaita getta un formidabile raggio di luce sulla questione: «Siccome satana non poteva essere, crediamo di averlo già detto, che il prototipo del nulla e della vanità odiosa, ne consegue che la caratteristica del suo dominio, l’impronta della sua presenza, la sua firma morale, insomma, presenti tutti i segni distintivi del non-essere, della miseria e dell’invidia»[7].
Peraltro, «a forza di evocare il rozzo personaggio, gli imbecilli o i furfanti che lo immaginano sotto questo aspetto tradizionale […] hanno a poco a poco realizzato il loro sogno in astrale. Aggiungiamo che ogni volta che un nuovo goeta fa appello all’immagine orrenda, evocandola con tutta l’energia creatrice della fede e l’urlo delle passioni malvagie al loro parossismo; non soltanto l’immagine gli appare, ma egli aggiunge anche all’abbozzo fluidico un nuovo tratto di vigore e definisce l’esistenza del mostro, nutrendolo della propria sostanza iperfisica. […] Irridiamo il livido simulacro che si ritrae davanti ad un soffio d’aria, si dissolve al minimo sforzo della volontà umana, e che un lampo d’intelligenza fulmina! No, questo babau non è che una larva, tra molte altre![8]». Le larve infatti sono in un certo senso «i missionari di Nahash. Rivaleggiando in inconsistenza con questo Essere formidabile, esse partecipano della sua natura ambigua – illusoria e tuttavia reale – intermedia tra il cosciente e l’incosciente, ondegiante e scintillante dall’essere al non essere»[9].
Rimandando al prossimo paragrafo per l’analisi sommaria di Nahash, osserviamo in quali termini de Guaita si rivolge alla larva demoniaca: «tu hai un’unica giustificazione, o principe delle tenebre; il fatto che non esisti affatto! […] non sei, perlomeno, un essere cosciente: negazione astratta dell’Essere assoluto, tu hai come unica realtà psichica e volontaria quella che ti attribuisce ogni individuo perverso in cui ti incarni»[10].
Orbene, se come affermava de Guaita non esiste il diavolo – né come potere cosciente, né tantomeno come mostro dalla lingua biforcuta e dal piede caprino, ma solo come forza semicosciente eppure “forte di ogni forza” – resta da capire che cosa egli intendesse per Nahash, termine ebraico tradotto nella Vulgata con la dizione (secondo noi molto felice) di “serpente”. Come in altre occasioni, de Guaita si abbevera volentieri alla dottrina di Fabre d’Olivet, che presenta vari spunti d’interesse: «Nahash caratterizza propriamente quel sentimento interiore e profondo che lega l’essere alla sua stessa esistenza individuale, e che gli fa desiderare ardentemente di conservarla e di estenderla. Questo nome, che ho reso con quello di “attrazione originaria”, è stato sfortunatamente tradotto nella versione degli ellenisti con quello di serpente; ma non ha mai avuto questo significato, neppure nel linguaggio più volgare. L’ebraico ha due o tre parole, completamente diverse da quella, per designare un serpente.
Nahash è piuttosto, se posso esprimermi così, quell’egoismo radicale che porta l’essere a mettersi al centro e rapportare tutto a lui. Mosè dice che questo sentimento fu la passione travolgente dell’animalità elementare, la molla segreta o il fermento che Dio donò alla natura […] Così, secondo lo spirito del Sepher e della vera dottrina di Mosè, Nahash harim non sarà affatto un essere distinto […] bensì un impulso centrale dato alla materia, una molla nascosta, un fermento agente nella profondità delle cose»[11].
Siamo così passati da una visione manichea del Male personificato ad una metafisica un po’ meccanicistica, dove non vi è spazio per la ribellione di un Lucifero o di spiriti prevaricatori. Resta solo la Luce astrale, sul cui stampo e sotto la cui influenza si modella l’universo fisico, e l’egoismo primordiale che ha portato alla caduta di Adamo. «In un primo senso esoterico, esso [cioè il diavolo] è la Luce astrale, questo fluido implacabile che governa gli istinti; questo universale dispensatore della vita elementare, agente fatale della nascita e della morte […] Questo essere iperfisico – non cosciente dunque irresponsabile – domina da signore sullo stregone, mentre al mago obbedisce da servitore. […] occorre a tutti i costi rendersene signore se non si vuole diventare la vittima delle grandi correnti che si muovono in esso secondo leggi invariabili.
In un senso esoterico superiore, il Serpente simboleggia l’egoismo primordiale, questa misteriosa attrattiva del SE’ verso il SE’ che costituisce il principio medesimo della divisione: forza la quale, sollecitando ogni essere a isolarsi dalla unità originaria per centrarsi e compiacersi nel suo proprio IO, ha causato la caduta di Adamo[12]».
Dov’è allora il potere che ostacola la Luce? «Ovunque, dove le tenebre pesanti della negazione, offuscando la intelligenza dell’Uomo, aboliscono in lui la vita spirituale e possono annullare quel senso interiore che permette l’intuizione del Divino e il presentimento dell’Eterno, in verità satana è là sotto il suo aspetto metafisico: l’errore. Ovunque, ove la perversità corrode le anime sventurate fino a dissolvere gli intimi legami di solidarietà che le uniscono l’una all’altra; ovunque, dove lo scetticismo deprava le coscienze fino a confondere in esse le nozioni del giusto e dell’ingiusto; in verità satana è là sotto il suo aspetto psichico: l’egoismo. Ovunque, infine, ove la libera volontà dell’Uomo, inducendo la Natura (questo specchio del Divino) con le più spaventevoli menzogne e con la forza a rinnegare la gloria del suo archetipo Celeste, sostituendo la discordanza arbitraria delle cattive volontà individuali alla saggia armonia delle leggi generali; in verità satana è là sotto il suo aspetto sensibile: la bruttezza. […] E’ sempre il profilo infame di satana riflesso nei tre mondi del pensiero, del sentimento, dello spirito»[13].
Il problema dell’egoismo primordiale, che de Guaita aveva delienato nei suoi tratti essenziali già nel suo celebre “discorso iniziatico”, viene in sostanza ripreso a più riprese, fornendo ai cercatori una lettura lontanissima da quella usuale negli ambienti exoterici, dove si racconta di rettili parlanti e frutti pericolosi. «Invece di vivere felice nella sostanza materna della Natura divina e nell’Unità del Verbo – Adamo, incitato da Nahash (l’egoismo), volle conoscere ed afferrare la Natura in se stessa (nella sua essenza radicale, anteriore al lambire divino generatore dell’Essere, in ciò che Böhme chiama “sua radice tenebrosa”: in una parola, nella sua matrice prima della fecondazione). Conoscere quest’esistenza occulta, antecedente al luminoso farsi elemento; questo perno della vita possibile che vorrebbe essere, ma non è: tale è la confusa ambizione di Adamo – Eloha.
Egli si immerge imprudentemene in questo baratro, vi cerca luce, vita autonoma ed onnipotente; ma non vi trova che tenebre angosciose, bramose e sempre deluse, tormento sterile, sforzo cieco… Egli s’immerge in un nulla avido d’essere, che aspira la sua vita e di cui egli diviene la larva divorata incessantemente. Ma la provvidenza, intelligenza superiore della Natura, ha previsto questa lugubre possibilità: essa lancia un raggio creatore nell’abisso […] e lo salva»[14]. Come insegna lo stesso Fil. Inc., la caduta di Adamo si arresta allo stato della materia grossolana, la quale gli impedisce di sprofondare più in basso ed anzi è per lui un punto di appoggio per la risalita. «Così nacque la materia che fu ben presto elaborata dallo Spirito e l'Universo concreto prese una vita ascendente che risale dalla pietra fino alla cristallizzazione, fino all'uomo suscettibile di pensare, di pregare, di assentire all'intelligenza e di consacrarsi al suo simile!»[15]. Eccoci dunque sul cammino della Reintegrazione.
Non tutti sono Uomini di Desiderio: negli ambienti cd. iniziatici, al contrario vi è un gran numero di pseudo-iniziati – vere comparse del mondo dello Spirito, fuochi di paglia oppure tiepidi irrimediabili – e più controiniziati di quanto si pensi. Non si tratta sempre di individui che hanno votato la loro volontà al male; non di rado sono essi stessi vittime di antiche insicurezze, che inevitabilmente li portano ad essere di volta in volta vittime delle loro larve oppure carnefici dei Fratelli più miti, che vengono vampirizzati. I controiniziati autentici – cioè i servi del proprio ego, eventualmente personificato in un diavoletto di gusto medievale – sono grazie al G:::A:::D:::M::: individui che hanno una polarità opposta alla nostra, ed è quindi raro che li si frequenti.
Esiste, peraltro, a fianco dello stregone, il buon solitario (il nono arcano dei Tarocchi), che da buon Silenzioso Incognito lavora senza posa per sé e per il prossimo, conscio che «l'Universale Adamo è un Tutto omogeneo, un Essere vivente di cui siamo gli atomi organici e le cellule costitutive»[16]. Non è futile, alla fine di questa breve ricognizione sull’opera di de Guaita, ascoltare dalla sua viva voce qual è la Via che egli traccia per giungere all’Adeptato.
Il buon solitario è dunque l’iniziato «che mira volentieri più in alto che non ad un commercio con gli spiriti, anche con le gerarchie più gloriose. Preferendo in generale la pratica dell’Estasi a quella delle Magie cerimoniali, non si attarda molto nei riti evocatori se non nel suo periodo di sperimentazione. Si citano nondimeno delle eccezioni illustri; ma la via non è affatto senza pericolo… reintegrazione, da quaggiù, del sottomultiplo umano nell’unità divina: ecco dunque la più grande opera dell’adeptato. È lì l’ambizione del buon solitario»[17]. È evidentemente una via eroica, che richiede indole guerriera, un continuo sforzo catartico sui tre piani, una grande capacità di interiorizzazione e di disinteressato servizio al prossimo.
Come uomini che vivono nel mondo – ma che pure non sono del mondo – ci interessa infatti soprattutto la reintegrazione in senso attivo, che «equivale ad una conquista positiva del Cielo, ad una violazione dell’elemento celeste e del suo spirito collettivo[18] […] L’estasi attiva ha due gradi. Nel primo, l’Adepto penetra nell’essenza stessa della Natura eterna, che gli comunica in maniera diretta, senza simboli, la Verità-Luce. Al secondo grado egli può anche comunicare con lo Spirito puro, che lo rapisce nel Cielo ineffabile degli archetipi divini; in questo caso vi è in lui una trasfusione della Divinità–pensiero che diventa nella sua intelligenza umanità–pensante, per l’effetto di un’alchimia intima, d’una trasmutazione formidabile e inconcepibile»[19]. Come a dire che il primo grado dell’estasi mette in contatto con l’intelligenza cristica, immanente nella creazione; il secondo mette in contatto diretto con la Divinità, di cui l’uomo si riscopre essere un pensiero.
«L’opera capitale dell’iniziazione si riassume dunque, se così piace, nell’arte di diventare artificialmente un genio; con questa differenza nondimeno, che il genio naturale dà l’ispirazione in determinati momenti, più o meno frequentemente; mentre il genio acquisito è, nella sua più alta forma, la facoltà di forzare l’ispirazione e di comunicare col Grande ignoto tutte le singole volte che lo si desideri […] Così il perfetto adepto in India ssume il titolo di Yogi cioè: unito in Dio»[20].
[1] Cfr. S. de Guaita, Cenni su due società segrete, tradotto e adattato dal Fr. Uriel, A::: I:::.
[2] Cfr. V.E. Michelet, I compagni della Ierofania, Firenze Libri, pp. 30 ss.
[3] Teder, Rituale dell’Ordine Martinista, secondo grado.
[4] Si veda L.C. de Saint Martin, Degli errori e della verità, Ed. Conoscenza, Partizione I.
[5] S. de Guaita, Il tempio di satana, Atanòr, p. 52.
[6] Teder, Rituale dell’Ordine Martinista, terzo grado.
[7] S. de Guaita, Il tempio di satana, cit., p. 87.
[8] S. de Guaita, La chiave della magia nera, Rebis, p. 46.
[9] S. de Guaita, La chiave della magia nera, cit. p. 76.
[10] S. de Guaita, Il tempio di satana, passim.
[11] A. Fabre d’Olivet, Cain, citato in S. de Guaita, La chiave della magia nera, cit., p. 56.
[12] S. de Guaita, Il tempio di satana, cit., pp. 22-23.
[13] S. de Guaita, Il tempio di satana, cit., pp. 45-46
[14] S. de Guaita, La chiave della magia nera, cit., p. 16.
[15] S. de Guaita, Alla soglia del mistero, Rebis, pp. 129 ss.
[16] S. de Guaita, Alla soglia del mistero, loc. ult. cit.
[17] S. de Guaita, La chiave della magia nera, cit., p. 82.
[18] «Regnum coelorum vim patitur, et violenti rapiunt illud» (Mt 11,12).
[19] S. de Guaita, Alla soglia del mistero, cit., pp. 144-145.
[20] S. de Guaita, Alla soglia del mistero, cit., pp. 139-140.
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