Una Stonehenge italiana
 

a cura di Francesco Garufi


La Calabria è da sempre luogo intriso di leggende. In special modo la zona ionica, nel territorio delle serre vibonesi, ove è collocato il comune di Nardodipace. Luoghi in cui si narra di misteriose “chiocce dai pulcini d’oro”, di neonati da immolare per ottenere la conoscenza dell’ubicazione di un tesoro nascosto. Luoghi in cui la credenza popolare vietava di avventurarsi, ma alcuni “temerari”, violando il tabù popolare, hanno scoperto recentemente una serie di strutture megalitiche che coprono un vasto territorio. Sono attese ulteriori verifiche, ma dalle ricerche sinora svolte pare proprio siano opera umana. Un uomo risalente al Neolitico, vale a dire il periodo che va dal V al III millennio a.C. Una notizia che, sebbene all’estero abbia generato molto clamore, in Italia non ha ricevuto l’eco che merita. La particolarità di queste strutture è che si tratta di “triliti”, una forma che riscontriamo principalmente nel megalitismo bretone e in particolare nella nota Stonehenge. Una scoperta archeologica che assume un’importanza fondamentale nel panorama della preistoria italiana e delle sue genti per diversi motivi. La peculiarità morfologica di questo territorio, sovente soggetto a movimenti tellurici, tenderebbe, infatti, a escludere il suo utilizzo per l’erezione di strutture artificiali.
Ma la particolarità della scoperta riguarda soprattutto il fatto che l’area interessata dai megaliti risulta enorme. Secondo quanto rilevato dal team di studiosi, guidati dal professor Alessandro Guerricchio, ordinario di Geologia dell’Università della Calabria, queste strutture offrono un grande contributo allo studio della civiltà neolitica insediata nel nostro paese e in particolare in zone montane come quelle delle serre vibonesi. Sono stati fotografati blocchi di granito del peso stimato di oltre 200 tonnellate, grandi mura, probabilmente di fortificazione, pilastri sormontati da un “architrave”. Il tutto è parte di un vasto progetto che impegnò per la sua erezione notevoli forze umane. Un popolo che senza dubbio aveva un’organizzazione militare o sacerdotale che gli permetteva di coordinare gli enormi sforzi necessari all’estrazione e al trasporto degli enormi blocchi di granito ritrovati a Nardodipace. La scoperta è stata segnalata da un appassionato di archeologia che, ritenendo quelle zone quantomeno “particolari” dal punto di vista morfologico, ha voluto rendere partecipe il comune di Nardodipace, il quale ha contattato l’Università della Calabria. Il ruolo del professor Guerricchio, diventa fondamentale in questa vicenda.
Il perché è presto detto: il sito identificato non sarebbe, a detta di molti archeologi, opera dell’uomo, ma della forza della natura. Guerricchio, dopo numerosi sopralluoghi è giunto alla conclusione, da geologo, che questi “ammassi rocciosi” non sono capitati lì per caso, ma vi sono stati portati dall’uomo e disposti secondo un preciso ordine. Come finirà la vicenda non è ancora chiaro. Quel che è certo è che il comune di Nardodipace si sta adoperando affinché sia istituito una sorta di “parco del Neolitico” basato sulla scoperta di Guerricchio. Nel frattempo, alcune università americane stanno effettuando indagini sul posto. Solo un’intervista con il diretto interessato avrebbe potuto fornirci le informazioni utili a saperne di più sulla scoperta. Abbiamo pertanto raggiunto il professor Guerricchio che ci ha fornito gentilmente la sua collaborazione.

Francesco Garufi: Professor Guerricchio, può parlarci della scoperta che avete realizzato in Calabria?
Alessandro Guerricchio: “Vorrei sottolineare per prima cosa che la mia testimonianza è fatta a nome di tutti i componenti del gruppo di studio che alla fine di settembre 2002 ha presentato i risultati delle ricerche sino ad allora svolte nel convegno tenutosi a Scalea (CS) intitolato Preistoria e Protostoria della Calabria, organizzato dall’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, dalla Soprintendenza Archeologica della Calabria e dalla Soprintendenza Speciale al Museo Nazionale Preistorico Etnografico ‘Luigi Pigorini’ di Roma. Detto gruppo di lavoro è costituito, oltre che dal sottoscritto, dagli ingegneri Valeria Biamonte, Roberto Mastromattei e Maurizio Ponte, dal dottor Marco Guerricchio e da Vincenzo Nadile e Alberto Pozzi. Devo precisare che per gli aspetti più squisitamente storico-archeologici mi limiterò all’essenziale in quanto non dispongo di una specifica competenza, essendo professore ordinario di Geologia Applicata in una Facoltà di Ingegneria. La scoperta è stata realizzata nel territorio comunale di Nardodipace (VV) a seguito di una serie di rilevamenti di campagna, integrati dall’esame di fotografie aeree stereoscopiche. Durante questi rilevamenti sono stati individuati, in località Sambuco e Ladi, a circa 1 km dal centro abitato, i resti di cinque strutture megalitiche e ciclopiche, definibili sia come ‘dolmen’, sia come una sorta di ‘triliti’, strutture originariamente costituite da tre pietre, due ‘pilastri’ rocciosi chiusi alla in sommità da un ‘architrave’. Tali ritrovamenti hanno costituito oggetto di tre relazioni inviate all’Amministrazione comunale di Nardodipace la quale, successivamente, ha comunicato che vi era già stata una prima segnalazione ufficiale alla Soprintendenza di un ritrovamento di interesse archeologico in quel territorio da parte del sig.Vincenzo Nadile, senza che però vi fosse alcun riscontro da parte della stessa autorità. Le prime cinque scoperte hanno suggerito di estendere il rilevamento geologico-archeologico, stavolta con il coinvolgimento del sig. Nadile, dapprima ad altre località del territorio di Nardodipace e poi agli adiacenti territori comunali di Serra S. Bruno (VV) e di Stilo (RC), in particolare nelle zone di Monte Pecoraro e di Pietra del Caricatore. L’analisi di quest’area molto più estesa ha consentito l’individuazione di numerose altre strutture, in pochi casi fra loro raffrontabili ma prevalentemente dotate di una loro configurazione autonoma, in termini di forma geometrica e di dimensione. Non desidero avventurarmi in valutazioni di valenza archeologica per formulare un’interpretazione attendibile della funzione a suo tempo svolta da queste ‘strutture’, ma a esse si possono estendere considerazioni valide per altre strutture megalitiche italiane ed europee, la cui realizzazione ha certamente richiesto un enorme dispendio di energia umana, possibile solo se tale popolo era dotato di una precisa organizzazione sociale e sostenibile soltanto in base a profonde motivazioni cultuali. Qualsiasi altra funzione avrebbe potuto essere assolta con strutture costituite da elementi molto più piccoli e, conseguentemente, con dispendio di mezzi ed energie molto inferiori. Anche eventuali funzioni difensive non giustificano il trasporto e l’erezione dei monoliti delle dimensioni osservate in quelle zone. Inoltre, il concetto di struttura difensiva, pur ipotizzato, lascia qualche perplessità per la presenza di diversi ingressi individuati in alcune di queste vestigia ‘trilitiche’ e che, a rigor di logica, vanificherebbe la funzione esclusivamente o prevalentemente militare. Tale interpretazione è stata inizialmente presa in considerazione per l’alto numero di tali strutture megalitiche, non solo nel territorio di Nardodipace, ma anche in quelli confinanti, quasi a rappresentare una cinta muraria a difesa di un abitato, ubicabile, forse, nella zona ove attualmente sorge Nardodipace Nuovo. Successivamente, però, il ritrovamento di blocchi di forma e dimensioni completamente diverse e l’assenza quasi sistematica delle mura di collegamento fra strutture megalitiche contigue ha condotto ad accantonare, almeno per il momento, l’interpretazione di cinta muraria, privilegiando, in quanto più realistica, la funzione di tipo sacrale e sepolcrale. E’ ipotizzabile che chi guidava questa comunità, il detentore del potere (religioso o temporale), abbia richiesto questi enormi sforzi nei periodi dell’anno in cui la lavorazione dei campi non impegnava la popolazione. Nel caso dovesse prevalere, a seguito di ulteriori studi e approfondimenti, l’interpretazione cultuale e sepolcrale, nulla esclude che le popolazioni legate a questi megaliti vivessero ad altitudini meno elevate di quelle delle strutture e che ci fosse una sorta di attività sacrale da svolgersi in montagna, che in effetti, da sempre rappresenta un luogo di avvicinamento alla divinità (per gli antichi era addirittura la sua sede N.d.R.). Noi speriamo nel contributo della componente archeologica ufficiale, unitamente all’analisi di eventuali reperti derivanti da una campagna sistematica di scavi. È certo, comunque, che le strutture megalitiche rinvenute sono una chiara testimonianza della cultura della pietra delle popolazioni neolitiche vissute in quest’area calabrese probabilmente fra il III e il II millennio a.C.”.
F.G.: Parliamo, quindi, del periodo Neolitico. Sembrerebbe che la popolazione qui vissuta, sia da considerare più avanzata rispetto a quello che ci si aspetterebbe in relazione a popoli neolitici.
A.G.: “Il termine Neolitico, indicante la recente età della pietra, è stato coniato nel 1865 dall’inglese J. Lubbock, naturalista e archeologo, e individua, nella sua interpretazione evoluzionista dell’epoca preistorica, l’Età della Pietra levigata, posteriore al Paleolitico, anteriore all’Età del Bronzo e risalente, in media, all’VIII millennio a.C. con inizio, durata e sviluppo vari a seconda delle zone. Il Neolitico è caratterizzato da profondi mutamenti che hanno modificato gli aspetti tecnologici, ma soprattutto quelli economici e sociali dei popoli preistorici. Per questi ultimi due aspetti l’archeologo australiano Gordon Childe riconduce i suddetti profondi mutamenti alla rivoluzione agricola e a quella urbana, la prima indotta dai cambiamenti climatici che, con l’ultima glaciazione (20.000-15.000 anni fa), chiusero il Pleistocene (1.800.000-20.000/15.000 anni fa) caratterizzando l’inizio dell’Olocene, nel cui ambito si inquadra il Neolitico. I più evidenti indicatori materiali dell’avvenuta neolitizzazione dei gruppi umani sono gli strumenti in pietra levigata e i recipienti ceramici. Si intuisce, pertanto, che il termine Neolitico condensa una serie di processi socio-economici molto complessi, per cui, pur rimanendo valido il riferimento a tale ambito temporale, l’evoluzione delle popolazioni del Tardo Neolitico (III-II millennio a.C.) deve ritenersi molto più avanzata di quella dei popoli del Neolitico iniziale. Nel caso dei ritrovamenti di Nardodipace e dei territori confinanti, pur mancando al momento riferimenti temporali certi e oggettivi, la stessa realizzazione architettonica di questo enorme complesso testimonia un grado di evoluzione molto alto per le popolazioni delle Serre calabresi, il che giustifica la collocazione dei ritrovamenti verso la fine del Neolitico, ossia nell’Eneolitico (dal latino aeneus = di rame e dal greco lithos = pietra), periodo nel quale accanto agli strumenti di pietra appaiono quelli fabbricati in rame. A detta epoca, che sembra aver avuto origine in Iran e in Mesopotamia per poi estendersi in Occidente, dove si sviluppò intorno al 2500 a.C., va ascritta la diffusione dei monumenti megalitici”.

F.G.: Questo ritrovamento è da considerarsi come un’importante scoperta archeologica. Ma c’è chi ritiene che tali resti non siano assolutamente opera dell’uomo.
A.G.: “Va sottolineato che occorre parlare di ritrovamenti di strutture megalitiche e ciclopiche, quando i blocchi superano le 200 tonnellate. In questo caso essi sono distribuiti su un territorio la cui estensione è al momento stimata nell’ordine di 60 km2, che diventano 20 km2 se ci limitiamo al solo comprensorio di Nardodipace. Enorme, quindi. Ne consegue che si tratta certamente di un’importante scoperta archeologica, soprattutto, perché è il primo caso documentato, per quanto di mia conoscenza, di ritrovamenti neolitici in una zona montana, diversamente cioé dai noti rinvenimenti lungo pianure costiere e fluviali della Calabria. Tale scoperta rappresenta, tra l’altro, la spinta iniziale a una serie di ricerche in altre aree montane calabresi dove, ne sono certo, si perverrà a ritrovamenti analoghi. Ci sono state, come ovvio, delle voci discordanti che hanno voluto vedere, tralasciando le fantasticherie di interventi di extraterrestri o di cadute di meteoriti, una genesi naturale e non umana di queste ciclopiche strutture megalitiche, formate di duri e resistenti blocchi granitici. Per qualcuno si tratterebbe di affioramenti derivanti da fenomeni di erosione naturale nelle rocce di granito, che avrebbe come risultato la costituzione di ammassi rocciosi di aspetto prismatico o sferoidale, note in geologia come ‘Tor’. Per quest’ultima analisi, in particolare, mi riferisco alle dichiarazioni di un ‘controllore geologo’ che la Soprintendenza ha inviato sui luoghi per verificare l’effettivo valore archeologico da me attribuito alle strutture”.

F.G.: Lei però è un geologo. Il suo parere è importante per poter affermare con sicurezza che i reperti non sono opera della natura…
A.G.: “Per quanto i blocchi dei triliti possano presentare facce piane derivanti da attività tettoniche preesistenti che hanno agevolato la loro estrazione dalla cava, vi sono diversi indizi dell’intervento umano per la loro erezione:
• la cura nell’assemblaggio dei blocchi;
• la grande attenzione agli incastri fra gli elementi contigui, che, nel caso degli ‘architravi’ era agevolata da geometrie ‘a conca’ prodotte da lavorazioni con lo scalpello;
• la loro disposizione geometrica a rappresentare una vera e propria ‘architettura’, con piani o basi di appoggio squadrate su cui gravano i ‘pilastri’ costituiti a loro volta da blocchi di aspetto più o meno geometrico (cubico o parallelepipedo). Questi ultimi recano, talora, incisi ‘pittogrammi’;
• la presenza di ‘piste’ di ampiezza variabile da 1,5 a 4 m, e generalmente disposte lungo i crinali montuosi, delimitate da blocchi squadrati e ben allineati. Tutto ciò garantisce la natura antropica di queste costruzioni. Le strutture rinvenute si presentano molto spesso sotto forma di ‘macerie’, cioè con i blocchi disposti in maniera casuale sul terreno, e talvolta gravanti su ‘tumuli’ artificiali. Il disfacimento della geometria originaria è da ricondursi ai numerosi sismi, alcuni di grande impatto energetico, che da sempre colpiscono l’area in esame”.

F.G.: È stata contattata anche la Soprintendenza ai Beni Culturali. Con quale risultato?
A.G.: “Per quanto sia comprensibile un atteggiamento prudenziale da parte della Soprintendenza, è sorprendente dover registrare una certa freddezza e un notevole distacco nei riguardi di una scoperta di tale valenza. È mancata sinora una collaborazione fattiva e sinergica indispensabile per pervenire a una corretta interpretazione geologica storica e archeologica, come invece imporrebbe la scoperta. A questo riguardo vorrei ricordare che lo stesso Vincenzo Nadile aveva già provveduto in precedenza a segnalare alla Soprintendenza, senza ricevere riscontri, l’esistenza di un ritrovamento di interesse archeologico nel territorio di Nardodipace”.

F.G.: Attorno a questa scoperta girano voci che riferiscono l’esistenza della tomba del mitico Re Italo di aristotelica memoria. Cosa c’è di vero?
A.G.: “Come anticipato in premessa, non dispongo delle competenze specifiche per addentrarmi in valutazioni di questo tipo. Si può solo ricordare che il Re Italo, eroe italico è, comunque, di origine incerta e circondato da un alone di leggenda che lo definisce ‘Signore dell’Italia meridionale’, lodando la bontà e la saggezza del suo operato. Dal suo nome Aristotele derivò l’appellativo di Italia per la nostra terra. In ogni caso, più che di ‘tomba’ nel senso classico del termine, eventualmente parlerei di un ‘monumento sepolcrale’ eretto in onore dell’importante personaggio di probabile provenienza cretese”.
F.G.: Nei vostri sopralluoghi avete notato incisioni nei blocchi granitici riconducibili a una qualche forma di iscrizione?
A.G.: “I blocchi e gli ammassi granitici mostrano forme geometriche derivanti da lavorazioni con utensili certamente più duri della già dura e compatta roccia granitica. Vi è però la presenza di alcuni pittogrammi al momento limitati a lettere di tipo ‘l’ (lambda), ‘c’ (chi), ‘t’ (tau), ‘z’ (zeta). In uno dei blocchi di granito del primo ritrovamento in località Sambuco si legge la scritta ‘IO’ con caratteri alti circa 50 cm. A breve distanza, un altro blocco mostra un bassorilievo con una vaga forma di sole a sette raggi, indicativi forse del solstizio di estate, data nella quale le popolazioni potevano riprendere il mare, mentre la figura del sole poteva far riferimento al culto di tale divinità”.

F.G.: Un quesito importante, a questo punto: tali enormi blocchi di granito, da dove provengono? E, soprattutto, come sono stati portati in loco?
A.G.: “L’intero territorio delle serre vibonesi e, in particolare, quello di Nardodipace sono costituiti da rocce magmatiche intrusive di tipo granitico, la cui età risale al Paleozoico superiore (Carbonifero superiore-Permiano inferiore) ossia circa 290÷270 milioni di anni fa, denominate Batolite di Stilo. Le suddette rocce intrusive sono attraversate da sistemi di fratture di origine tettonica e gravitativa. Ne deriva una disomogeneità che ne facilita l’estrazione dalle cave. E’ verosimile che alcune strutture, soprattutto, quelle disposte lungo i versanti dei numerosi rilievi della zona, siano state realizzate estraendo blocchi di roccia dura dalla sommità dei rilievi stessi, facendoli poi scendere, con l’ausilio di ‘rulli’ lignei e di argani, lungo i versanti attraverso la realizzazione di ‘piste’, di cui attualmente si osservano le delimitazioni costituite da massi squadrati regolarmente allineati. La messa in loco dei blocchi e la giustapposizione reciproca, sarebbe stata agevolata da una serie di strutture, sopraelevate rispetto al suolo, appositamente realizzate e, quindi, rimosse. È presente, comunque, sul versante meridionale del Monte Pietra Spada (1140 m) una chiara evidenza di un’antica cava in cui si notano diversi pinnacoli rocciosi di 3-4 m di altezza rappresentanti il residuo non cavato delle attività di estrazione. Tale interpretazione è confermata dal fatto che la cava è ubicata a una quota maggiore rispetto alle aree sede delle strutture megalitiche e ciclopiche. Nella stessa zona vi sono blocchi appena distaccati dall’ammasso roccioso secondo le fratture preesistenti destinati poi ad essere lavorati e successivamente trasportati e altri, già sagomati, disposti poco più a valle lungo il versante della cava. È in questa zona che, con buona probabilità, potranno essere rinvenuti gli utensili (leve, asce, mazze, ecc.) impiegati nell’estrazione e nella lavorazione dei blocchi. Si può ragionevolmente ritenere che in qualche caso i blocchi abbiano subìto trasferimenti fino a 5 km in linea d’aria dalla cava di Monte Pietra Spada, utilizzando le tecniche indicate”.

F.G.: Ci è giunta voce che anche un’università americana sembra si interessi al sito.
A.G.: “Il professor Robert Winter, del Rayne College Hichory della North Carolina, archeologo esperto in simbolismi e pittogrammi e già operante nella zona dell’Aspromonte, assieme al professor Raso, pare interessato a un suo coinvolgimento soprattutto per lo studio e l’interpretazione dei segni scolpiti su alcuni blocchi granitici, il che certamente potrà essere di grande aiuto anche per una più precisa interpretazione della funzione delle strutture rinvenute e dell’origine delle popolazioni che le hanno realizzate”.

F.G.: Ritorniamo per un attimo ai simboli incisi ritrovati sulle rocce. In una delle iscrizioni scoperte sembra esserci, quindi, un riferimento alle popolazioni giunte dal mare. Qual è il suo pensiero, a cosa crede si riferissero gli antichi frequentatori del luogo?
A.G.: “Da alcuni scambi di informazioni con il prof. Raso parrebbero popolazioni giunte dal mare e che con quest’ultimo avessero un continuo rapporto, stabilitesi nell’area ove attualmente sorge l’abitato di Caulonia. Una struttura costituita da ‘Tor’ (a una quota di 1.170 m) a ovest di Monte Pietra Sombrase (1.221 m) presenta una chiara incisione che potrebbe vagamente assomigliare a un’immagine umana, forse di donna. Nell’interpretazione data dal professor Raso, potrebbe trattarsi di una ‘n’ (ni greca) sovrastata da una ‘c’ che starebbe a significare ‘tutti (la ‘c’) morti in navigazione (la ‘n’)’. Sembra, quindi, farsi riferimento a ‘signori del mare’ periti in navigazione”.

F.G.: Sono previste ulteriori indagini prospettive con riferimento a possibili tumuli?
A.G.: “È in programma l’attivazione di una campagna di indagini geologiche non distruttive con l’utilizzo di tecniche magnetometriche, del georadar e della geoelettrica, realizzando, in dettaglio, una mappa ad alta risoluzione del sottosuolo. Tale campagna sarà integrata da un rilievo aerofotogrammetrico all’infrarosso a medio-bassa quota, utile a causa della fitta vegetazione che caratterizza la quasi totalità dei siti in esame e che rende difficoltose le ricerche da terra. Inoltre, si prevede uno studio di datazione assoluta con il metodo del C-14 per individuare l’intervallo temporale di riferimento di reperti (residui di materiale organico, cocci, vasellame o quant’altro) che potranno essere rinvenuti in corrispondenza delle emergenze archeologiche e a seguito di scavi”.

F.G.: Cosa dobbiamo aspettarci da queste ulteriori ricerche?
A.G.: “Innanzitutto, si auspica il rinvenimento di utensili con i quali sono stati sagomati i blocchi rocciosi costituenti le strutture megalitiche e di vasellame che consentano una più precisa datazione di queste ultime, un’identificazione delle popolazioni di quel periodo e un’eventuale ubicazione di una loro città di montagna.
La ricerca è anche ovviamente finalizzata all’individuazione di ulteriori emergenze, con particolare riferimento a eventuali strutture subsuperficiali nei pressi dei blocchi granitici esistenti, a oggi ancora non identificate ma che, dall’esame di cartografie topografiche e di foto aeree stereoscopiche, si intuisce siano presenti su un territorio molto più esteso di quello sinora investigato”.

F.G.: In altri siti archeologici risalenti al Neolitico, si è potuto appurare che la disposizione dei massi riproduce o inquadra particolari riferimenti astronomici. Il sito di Nardodipace segue la stessa impostazione?
A.G.: “Sarà compito dell’archeo-astronomia stabilire se la disposizione delle strutture megalitiche e ciclopiche dei territori di Nardodipace, Serra S. Bruno e Stilo possa essere ricondotta a configurazioni di costellazioni celesti o ad altri riferimenti astronomici. A livello intuitivo, senza la benché minima pretesa di fornire una validità scientifica a quanto dirò, mi sento di azzardare una rassomiglianza tra la disposizione planimetrica delle strutture prima ricordate e la conformazione della costellazione dello Scorpione o di quella di Bootes, in cui primeggia la stella Arturo. Non me ne vorranno gli archeoastronomi se venisse fuori, invece, che trattasi del Piccolo Carro, come visibile 2.000-3.000 anni fa, in cui le strutture ciclopiche di Pietra del Caricatore, che in planimetria si collocano esattamente a nord del comprensorio dei ritrovamenti, corrispondono alla Stella Polare… ma è questa è solo una battuta scherzosa!”.

F.G.: Bene professor Guerricchio, ci auguriamo che questa scoperta possa avere l’attenzione che merita. A.G.: “Grazie a HERA per lo spazio concesso. L’aspetto a Nardodipace per mostrarLe i risultati delle nostre future ricerche”. •

 


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