La Calabria è da sempre luogo intriso di leggende. In special modo
la zona ionica, nel territorio delle serre vibonesi, ove è collocato
il comune di Nardodipace. Luoghi in cui si narra di misteriose
“chiocce dai pulcini d’oro”, di neonati da immolare per ottenere la
conoscenza dell’ubicazione di un tesoro nascosto. Luoghi in cui la
credenza popolare vietava di avventurarsi, ma alcuni “temerari”,
violando il tabù popolare, hanno scoperto recentemente una serie di
strutture megalitiche che coprono un vasto territorio. Sono attese
ulteriori verifiche, ma dalle ricerche sinora svolte pare proprio
siano opera umana. Un uomo risalente al Neolitico, vale a dire il
periodo che va dal V al III millennio a.C. Una notizia che, sebbene
all’estero abbia generato molto clamore, in Italia non ha ricevuto
l’eco che merita. La particolarità di queste strutture è che si
tratta di “triliti”, una forma che riscontriamo principalmente nel
megalitismo bretone e in particolare nella nota Stonehenge. Una
scoperta archeologica che assume un’importanza fondamentale nel
panorama della preistoria italiana e delle sue genti per diversi
motivi. La peculiarità morfologica di questo territorio, sovente
soggetto a movimenti tellurici, tenderebbe, infatti, a escludere il
suo utilizzo per l’erezione di strutture artificiali.
Ma la particolarità della scoperta riguarda soprattutto il fatto che
l’area interessata dai megaliti risulta enorme. Secondo quanto
rilevato dal team di studiosi, guidati dal professor Alessandro
Guerricchio, ordinario di Geologia dell’Università della Calabria,
queste strutture offrono un grande contributo allo studio della
civiltà neolitica insediata nel nostro paese e in particolare in
zone montane come quelle delle serre vibonesi. Sono stati
fotografati blocchi di granito del peso stimato di oltre 200
tonnellate, grandi mura, probabilmente di fortificazione, pilastri
sormontati da un “architrave”. Il tutto è parte di un vasto progetto
che impegnò per la sua erezione notevoli forze umane. Un popolo che
senza dubbio aveva un’organizzazione militare o sacerdotale che gli
permetteva di coordinare gli enormi sforzi necessari all’estrazione
e al trasporto degli enormi blocchi di granito ritrovati a
Nardodipace. La scoperta è stata segnalata da un appassionato di
archeologia che, ritenendo quelle zone quantomeno “particolari” dal
punto di vista morfologico, ha voluto rendere partecipe il comune di
Nardodipace, il quale ha contattato l’Università della Calabria. Il
ruolo del professor Guerricchio, diventa fondamentale in questa
vicenda.
Il perché è presto detto: il sito identificato non sarebbe, a detta
di molti archeologi, opera dell’uomo, ma della forza della natura.
Guerricchio, dopo numerosi sopralluoghi è giunto alla conclusione,
da geologo, che questi “ammassi rocciosi” non sono capitati lì per
caso, ma vi sono stati portati dall’uomo e disposti secondo un
preciso ordine.
Come finirà la vicenda non è ancora chiaro. Quel che è certo è che
il comune di Nardodipace si sta adoperando affinché sia istituito
una sorta di “parco del Neolitico” basato sulla scoperta di
Guerricchio. Nel frattempo, alcune università americane stanno
effettuando indagini sul posto. Solo un’intervista con il diretto
interessato avrebbe potuto fornirci le informazioni utili a saperne
di più sulla scoperta. Abbiamo pertanto raggiunto il professor
Guerricchio che ci ha fornito gentilmente la sua collaborazione.
Francesco Garufi: Professor Guerricchio, può parlarci della
scoperta che avete realizzato in Calabria?
Alessandro Guerricchio: “Vorrei sottolineare per prima cosa che la
mia testimonianza è fatta a nome di tutti i componenti del gruppo di
studio che alla fine di settembre 2002 ha presentato i risultati
delle ricerche sino ad allora svolte nel convegno tenutosi a Scalea
(CS) intitolato Preistoria e Protostoria della Calabria, organizzato
dall’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, dalla
Soprintendenza Archeologica della Calabria e dalla Soprintendenza
Speciale al Museo Nazionale Preistorico Etnografico ‘Luigi Pigorini’
di Roma. Detto gruppo di lavoro è costituito, oltre che dal
sottoscritto, dagli ingegneri Valeria Biamonte, Roberto Mastromattei
e Maurizio Ponte, dal dottor Marco Guerricchio e da Vincenzo Nadile
e Alberto Pozzi. Devo precisare che per gli aspetti più
squisitamente storico-archeologici mi limiterò all’essenziale in
quanto non dispongo di una specifica competenza, essendo professore
ordinario di Geologia Applicata in una Facoltà di Ingegneria. La
scoperta è stata realizzata nel territorio comunale di Nardodipace
(VV) a seguito di una serie di rilevamenti di campagna, integrati
dall’esame di fotografie aeree stereoscopiche. Durante questi
rilevamenti sono stati individuati, in località Sambuco e Ladi, a
circa 1 km dal centro abitato, i resti di cinque strutture
megalitiche e ciclopiche, definibili sia come ‘dolmen’, sia come una
sorta di ‘triliti’, strutture originariamente costituite da tre
pietre, due ‘pilastri’ rocciosi chiusi alla in sommità da un ‘architrave’.
Tali ritrovamenti hanno costituito oggetto di tre relazioni inviate
all’Amministrazione comunale di Nardodipace la quale,
successivamente, ha comunicato che vi era già stata una prima
segnalazione ufficiale alla Soprintendenza di un ritrovamento di
interesse archeologico in quel territorio da parte del sig.Vincenzo
Nadile, senza che però vi fosse alcun riscontro da parte della
stessa autorità. Le prime cinque scoperte hanno suggerito di
estendere il rilevamento geologico-archeologico, stavolta con il
coinvolgimento del sig. Nadile, dapprima ad altre località del
territorio di Nardodipace e poi agli adiacenti territori comunali di
Serra S. Bruno (VV) e di Stilo (RC), in particolare nelle zone di
Monte Pecoraro e di Pietra del Caricatore. L’analisi di quest’area
molto più estesa ha consentito l’individuazione di numerose altre
strutture, in pochi casi fra loro raffrontabili ma prevalentemente
dotate di una loro configurazione autonoma, in termini di forma
geometrica e di dimensione. Non desidero avventurarmi in valutazioni
di valenza archeologica per formulare un’interpretazione attendibile
della funzione a suo tempo svolta da queste ‘strutture’, ma a esse
si possono estendere considerazioni valide per altre strutture
megalitiche italiane ed europee, la cui realizzazione ha certamente
richiesto un enorme dispendio di energia umana, possibile solo se
tale popolo era dotato di una precisa organizzazione sociale e
sostenibile soltanto in base a profonde motivazioni cultuali.
Qualsiasi altra funzione avrebbe potuto essere assolta con strutture
costituite da elementi molto più piccoli e, conseguentemente, con
dispendio di mezzi ed energie molto inferiori. Anche eventuali
funzioni difensive non giustificano il trasporto e l’erezione dei
monoliti delle dimensioni osservate in quelle zone. Inoltre, il
concetto di struttura difensiva, pur ipotizzato, lascia qualche
perplessità per la presenza di diversi ingressi individuati in
alcune di queste vestigia ‘trilitiche’ e che, a rigor di logica,
vanificherebbe la funzione esclusivamente o prevalentemente
militare. Tale interpretazione è stata inizialmente presa in
considerazione per l’alto numero di tali strutture megalitiche, non
solo nel territorio di Nardodipace, ma anche in quelli confinanti,
quasi a rappresentare una cinta muraria a difesa di un abitato,
ubicabile, forse,
nella zona ove attualmente sorge Nardodipace Nuovo. Successivamente,
però, il ritrovamento di blocchi di forma e dimensioni completamente
diverse e l’assenza quasi sistematica delle mura di collegamento fra
strutture megalitiche contigue ha condotto ad accantonare, almeno
per il momento, l’interpretazione di cinta muraria, privilegiando,
in quanto più realistica, la funzione di tipo sacrale e sepolcrale.
E’ ipotizzabile che chi guidava questa comunità, il detentore del
potere (religioso o temporale), abbia richiesto questi enormi sforzi
nei periodi dell’anno in cui la lavorazione dei campi non impegnava
la popolazione. Nel caso dovesse prevalere, a seguito di ulteriori
studi e approfondimenti, l’interpretazione cultuale e sepolcrale,
nulla esclude che le popolazioni legate a questi megaliti vivessero
ad altitudini meno elevate di quelle delle strutture e che ci fosse
una sorta di attività sacrale da svolgersi in montagna, che in
effetti, da sempre rappresenta un luogo di avvicinamento alla
divinità (per gli antichi era addirittura la sua sede N.d.R.). Noi
speriamo nel contributo della componente archeologica ufficiale,
unitamente all’analisi di eventuali reperti derivanti da una
campagna sistematica di scavi. È certo, comunque, che le strutture
megalitiche rinvenute sono una chiara testimonianza della cultura
della pietra delle popolazioni neolitiche vissute in quest’area
calabrese probabilmente fra il III e il II millennio a.C.”.
F.G.: Parliamo, quindi, del periodo Neolitico. Sembrerebbe che la
popolazione qui vissuta, sia da considerare più avanzata rispetto a
quello che ci si aspetterebbe in relazione a popoli neolitici.
A.G.: “Il termine Neolitico, indicante la recente età della pietra,
è stato coniato nel 1865 dall’inglese J. Lubbock, naturalista e
archeologo, e individua, nella sua interpretazione evoluzionista
dell’epoca preistorica, l’Età della Pietra levigata, posteriore al
Paleolitico, anteriore all’Età del Bronzo e risalente, in media,
all’VIII millennio a.C. con inizio, durata e sviluppo vari a seconda
delle zone. Il Neolitico è caratterizzato da profondi mutamenti che
hanno modificato gli aspetti tecnologici, ma soprattutto quelli
economici e sociali dei popoli preistorici. Per questi ultimi due
aspetti l’archeologo australiano Gordon Childe riconduce i suddetti
profondi mutamenti alla rivoluzione agricola e a quella urbana, la
prima indotta dai cambiamenti climatici che, con l’ultima
glaciazione (20.000-15.000 anni fa), chiusero il Pleistocene
(1.800.000-20.000/15.000 anni fa) caratterizzando l’inizio
dell’Olocene, nel cui ambito si inquadra il Neolitico. I più
evidenti indicatori materiali dell’avvenuta neolitizzazione dei
gruppi umani sono gli strumenti in pietra levigata e i recipienti
ceramici. Si intuisce, pertanto, che il termine Neolitico condensa
una serie di processi socio-economici molto complessi, per cui, pur
rimanendo valido il riferimento a tale ambito temporale,
l’evoluzione delle popolazioni del Tardo Neolitico (III-II millennio
a.C.) deve ritenersi molto più avanzata di quella dei popoli del
Neolitico iniziale. Nel caso dei ritrovamenti di Nardodipace e dei
territori confinanti, pur mancando al momento riferimenti temporali
certi e oggettivi, la stessa realizzazione architettonica di questo
enorme complesso testimonia un grado di evoluzione molto alto per le
popolazioni delle Serre calabresi, il che giustifica
la collocazione dei ritrovamenti verso la fine del Neolitico, ossia
nell’Eneolitico (dal latino aeneus = di rame e dal greco lithos =
pietra), periodo nel quale accanto agli strumenti di pietra appaiono
quelli fabbricati in rame. A detta epoca, che sembra aver avuto
origine in Iran e in Mesopotamia per poi estendersi in Occidente,
dove si sviluppò intorno al 2500 a.C., va ascritta la diffusione dei
monumenti megalitici”.
F.G.: Questo ritrovamento è da considerarsi come un’importante
scoperta archeologica. Ma c’è chi ritiene che tali resti non siano
assolutamente opera dell’uomo.
A.G.: “Va sottolineato che occorre parlare di ritrovamenti di
strutture megalitiche e ciclopiche, quando i blocchi superano le 200
tonnellate. In questo caso essi sono distribuiti su un territorio la
cui estensione è al momento stimata nell’ordine di 60 km2, che
diventano 20 km2 se ci limitiamo al solo comprensorio di Nardodipace.
Enorme, quindi. Ne consegue che si tratta certamente di
un’importante scoperta archeologica, soprattutto, perché è il primo
caso documentato, per quanto di mia conoscenza, di ritrovamenti
neolitici in una zona montana, diversamente cioé dai noti
rinvenimenti lungo pianure costiere e fluviali della Calabria. Tale
scoperta rappresenta, tra l’altro, la spinta iniziale a una serie di
ricerche in altre aree montane calabresi dove, ne sono certo, si
perverrà a ritrovamenti analoghi. Ci sono state, come ovvio, delle
voci discordanti che hanno voluto vedere, tralasciando le
fantasticherie di interventi di extraterrestri o di cadute di
meteoriti, una genesi naturale e non umana di queste ciclopiche
strutture megalitiche, formate di duri e resistenti blocchi
granitici. Per qualcuno si tratterebbe di affioramenti derivanti da
fenomeni di erosione naturale nelle rocce di granito, che avrebbe
come risultato la costituzione di ammassi rocciosi di aspetto
prismatico o sferoidale, note in geologia come ‘Tor’. Per quest’ultima
analisi, in particolare, mi riferisco alle dichiarazioni di un
‘controllore geologo’ che la Soprintendenza ha inviato sui luoghi
per verificare l’effettivo valore archeologico da me attribuito alle
strutture”.
F.G.: Lei però è un geologo. Il suo parere è importante per poter
affermare con sicurezza che i reperti non sono opera della natura…
A.G.: “Per quanto i blocchi dei triliti possano presentare facce
piane derivanti da attività tettoniche preesistenti che hanno
agevolato la loro estrazione dalla cava, vi sono diversi indizi
dell’intervento umano per la loro erezione:
• la cura nell’assemblaggio dei blocchi;
• la grande attenzione agli incastri fra gli elementi contigui, che,
nel caso degli ‘architravi’ era agevolata da geometrie ‘a conca’
prodotte da lavorazioni con lo scalpello;
• la loro disposizione geometrica a rappresentare una vera e propria
‘architettura’, con piani o basi di appoggio squadrate su cui
gravano i ‘pilastri’ costituiti a loro volta da blocchi di aspetto
più o meno geometrico (cubico o parallelepipedo). Questi ultimi
recano, talora, incisi ‘pittogrammi’;
• la presenza di ‘piste’ di ampiezza variabile da 1,5 a 4 m, e
generalmente disposte lungo i crinali montuosi, delimitate da
blocchi squadrati e ben allineati. Tutto ciò garantisce la natura
antropica di queste costruzioni. Le strutture rinvenute si
presentano molto spesso sotto forma di ‘macerie’, cioè con i blocchi
disposti in maniera casuale sul terreno, e talvolta gravanti su
‘tumuli’ artificiali. Il disfacimento della geometria originaria è
da ricondursi ai numerosi sismi, alcuni di grande impatto
energetico, che da sempre colpiscono l’area in esame”.
F.G.: È stata contattata anche la Soprintendenza ai Beni
Culturali. Con quale risultato?
A.G.: “Per quanto sia comprensibile un atteggiamento prudenziale da
parte della Soprintendenza, è sorprendente dover registrare una
certa freddezza e un notevole distacco nei riguardi di una scoperta
di tale valenza. È mancata sinora una collaborazione fattiva e
sinergica indispensabile per pervenire a una corretta
interpretazione geologica storica e archeologica, come invece
imporrebbe la scoperta.
A questo riguardo vorrei ricordare che lo stesso Vincenzo Nadile
aveva già provveduto in precedenza a segnalare alla Soprintendenza,
senza ricevere riscontri, l’esistenza di un ritrovamento di
interesse archeologico nel territorio di Nardodipace”.
F.G.: Attorno a questa scoperta girano voci che riferiscono
l’esistenza della tomba del mitico Re Italo di aristotelica memoria.
Cosa c’è di vero?
A.G.: “Come anticipato in premessa, non dispongo delle competenze
specifiche per addentrarmi in valutazioni di questo tipo. Si può
solo ricordare che il Re Italo, eroe italico è, comunque, di origine
incerta e circondato da un alone di leggenda che lo definisce
‘Signore dell’Italia meridionale’, lodando la bontà e la saggezza
del suo operato. Dal suo nome Aristotele derivò l’appellativo di
Italia per la nostra terra. In ogni caso, più che di ‘tomba’ nel
senso classico del termine, eventualmente parlerei di un ‘monumento
sepolcrale’ eretto in onore dell’importante personaggio di probabile
provenienza cretese”.
F.G.: Nei vostri sopralluoghi avete notato incisioni nei blocchi
granitici riconducibili a una qualche forma di iscrizione?
A.G.: “I blocchi e gli ammassi granitici mostrano forme geometriche
derivanti da lavorazioni con utensili certamente più duri della già
dura e compatta roccia granitica. Vi è però la presenza di alcuni
pittogrammi al momento limitati a lettere di tipo ‘l’ (lambda), ‘c’
(chi), ‘t’ (tau), ‘z’ (zeta). In uno dei blocchi di granito del
primo ritrovamento in località Sambuco si legge la scritta ‘IO’ con
caratteri alti circa 50 cm. A breve distanza, un altro blocco mostra
un bassorilievo con una vaga forma di sole a sette raggi, indicativi
forse del solstizio di estate, data nella quale le popolazioni
potevano riprendere il mare, mentre la figura del sole poteva far
riferimento al culto di tale divinità”.
F.G.: Un quesito importante, a questo punto: tali enormi blocchi
di granito, da dove provengono? E, soprattutto, come sono stati
portati in loco?
A.G.: “L’intero territorio delle serre vibonesi e, in particolare,
quello di Nardodipace sono costituiti da rocce magmatiche intrusive
di tipo granitico, la cui età risale al Paleozoico superiore
(Carbonifero superiore-Permiano inferiore) ossia circa 290÷270
milioni di anni fa, denominate Batolite di Stilo. Le suddette rocce
intrusive sono attraversate da sistemi di fratture di origine
tettonica e gravitativa. Ne deriva una disomogeneità che ne facilita
l’estrazione dalle cave. E’ verosimile che alcune strutture,
soprattutto, quelle disposte lungo i versanti dei numerosi rilievi
della zona, siano state realizzate estraendo blocchi di roccia dura
dalla sommità dei rilievi stessi, facendoli poi scendere, con
l’ausilio di ‘rulli’ lignei e di argani,
lungo i versanti attraverso la realizzazione di ‘piste’, di cui
attualmente si osservano le delimitazioni costituite da massi
squadrati regolarmente allineati. La messa in loco dei blocchi e la
giustapposizione reciproca, sarebbe stata agevolata da una serie di
strutture, sopraelevate rispetto al suolo, appositamente realizzate
e, quindi, rimosse. È presente, comunque, sul versante meridionale
del Monte Pietra Spada (1140 m) una chiara evidenza di un’antica
cava in cui si notano diversi pinnacoli rocciosi di 3-4 m di altezza
rappresentanti il residuo non cavato delle attività di estrazione.
Tale interpretazione è confermata dal fatto che la cava è ubicata a
una quota maggiore rispetto alle aree sede delle strutture
megalitiche e ciclopiche. Nella stessa zona vi sono blocchi appena
distaccati dall’ammasso roccioso secondo le fratture preesistenti
destinati poi ad essere lavorati e successivamente trasportati e
altri, già sagomati, disposti poco più a valle lungo il versante
della cava. È in questa zona che, con buona probabilità, potranno
essere rinvenuti gli utensili (leve, asce, mazze, ecc.) impiegati
nell’estrazione e nella lavorazione dei blocchi. Si può
ragionevolmente ritenere che in qualche caso i blocchi abbiano
subìto trasferimenti fino a 5 km in linea d’aria dalla cava di Monte
Pietra Spada, utilizzando le tecniche indicate”.
F.G.: Ci è giunta voce che anche un’università americana sembra
si interessi al sito.
A.G.: “Il professor Robert Winter, del Rayne College Hichory della
North Carolina, archeologo esperto in simbolismi e pittogrammi e già
operante nella zona dell’Aspromonte, assieme al professor Raso, pare
interessato a un suo coinvolgimento soprattutto per lo studio e
l’interpretazione dei segni scolpiti su alcuni blocchi granitici, il
che certamente potrà essere di grande aiuto anche per una più
precisa interpretazione della funzione delle strutture rinvenute e
dell’origine delle popolazioni che le hanno realizzate”.
F.G.: Ritorniamo per un attimo ai simboli incisi ritrovati sulle
rocce. In una delle iscrizioni scoperte sembra esserci, quindi, un
riferimento alle popolazioni giunte dal mare. Qual è il suo
pensiero, a cosa crede si riferissero gli antichi frequentatori del
luogo?
A.G.: “Da alcuni scambi di informazioni con il prof. Raso parrebbero
popolazioni giunte dal mare e che con quest’ultimo avessero un
continuo rapporto, stabilitesi nell’area ove attualmente sorge
l’abitato di Caulonia. Una struttura costituita da ‘Tor’ (a una
quota di 1.170 m) a ovest di Monte Pietra Sombrase (1.221 m)
presenta una chiara incisione che potrebbe vagamente assomigliare a
un’immagine umana, forse di donna. Nell’interpretazione data dal
professor Raso, potrebbe trattarsi di una ‘n’ (ni greca) sovrastata
da una ‘c’ che starebbe a significare ‘tutti (la ‘c’) morti in
navigazione (la ‘n’)’. Sembra, quindi, farsi riferimento a ‘signori
del mare’ periti in navigazione”.
F.G.: Sono previste ulteriori indagini prospettive con
riferimento a possibili tumuli?
A.G.: “È in programma l’attivazione di una campagna di indagini
geologiche non distruttive con l’utilizzo di tecniche
magnetometriche, del georadar e della geoelettrica, realizzando, in
dettaglio, una mappa ad alta risoluzione del sottosuolo. Tale
campagna sarà integrata da un rilievo aerofotogrammetrico
all’infrarosso a medio-bassa quota, utile a causa della fitta
vegetazione che caratterizza la quasi totalità dei siti in esame e
che rende difficoltose le ricerche da terra. Inoltre, si prevede uno
studio di datazione assoluta con il metodo del C-14 per individuare
l’intervallo temporale di riferimento di reperti (residui di
materiale organico, cocci, vasellame o quant’altro) che potranno
essere rinvenuti in corrispondenza delle emergenze archeologiche e a
seguito di scavi”.
F.G.: Cosa dobbiamo aspettarci da queste ulteriori ricerche?
A.G.: “Innanzitutto, si auspica il rinvenimento di utensili con i
quali sono stati sagomati i blocchi rocciosi costituenti le
strutture megalitiche e di vasellame che consentano una più precisa
datazione di queste ultime, un’identificazione delle popolazioni di
quel periodo e un’eventuale ubicazione di una loro città di
montagna.
La ricerca è anche ovviamente finalizzata all’individuazione di
ulteriori emergenze, con particolare riferimento a eventuali
strutture subsuperficiali nei pressi dei blocchi granitici
esistenti, a oggi ancora non identificate ma che, dall’esame di
cartografie topografiche e di foto aeree stereoscopiche, si intuisce
siano presenti su un territorio molto più esteso di quello sinora
investigato”.
F.G.: In altri siti archeologici risalenti al Neolitico, si è
potuto appurare che la disposizione dei massi riproduce o inquadra
particolari riferimenti astronomici. Il sito di Nardodipace segue la
stessa impostazione?
A.G.: “Sarà compito dell’archeo-astronomia
stabilire se la disposizione delle strutture megalitiche e
ciclopiche dei territori di Nardodipace, Serra S. Bruno e Stilo
possa essere ricondotta a configurazioni di costellazioni celesti o
ad altri riferimenti astronomici. A livello intuitivo, senza la
benché minima pretesa di fornire una validità scientifica a quanto
dirò, mi sento di azzardare una rassomiglianza tra la disposizione
planimetrica delle strutture prima ricordate e la conformazione
della costellazione dello Scorpione o di quella di Bootes, in cui
primeggia la stella Arturo. Non me ne vorranno gli archeoastronomi
se venisse fuori, invece, che trattasi del Piccolo Carro, come
visibile 2.000-3.000 anni fa, in cui le strutture ciclopiche di
Pietra del Caricatore, che in planimetria si collocano esattamente a
nord del comprensorio dei ritrovamenti, corrispondono alla Stella
Polare… ma è questa è solo una battuta scherzosa!”.
F.G.: Bene professor Guerricchio, ci auguriamo che questa
scoperta possa avere l’attenzione che merita. A.G.: “Grazie a HERA
per lo spazio concesso. L’aspetto a Nardodipace per mostrarLe i
risultati delle nostre future ricerche”. • |