La Lingua dei Longobardi
di Marco Moretti
Il Mito
Esiste un’isola nelle zone settentrionali chiamata Scadanan, che letteralmente
significa “strage”, in cui vivono molte popolazioni. Tra queste c’era una
piccola popolazione, che era chiamata Winnili. Tra loro vi era una donna
chiamata Gambara ed aveva due figli; Ybor era il nome del primo e Aio quello del
secondo. Essi erano i capi dei Winnili insieme alla madre di nome Gambara.
Dunque i capi dei Vandali, ossia Ambri ed Assi, si misero in marcia con il loro
esercito e dicevano ai Winnili: “O ci versate tributi o preparatevi alla guerra
e combattete contro di noi”. Allora Ybor e Aio insieme alla madre Gambara
risposero: “È meglio per noi prepararci a combattere piuttosto che versare
tributi ai Vandali”. Quindi Ambri ed Assi, cioè i capi dei Vandali, pregarono
Godan di concedere loro la vittoria sui Winnili. Godan rispose dicendo:
“Concederò la vittoria ai primi che vedrò al sorgere del sole”. Allora Gambara
ed i suoi due figli, Ybor ed Aio, che erano i capi dei Winnili invocarono Frea,
moglie di Godan, affinché proteggesse i Winnili. Frea consigliò che essi si
presentasseo al sorgere del sole, e che venissero insieme ai mariti anche le
mogli con i capelli sciolti intorno al viso a mo’ di barba. Al primo albeggiare
mentre il sole sorgeva, Frea girò il letto su cui dormiva il marito e lo rivolse
ad Oriente, e poi lo svegliò. Egli, aperti gli occhi, vide i Winnili e le loro
mogli con i capelli sciolti intorno al viso, e disse: “Chi sono queste lunghe
barbe?”. Allora Frea rispose a Godan: “Così come hai loro imposto un nome,
concedigli anche la vittoria”. Da quel momento i Winnili presero il nome di
Longobardi.
Questo brano ci fornisce alcune informazioni sullo sviluppo della lingua dei
Longobardi. Non soltanto afferma l’origine dell’etnonimo da LANG “lungo”
e da BARD “barba” (riportato come bart da Paolo Diacono), ma ci
dice qualcosa sull’evoluzione fonetica della lingua. Paolo Diacono, che riprende
il testo aggiungendovi alcune note di scherno sulla leggenda pagana, a suo
avviso intollerabile, afferma che Godan è quella divinità che tutti i Germani
adorano come Wodan, e al cui nome i Longobardi avrebbero “aggiunto una lettera”.
Questa aggiunta è molto significativa. Le parole germaniche adottate nel volgare
romanzo che avrebbe poi dato origine alla lingua italiana e ai suoi dialetti, in
genere mutano la consonante w- in gu-, cosìcché WERRA è
diventato guerra, e via discorrendo. Si è sempre pensato che questo fosse
un vezzo tipico dei parlanti neolatini nell’adattare un suono straniero. Ma la
testimonianza della forma GODAN prova il contrario: a un certo punto,
nella lingua dei Longobardi w- deve essere diventato gu- e davanti
alle vocali -o- e -u- si deve essere semplificato in g-,
perdendo il suo elemento labiale, analogamente a quanto è accaduto in gallese.
Questa peculiarità colpiva la consonante in questione soltanto all’inizio di
parola: all’interno di parole composte era scritta invece -u- o
addirittura -o-: così nei nomi propri ALBUIN, FAROALD, etc.
Nel tedesco odierno, l’antico w- suona ormai come il nostro v-. In
dialetti di origine bavarese come quello dei Mocheni del Trentino e dei Cimbri
del Veneto (da non confondersi con gli antichi Cimbri) si trova invece b-,
che potrebbe essere derivato proprio da un esito di gu- simile a quello
del longobardo, ma labializzato. Per completare questo breve studio
dell’etnonimo, dobbiamo notare che nella tradizione scandinava, diversi secoli
dopo gli scritti di Paolo Diacono, compare Langbarðr, ossia “Barbalunga”,
proprio come epiteto di Odino. L’epiteto norreno è potetico e molto antico,
essendo nel linguaggio comune il termine arcaico barðr sostituito da
skegg.
Nell’anno 643 fu promulgato dal re Rotari un editto scritto in latino, ma
contenente molte parole longobarde conservate intatte. Il fatto che Rotari abbia
usato il latino per raccogliere in un corpus organico le leggi tradizionale
della sua gente è stato ritenuto da diversi studiosi come la prova che la lingua
degli avi aveva lasciato quasi interamente posto al latino. Ancora oggi questa
interpretazione si trova di frequente, pur essendo errata. In realtà nessuno
sembra aver notato che al tempo di Rotari nessuno parlava più il latino usato
nell’Editto, che era utilizzato per redigere documenti legali unicamente per
questioni di prestigio. Uno dei vocaboli più famosi e duraturi che ricorrono di
frequente nel testo è FAIDA, che significa “vendetta”. Ve ne sono
tuttavia di ancor più espressivi e truci. Ad esempio il termine PLODRAUB
potrebbe essere tradotto con sciacallaggio o spogliazione del cadavere di un
uomo assassinato. Il secondo elemento della parola, -RAUB, è corradicale
del verbo RAUBON, che ha dato il nostro “rubare”. Il primo elemento,
PLOD-, significa “sangue” (in tedesco attuale Blut). Con RAIRAUB
si intendeva l’atto di depredare un sepolcro, mentre CRAPUORF indicava la
profanazione in cui un cadavere era gettato fuori dalla tomba che lo custodiva:
CRAP- è parente del tedesco Grabe, ossia “tomba”, mentre -UORF
indica il concetto di “gettare”, in tedesco attuale werfen. Esisteva un
termine altamente insultante, ARGA, che non doveva mai essere rivolto a
un uomo. Se questa estrema offesa avveniva, l’Editto stabiliva nei diversi casi
la pena: le alternative erano pagare dodici soldi di multa ritirando l’insulto e
dichiarando di aver agito in preda all’ira, oppure persistere e affrontare il
duello. Questa parola, che indica l’omosessuale passivo, era un insulto tanto
aborrito da tutti i Germani antichi da dover essere lavato col sangue. La
letteratura scandinava tra l’altro documenta ampiamente che quei popoli antichi
attribuivano all’atto sodomitico il potere di ingravidare un uomo. Paolo Diacono
ci racconta un episodio significativo, in cui il Duca Ferdulf provocò una grave
sconfitta e il massacro del suo esercito, e questo solo perché litigò con il
locale magistrato militare che si chiamava Argait, facendo allusione all’etimo
del suo nome.
Sull’altare fatto costruire da Ratchis quando era Duca del Friuli, si trova
un’iscrizione in cui compare l’enigmatica parola HIDEBOHOHRIT come
epiteto del nobiluomo. Questo termine, noto anche nelle forme brevi
HIDEBOHRIT e IBORIT, è tradotto come “resuscitato”, “risvegliato”. In
genere questa traduzione viene interpretata in senso spirituale, e si pensa al
fatto che a un certo punto Ratchis, che era divenuto Re, è stato deposto, ha
preso i voti e ha trovato scampo in monastero. Questo però è avvenuto dopo
la costruzione dell’altare. È possibile supporre che lo strano epiteto fosse
inteso diversamente, designando il concetto di uomo che ritorna alla vita dopo
essere stato colpito a morte in battaglia. In pratica, questa sarebbe la parola
usata dai Longobardi per indicare un morto vivente, una specie di zombie.
L’etimologia è sconosciuta e deve affondare le sue radici nel repertorio magico
dei negromanti che incidevano le rune. Si noti che questa parola conserva suoni
aspirati che nelle parole di uso comune non si pronunciavano più da tempo. Nella
storia di Paolo Diacono il nome maschile ILDEOC dimostra questa precoce
perdita dell’aspirazione: la sua origine è dalla radice germanica HILDI-,
che significa “battaglia”. Allo stesso modo la radice germanica HARI-,
che significa “esercito”, compare nei nomi propri come ARI-, ARE-,
senza l’aspirazione. Così ARICHIS vale “Ostaggio dell’Esercito”,
ARIPERT vale “Splendente dell’Esercito”, e via discorrendo. Dalla stessa
base deriva anche la parola “arengario”, che indicava l’anello su cui l’esercito
pronunciava i suoi giuramenti: era un composto con RING “anello”.
L’antico HARIHRING doveva essere pronunciato ARERING e quindi
ARRING, a cui la lingua della popolazione di origine romana ha aggiunto un
tipico suffisso.
Proprio nella lingua dei Longobardi si hanno le più antiche testimonianze della
cosiddetta Seconda Rotazione delle consonanti. Questo cambiamento, tipico di
quella parte del germanico occidentale che è conosciuta come Alto Tedesco, ha
prodotto in molti contesti il passaggio dalle consonanti occlusive sorde ad
affricate o fricative. Questo è il motivo per cui il tedesco ha Pfeffer
“pepe”, was “che cosa”, Wasser “acqua”, Herz “cuore”,
Koch “cuoco”, mentre l’inglese ha come corrispondenti di queste parole
rispettivamente pepper, what, water, heart, cook.
Un altro effetto della rotazione, che non si è manifestato in tutti i dialetti
tedeschi, è la trasformazione della consonante occlusiva sonora b- nella
sorda p- all’inizio delle radici. Questo si nota in molti nomi propri,
formati con i seguenti elementi: PRAND “tizzone; spada” (tedesco Brand),
PERG “montagna” (tedesco Berg), PERT “splendente” (tedesco
Bercht). La glossa PACCA, che indica la carne salata, corrisponde
all’inglese bacon. Esistevano però dialetti che conservavano b-.
La trasformazione che ha portato in tedesco dall’occlusiva sonora d- alla
sorda t- non si è invece verificato in longobardo, e così pure
l’originale consonante th- non si è mutata in d- in principio di
parola. Così THING indica l’assemblea degli Arimanni, e corrisponde al
tedesco Ding “cosa”. I nomi formati con THEODE-, THEOD-
“popolo”, tra cui THEODELINDA, corrispondono a nomi che in tedesco sono
formati con Diet-. L’equivalente longobardo del nome gotico
THIUDAREIKS “Teodorico”, è THEODERIS, che in tedesco si trova come
Dietrich. Se la lingua dei Longobardi per molti versi somigliava all’antico
alto tedesco, ossia al diretto antenato del tedesco moderno – e in particolare
all’antico bavarese – va notato che alcune sue caratteristiche sono molto
diverse. Così non si trova nelle sue parole alcuna traccia dell’Umlaut, la
metafonesi che trasforma le vocali radicali e che costituisce uno dei tratti più
tipici di tutti gli odierni dialetti tedeschi. Proprio per questo motivo, il
longobardo ARI- “esercito” suona diversamente dal suo corrispondente
tedesco Heer: ha una vocale -a- e non una -e-. Un’altra
fondamentale differenza sta nella conservazione dei dittonghi ereditati -ai-
e -au- anche dove l’altico alto tedesco li ha trasformati nelle vocali
semplici -e- e -o- rispettivamente. Proprio la radice RAI-,
REI- “tomba”, già vista nel lemma legale RAIRAUB, lo dimostra: il
corrispondente nella lingua dei Goti è HRAIW, la cui grafia ci domostra
che la forma più antica aveva un dittongo, anche se già ai tempi di Wulfila
questa parola era pronunciata HREU con una -e- aperta e lunga. Il nome
proprio maschile RAUFRID è formato da RAUD “rosso” (tedesco Rot)
e da FRID “pace” (tedesco Friede).
Vi sono tuttavia parole che fanno eccezione alle regole fonetiche, perché sono
in realtà state prese a prestito dalla lingua dei Goti, che era usata dai
missionari della Chiesa Ariana. Così il longobardo GILD “pagamento”
(pronunciato con la g- dura), ha una vocale -i- come in gotico, e
diversamente dal tedesco Geld. Si confronti la forma longobarda
ACTOGILD, equivalente a “otto volte il suo prezzo”, con la contemporanea
analoga forma bavarese NIUNGELD “nove volte il suo prezzo”. Si noti che
per contro Paolo Diacono glossa FELD come “campi aperti”, attestando in
tale parola una fonetica tipicamente occidentale (tedesco Feld) - che non
rimava con GILD - e infatti il termine era sconosciuto alla lingua dei
Goti. Anche il nome del capostipite IBOR (scritto anche YBOR), che
significa “cinghiale”, mostra una i-, mentre il germanico occidentale ha
e- (tedesco Eber). Notevole è il termine EWA “legge
eterna”, è anch’esso un prestito dalla lingua dei Goti, che ha monottongato gli
originali dittonghi -ai- e -au- in vocali aperte -e- e
-o- lunghe rispettivamente. Questi fatti ci dimostrano una fitta rete di
influenze linguistiche non chiaramente ricostruibili, date le nostre conoscenze
troppo frammentarie. Secondo alcuni studiosi, i Longobardi avrebbero parlato in
origine una lingua del gruppo germanico orientale, che sarebbe stata poi
sottoposta all’influenza della lingua dei Baiovari, da cui gli odierni Bavaresi.
Il germanico orientale sarebbe quindi un sostrato. Sono incline a pensare che
sia avvenuto l’esatto contrario: il germanico orientale ha agito come
superstrato in due momenti diversi. La prima fase di questa influenza fu
all’epoca della migrazione dalla Scandinavia, in cui i Winnili erano influenzati
da genti più potenti e affini ai Goti: non dimentichiamo che poco ci mancò che
finissero tributari dei Vandali. La seconda fase avvenne con l’inizio della
conversione dal paganesimo tradizionale alla Chiesa Ariana, e la lingua
portatrice di questa influenza è il gotico della traduzione biblica compiuta da
Wulfila. Lo stesso dialetto bavarese contemporaneo conserva numerosi prestiti
dalla lingua gotica, tra cui EIDE “madre” (gotico AITHEI), DULT
“festa” (gotico DULTHS), OBSEN “portico” (gotico UBIZWA).
I fattori che determinarono l’indebolimento e l’estinzione finale della lingua
dei Longobardi furono di natura demografica: la popolazione di origine germanica
costituiva soltanto una piccola percentuale del totale. Eppure, nonostante
questo, l’influenza che esercitò sulla stessa popolazione romanizzata fu grande
e non deve essere sminuita. Infatti noi oggi non diciamo “bello” dal
latino bellum, ma bensì “guerra”. La lista delle parole passate
all’italiano è davvero consistente, e tali termini sono di uso generalizzato
anche in zone come la Sicilia e la città di Roma, in cui non si videro mai
Longobardi. Così la lingua del Longobardi per dire “acqua” ha WAZZA,
WAZZO, donde italiano “guazza”, “guazzo” - parole ormai in disuso - e
“sguazzare”, tuttora in uso (gotico WATO, tedesco Wasser). Questo
è un esempio che mostra come spesso i termini italiani abbiano un significato
meno generale di quelli di origine. Allo stesso modo il termine longobardo
ZANNA significa “dente” (tedesco Zahn). Talvolta abbiamo a che fare
con parole come ZACHAR “lacrima” - donde italiano “zacchera”,
“inzaccherare” e STRUNZ “sterco” - donde “stronzo”, che sono documentate
in antico alto tedesco, ma che non hanno lasciato eredi nel tedesco moderno.
Alcuni termini in uso nel Medioevo e oggi desueti, sono ancor più notevoli. Così
ARIGAIR “lancia dell’esercito”, ha dato l’italiano antico “alighiero”, da
cui anche il cognome dell’immortale Dante.
In molti dialetti della Penisola vivono poi parole che non sono presenti
nell’italiano standard. Il corredo nuziale della sposa è chiamato SCHERPA
in Lombardia, e questo termine risale al longobardo SCHERPHA
“suppellettili” (-ph- rende il suono che in tedesco moderno è scritto
-pf-) Il padrino di battesimo è chiamato GUAZZ, dal longobardo
GODAZZO, alla lettera “padre in Dio”: tutti riconosceranno l’inglese
God e il tedesco Gott, mentre la seconda parte del composto
corrisponde al gotico ATTA “padre”. Significativi relitti longobardi non
si trovano soltanto a Settentrione, ma anche nel Meridione. Non dimentichiamoci
che a Benevento le costumanze longobarde durarono fino all’arrivo dei Normanni e
forse anche oltre. In quella corte i discendenti dei Winnili furono cristiani
sono in apparenza, venerando in segreto l’effigie di una vipera e ornandosi di
svastiche, sacre a Godan. Tombe longobarde a Benevento mostrano ancora in epoca
tarda antroponimi non assimilati, come ad esempio ERF, che significa
“Bruno”. “Fosco”. Anche in Puglia ci sono testimonianze notevoli. Non
dimentichiamoci che i Trovatori della Provenza chiamavano Lombardi gli abitanti
della Puglia. Così troviamo in documenti pugliesi voci come UFFU “femore”
(tedesco Hüfte “anca”), SCHIZIA “sterco” (tedesco Scheisse)
e MEFFIO “vitalizio di una vedova”, parola che si trova nell’Editto di
Rotari come METFIO, da META “dono nuziale” (gotico MIZDO
“ricompensa”, tedesco Miete “affitto”) e FIO “denaro” (gotico
FAIHU “denaro”, tedesco Vieh “bestiame”).
A questo punto possiamo ben chiederci se non sarebbe il caso di recuperare
questa ricca eredità, ricostruendo per intero la lingua e imparandola.
Potrebbero nascere associazioni per usarla, e l’esperimento negli anni futuri
forse sarebbe in grado di assumere una certa consistenza. Non dimentichiamoci
che in Cornovaglia ha avuto grande successo il progetto di riportare in vita
l’idioma celtico ancestrale, che si era estinto verso la fine del XVIII secolo.
Allo stesso modo nei territori baltici della Prussia circa 200 persone parlano
tuttora l’idoma degli antichi Borussi o Prussiani, di recente riportato in vita.
In Egitto circa 300 persone parlano correntemente il Copto, discendente della
lingua dei Faraoni, e altre persone di tale stirpe che hanno recuperato la
lingua dei loro Padri vivono in America e in Australia. Perché quindi non
potremmo dare nuova vita agli idiomi dei nostri Padri Longobardi e Goti? La
letteratura avrebbe un immenso giovamento da questo recupero.
Articolo pubblicato nella rivista
LexAurea44,
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