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Louis Claude de Saint-Martin J. B. M. GENCE
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Prefazione
Coloro che hanno conosciuto personalmente L. C. de Saint-Martin, non meno
semplice e modesto che sapiente e profondo, lo hanno anche riverito ed amato. Io
mi felicito d'esser stato del numero.
E' a questo titolo che mi ero incaricato di consacrargli un cenno storico
imparziale nella Biografia Universale. Ma ho avuto il dolore di vedere questo
cenno troncato e alterato; la dottrina dell'Autore travisata; i suoi temi
snaturati, i suoi sentimenti calunniati; infine si è osato unire il plagio
all'oltraggio.
Non posso che premurarmi di ristabilire e di pubblicare qui il cenno nella sua
integrità, per l'onore del personaggio rispettabile che ne è l'oggetto, e per
quello dei suoi onesti amici che l'ingiuria fatta alla sua memoria ed alla sua
coscienza tende a compromettere.
Louis Claude de Saint-Martin, sapiente e profondo spiritualista, detto Il
Filosofo Incognito, nacque ad Amboise, da una famiglia nobile, il 18 Gennaio
1743. Egli deve ad una matrigna attenta i primi elementi di quella educazione
dolce e devota, che lo fece, diceva lui, amare, durante tutta la sua vita, da
Dio e dagli uomini. Al collegio di Pont-Levoy, ove era stato messo per tempo, si
dedicò molto alle letture e fra le tante opere, predilesse L'arte di conoscersi
da se stesso dell'Abadie; ed è alla lettura di questo testo che egli attribuiva
il suo distacco dalle cose di questo mondo. Ma destinato dai suoi parenti alla
magistratura, diede importanza, nel suo corso di diritto, piuttosto alle basi
naturali della giustizia, che alle regole della giurisprudenza, di cui lo studio
gli ripugnava. Alle funzioni di magistrato, alle quali ebbe creduto di dover
dare tutto il suo tempo, preferì la professione delle armi, che, durante la
pace, gli lasciava del tempo libero per occuparsi di meditazioni e della
conoscenza dell'uomo. Entrò come ufficiale, a 22 anni, nel reggimento di Foix,
di guarnigione a Bordeaux.
Malgrado la sua propensione per la filosofia interiore, intraprese una carriera
non meno attiva di quella militare. Fu infatti iniziato con le formule, i riti,
le pratiche e le operazioni teurgiche da Martinez de Pasqually al quale spesso
chiedeva: Maestro, ma come! è necessario dunque tutto ciò per conoscere Dio?
Questa via, inizialmente, non aveva affatto sedotto il nostro filosofo. Fu
tuttavia così che egli entrò nella via dello spiritualismo. La dottrina di
questa scuola, i cui membri prendevano il titolo di Cohen, e che Martinez
presentava come un insegnamento segreto di cui aveva ricevuto la tradizione, si
trova esposta, in modo misterioso, nelle prime opere di Saint-Martin, e
soprattutto nel suo Quadro naturale dei rapporti che esistono tra Dio,l'uomo e
l'universo.
Dopo la morte di Martinez, la scuola fu trasferita e Lione. E' qui che, munito
delle armi di una dottrina opposta a quella degli enciclopedisti, che minacciava
troppo di propagarsi, Saint-Martin, destinato in qualche modo a combattere
l'ateismo filosofico, come doveva un giorno attaccare frontalmente il
materialismo rivoluzionario, pubblicò il suo libro Degli Errori e della Verità.
Demolendo le dottrine erronee di una pretesa filosofia della natura e della
storia, richiama l'uomo alla Verità fondata sul Principio stesso della scienza e
sulla natura dell'essere intellettuale; impiegando le tradizioni della Sacra
Scrittura solo a sostegno delle prove, o enigmaticamente, per non urtare troppo
i lettori imbevuti di teorie uscite dallo studio del barone d'Holbach.
La scuola di Pasqually, le cui operazioni cessarono nel 1778, si fuse a Parigi,
con la società dei Gran Professi, o con quella dei Filaleti. Queste professavano
in apparenza la dottrina di Martinez e quella di Swedenborg (mistico svedese),
ma in realtà cercavano più la "Grande Opera" e meno la verità. Saint-Martin fu
invitato, nel 1784, a quest'ultima nuova unione; ma rifiutò di partecipare alle
operazioni dei suoi membri, che giudicava non parlassero che da puri massoni e
non da veri iniziati (cioè uniti al loro Principio).
Saint-Martin seguiva volentieri le riunioni in cui lo si occupava in buona fede,
ad esercizi che annunciavano delle virtù attive. Le manifestazioni di ordine
intellettuale, ottenute attraverso la via sensibile, gli rivelavano, nelle
sedute di Martinez, una scienza degli spiriti; le visioni di Swedenborg, di
ordine sentimentale, una scienza delle anime; quanto ai fenomeni del magnetismo
sonnambolico, che egli seguì a Lione, li reputava appartenenti ad un ordine
sensibile inferiore, ma vi credeva.
Amante di tutto ciò che gli poteva far conoscere una verità, soprattutto nelle
scienze sottoposte a dei principi esatti, Saint-Martin si occupava dello studio
della matematica per scoprirvi lo spirito che poteva racchiudere la conoscenza
dei numeri, e questo studio occasionò la sua relazione con l'astronomo Joseph
Lalande; ma vi era troppa antipatia: essa durò poco. Sebbene non lo reputasse
ateo, nondimeno riteneva che ne fosse prossimo. Il nostro filosofo si riteneva
più vicino al pensatore Jean-Jacques Rousseau. Pensava, come lui, che gli uomini
fossero naturalmente buoni; ma intendeva, per natura, quella che essi avevano
originariamente perduta, e che potevano riscoprire intenzionalmente; poiché li
giudicava, nel mondo, piuttosto trascinati dall'abitudine viziosa che dalla
cattiveria. A questo riguardo somigliava poco a Rousseau, che guardava come
misantropo per eccesso di sensibilità poiché vedeva gli uomini non quali erano,
ma quali voleva che fossero.
Lui, al contrario, amò sempre gli uomini, come migliori di quanto sembrassero
essere; e le attrattive della buona società gli facevano immaginare quanto
poteva valere una riunione più compiuta con il suo Principio. Pure le sue
occupazioni, come i suoi piaceri, furono sempre conformi a questa disposizione.
La musica strumentale, le passeggiate campestri, le conversazioni amichevoli,
erano le ricreazioni del suo spirito e gli atti di beneficenza, quelli della sua
anima. Egli non possedeva nulla o quasi, tanto che gli restava poca cosa da
dare; e riceveva sempre in soddisfazione più di quanto donasse. Nei suoi
intrattenimenti, trovava pure sempre da guadagnare. Anche nelle relazioni con i
personaggi più in vista per il loro rango (quali il marchese de Lusignan, il
maresciallo di Richelieu, il duca d'Orleans, la duchessa de Bourbon, il
cavaliere de Bouflers, ecc.), che trovavano con ragione il suo spiritualismo
troppo elevato per lo spirito del secolo. Infatti egli diceva di dovere la
conferma e lo sviluppo delle sue idee sui grandi temi di cui cercava il
Principio, al fatto che si intratteneva con se stesso e con le persone meno
prevenute. Egli percorse questa via, come Pitagora, per studiare l'uomo e la
natura, e per confrontare la testimonianza degli altri con la sua. Era a lui che
poteva più realmente applicarsi il motto di Rousseau: Vitam impendere vero.
Essendo tutto proteso alla ricerca della verità, scopo costante dei suoi studi e
delle sue opere, Saint-Martin abbandonò infine il servizio militare per
dedicarsi esclusivamente a tale ricerca ed al ministero, in qualche modo
spirituale, al quale si sentiva chiamato.
Fu a Strasburgo che, dalla viva voce di un'amica, Madame Charlotte de Boecklin,
ebbe la conoscenza delle opere del filosofo teutonico Jacob Böhme, visto in
Francia come un visionario; e studiò in età avanzata la lingua tedesca, al fine
di comprendere e di tradurre per suo uso, in francese, le opere di questo
celebre illuminato, che gli rivelarono ciò che, nei documenti del suo primo
maestro, aveva soltanto intravisto.
Egli lo guardò sempre dopo come la più grande luce umana che fosse apparsa.
Saint-Martin visitò l'Inghilterra, ove si legò, nel 1787, con l'ambasciatore
Barthélemy, e conobbe William Law, editore di una versione inglese e di un
compendio dei libri di Jacob Böhme.
Nel 1788 fece un viaggio a Roma con il principe Alexis Gallitzin, che in seguito
ebbe modo di dire al Sig. Fortia d'Urban questa ragguardevole frase: "mi
riconosco veramente uomo solo dopo aver conosciuto il Sig. de Saint-Martin". Di
ritorno dalle sue escursioni in Italia, Germania e Inghilterra, non potè
rifiutare la croce di Saint-Louis, di cui non si credeva degno, sebbene la
dovesse più alla nobiltà dei suoi sentimenti che ai suoi servigi.
La rivoluzione, nelle sue diverse fasi, trovò Saint-Martin sempre lo stesso,
sempre proteso al suo scopo: Justum et tenacem propositi virum. Elevato dai suoi
principi al di sopra delle considerazioni della nascita o dell'opinione
corrente, non emigrò; e, avendo in grande orrore i disordini e gli eccessi, sia
dell'anarchia, sia del dispotismo, vide nella rivoluzione francese i disegni
terribili della Provvidenza, e credette di vedere nell'uomo che venne più tardi
a reprimerla un grande strumento temporale. In quell'epoca, in cui lo spirito di
famiglia sembrava essere, come la società, in dissoluzione, e precisamente nel
1793, Saint-Martin andò a dare le sue cure costanti ed a rendere gli ultimi
doveri ad un padre infermo e paralitico. Nello stesso tempo, malgrado lo stato
di disagio in cui si trovava per la sua modica fortuna, contribuiva, in qualità
di cittadino, ai bisogni pubblici del suo comune. Di ritorno nella capitale, fu
costretto però ad abbandonarla presto perché compreso nel decreto di espulsione
dei nobili del 27 germinale anno II°.
Mentre la maggior parte degli uomini si occupava degli interessi politici che
agitavano le nazioni, egli era in corrispondenza su dei temi elevati ed
importanti per la loro influenza sul destino e la natura dell'uomo, con un
barone svizzero, membro del consiglio sovrano di Berna. Viveva solitario,
separato dalle sue conoscenze, al centro di un mare di passioni tempestose e si
guardava, nel suo isolamento, come il Robinson Crusoè della spiritualità.
Intanto una pretesa congiura di un'associazione religiosa, detta Madre di Dio,
era allora all'esame della giustizia rivoluzionaria, ed egli corse il rischio di
un mandato di arresto; fortunatamente però sopraggiunse il 9 termidoro. Infatti,
la sua corrispondenza con il barone svizzero, naturalista e filosofo religioso,
che era portato verso le manifestazioni esteriori e sensibili e lo interrogava
su questi argomenti, avrebbe potuto farlo sospettare. ma in realtà il
Saint-Martin riportava sempre il suo amico al senso morale e interiore, e lo
rinviava al suo carissimo Böhme. Essi si legarono intimamente, senza mai
vedersi; e si scambiarono reciprocamente i ritratti. Durante il discredito
totale degli assegnati (titoli di debito pubblico emessi durante la rivoluzione
francese), Saint-Martin accettò del barone svizzero, ma solamente in deposito,
l'offerta di una somma in denaro, della quale la sua filosofia, o piuttosto la
fede evangelica, gli aveva insegnato a fare a meno. Stimando interamente la
fermezza di Rousseau, trovava poco conveniente nella bocca di un uomo che
predicava tanto la beneficenza, di fermarne il libero corso rifiutando i doni;
ed egli, dal canto suo, offriva generosamente al barone, la cui casa di Morat
era stata saccheggiata durante l'invasione francese, alcuni pezzi di argenteria
che gli restavano.
Fedele ai suoi doveri pubblici come a quelli dell'amicizia, assolveva allora
personalmente il suo servizio nella guardia nazionale. Egli ci fa sapere che
montava la sua guardia, nel 1794, al Tempio, dove era detenuto il figlio di
Luigi XVI. Tre anni prima, era stato inserito nella lista dei candidati per la
scelta di un governatore del Delfinato. Nel maggio 1794, incaricato di redigere,
per il suo comune, lo schedario dei libri provenienti dai depositi nazionali, fu
attratto dalle ricchezze spirituali contenute in un libro che trattava la vita
della suora Margherita del Santo Sacramento.
Verso la fine dello stesso anno, sebbene la sua qualità di nobile gli
interdicesse il soggiorno a Parigi, fu designato dal distretto di Amboise, come
uno degli allievi alle scuole normali, destinate a formare degli istruttori per
propagare l'istruzione.
Dopo aver, come Socrate, consultata la sua indole, accettò questa missione,
nella speranza che potesse, con l'aiuto di Dio, in presenza di duemila uditori
animati di ciò che egli chiamava lo spiritus mundi, impiegare utilmente il suo
carattere di natura spirituale e combattere con successo il filosofismo
materiale e antisociale. Richiese di ritornare nella capitale, dove giunse a
proposito per difendere e sviluppare la causa del senso morale, contro il
deputato Garat, professore della dottrina del senso fisico o dell'analisi
dell'intendimento umano.
La "pietra" che egli scagliò, sono i suoi termini, contro l'analista filosofo,
non fu affatto perduta; ed essa colpì ancora nei dibattiti di cui il ricordo è
rimasto. (Corrispondenza inedita di Saint-Martin con Kirchberger, 19 marzo
1795).
Ritornato tranquillamente e con onore nel suo dipartimento, fece parte nel 1795,
delle prime assemblee elettorali; ma non fu membro di alcun corpo legislativo.
La pace tra la Francia e la Svizzera rese più attiva con Berna la sua relazione,
che gli servì da intermediaria per un'altra corrispondenza prediletta con
Strasburgo, sospesa dalle circostanze. C'era pure più che mai, tra i due amici,
uno scambio di spiegazioni per l'uso del testo di Jacob Böhme, e di chiarimenti
per l'altro sulla dottrina di Saint-Martin. Gli scritti del nostro filosofo ne
avevano bisogno, pure quelli dove sembrava più chiaro, e dove i tratti di luce
che egli fa scaturire, lasciano talvolta desiderare una aperta lettura.
Al centro di una rivoluzione a causa della quale egli diceva, nel suo linguaggio
spiritualista, che la Francia era stata visitata per prima e molto severamente
perché era stata la più colpevole, osò emettere dei principi molto diversi da
quelli che erano allora professati, sebbene desse l'esempio della sottomissione
all'ordine stabilito. Tra gli altri, nel suo Chiarimento sull'associazione
umana, mostra la base luminosa dell'ordine sociale nel regime teocratico, come
il solo veramente legittimo.Ma non aveva affatto in vista di fondare una setta.
I suoi scritti anonimi erano sempre quelli del Filosofo incognito e li
distribuiva agli amici raccomandando loro il segreto. I suoi temi, risalendo a
Dio come principio dell'autorità, miravano semplicemente a ricondurre gli uomini
dal vincastro allo scettro; a quell'unità di principio in cui la patria e il
principe devono trovare la legge in se stessi, senza aver bisogno di ricorrere
ad alcun libro, nemmeno ai propri.
La vita interiore e raccolta attraverso la quale l'uomo cerca di operare in sè
la conoscenza del Principio stesso della realtà, vita ben superiore
all'intuizione puramente razionale di Kant, è l'idea che finì per dominare negli
scritti dell'autore, anche in quelli dalla forma meno grave, sotto la quale ha
nascosto la sua filosofia, quando il soggetto poteva dar luogo alla satira. Un
tono di allegria, che gli sfugge, e che gli si rimprovera, era piuttosto nel suo
umore che nel suo modo di pensare meditativo e nel suo carattere portato alla
bonarietà. Egli aveva letto ugualmente le Meditazioni di Descartes e le opere di
Rabelais e amava visitare i luoghi in cui essi avevano avuto origine, poiché le
loro regione era anche la sua. Si spiega così come, dopo la lettura di Rabelais,
la sua gravità aveva potuto rasserenarsi, componendo il Ministero dell'uomo
spirito, opera seria ed elevata, e il Coccodrillo, poema grottesco e bizzarro.
Quest'ultimo è una finzione allegorica, che mette alle prese il bene e il male,
e che copre, sotto un'apparenza fantasmagorica, degli insegnamenti ed una
critica di cui la verità troppo nuda avrebbe potuto ferire alcuni corpi
scientifici e letterari. Al centro di questo enigmatico ed oscuro romanzo, si
trovano ottanta pagine di una metafisica luminosa e profonda, concernente la
questione dell'influenza dei segni sulla formazione delle idee, proposta
attraverso un assunto. La discussione di questa questione porta a dei risultati
singolari, per le nozioni tratte in parte dall'ordine spirituale, alle quali
essa accenna, quali il Desiderio, anteriore o superiore all'idea, ecc.; nozioni
che egli sostiene con severe motivazioni.
In quest'epoca, le vedute e i sentimenti elevati che gli facevano ammirare il
suo filosofo tedesco, si diffondevano perfino nelle questioni dell'ordine
naturale che trattava. In seguito le sue osservazioni divennero più feconde.
Portato a scoprire, sotto la natura temporale e visibile, un mondo interiore e
invisibile che, secondo lui, la natura doveva manifestare all'uomo intellettuale
e morale attraverso la cultura, ritenne che l'uomo non potesse rimanere estraneo
alla sua scienza. Seguiva il progresso delle scoperte in ogni genere di
conoscenze, e ne confrontava i risultati con quelli che aveva acquisiti in Jacob
Böhme e attraverso le sue proprie riflessioni. E' frugando così in un mondo
sconosciuto, che egli compose e produsse lo Spirito delle cose, in cui si sforza
di sollevare un angolo di velo e di gettare alcuni barlumi su una natura che gli
sembrava essere stata svelata, per una sorta di ispirazione, attraverso gli
sguardi del Böhme. Si concepisce, in questa ipotesi, che le scienze di cui aveva
percorso il cammino, fossero allora molto meno avanzate di oggi; se si eccettua
ciò che la conoscenza dell'uomo interiore aveva potuto rivelargli con la
meditazione, egli è dovuto rimanere indietro in parecchie delle sue spiegazioni,
che non si accordano sempre con le nuove scoperte, indipendentemente di quanto
esse si allontanino necessariamente dalle opinioni recepite.
Malgrado l'estensione delle sue conoscenze e l'originalità delle sue idee che
gli facevano tutto riportare al suo spiritualismo, si ammirava in Saint-Martin
un senso retto ed una modestia semplice ed amabile. Il suo carattere affabile e
il suo spirito comunicativo gli fecero acquistare senza dubbi molti amici; ma
non cercava affatto di fare dei proseliti; voleva degli amici che fossero dei
discepoli, non semplicemente dei suoi libri, ma di se stessi. Teneva un giornale
delle sue lezioni; e come le traduzioni del suo caro filosofo erano delle
provviste per la sua vecchiaia, così i suoi nuovi amici erano delle acquisizioni
e si giudicava perciò molto ricco in rendite di anime.
A vedere la sua aria umile e la sua semplice esteriorità, non ci si aspettava nè
la scienza profonda, nè le luci straordinarie, nè le alte virtù che nascondeva.
Il candore, la pace dei suoi intrattenimenti, e, lo si osa dire, l'atmosfera di
beneficenza che sembrava diffondersi intorno a lui, manifestavano l'uomo saggio
che la filosofia e la religione avevano formato.
Gli amici della morale ameranno ricordarsi una conversazione che ebbe il Sig.
Joseph-Marie de Gérardo (filosofo e uomo politico) col nostro filosofo sugli
spettacoli (Archivio letterario n° III, 1804). Saint-Martin li amava molto.
Spesso, durante gli ultimi quindici anni della sua vita, s'era messo in cammino
per gioire dell'emozione che gli permetteva la vista di un'azione virtuosa messa
in scena da Corneille o Racine. Ma avviandosi gli veniva il pensiero che ciò
fosse soltanto l'ombra della virtù di cui andava a comprare il godimento, e che
con lo stesso denaro poteva fare in modo che questa virtù avesse luogo
realmente? Mai aveva potuto, diceva egli, resistere a questa idea; saliva da un
infelice, vi lasciava il valore del suo biglietto di platea e rientrava a casa
sua soddisfatto e appagato.
Le speranze di un uomo, giunto alla sessantina (1803), che aveva un così vivo
interesse per la realtà, si erano accresciute tanto, che diceva di avvicinarsi
ai godimenti dello spirito annunciatigli da tempo.
In questo periodo, intanto, aveva avuto degli avvertimenti di un male fisico, lo
stesso che aveva portato via suo padre; ma non se ne affliggeva, pur presentendo
la fine, in quanto si affidava alla provvidenza.
Infatti, dopo un colloquio da lui sempre desiderato e avvenuto grazie al mio
interessamento, con il matematico Rossel, profondo conoscitore della scienza dei
numeri, il cui senso occulto l'aveva sempre occupato, ebbe a dire: "Sento che me
ne vado; la provvidenza può chiamarmi; io sono pronto. I germi che mi sono
sforzato di seminare fruttificheranno; parto domani per la campagna di un mio
amico; rendo grazie al cielo di avermi accordato l'ultimo favore che gli
chiedevo". Disse allora addio al Sig. Rossel, e ci strinse la mano.
Il giorno seguente, in effetti, si recò nella casa di campagna del conte Lenoir
La Roche, in quella di Aunay che aveva tanto amato. Dopo un leggero pasto,
ritiratosi nella sua camera, ebbe un attacco d'apoplessia. Sebbene la lingua
fosse impacciata, potè tuttavia farsi intendere dai suoi amici, accorsi e
riuniti accanto a lui. Sentendo che ogni soccorso umano diveniva inutile, esortò
tutti quelli che lo circondavano di porre la loro fiducia nella provvidenza ed a
vivere fra loro fraternamente, nei sentimenti spirituali. Quindi pregò Dio in
silenzio e spirò senza agonia e senza dolore; era il 13 ottobre 1803.
Sebbene Saint-Martin fosse allora abbastanza noto in determinati ambienti, era
generalmente così poco conosciuto nel mondo, che all'annuncio del suo decesso,
lo confusero con Martinez de Pasqually, suo primo maestro, morto nel 1779 a San
Domingo.
Benchè Saint-Martin sia passato per il capo di una dottrina religiosa, i suoi
sentimenti, come si è detto, erano ben lontano dall'essere dettati da vedute
particolari o esclusive. Tutti i suoi discorsi e i suoi scritti avevano per
oggetto, al contrario, di mostrare che la via della verità poteva aprirsi a
tutti gli uomini veramente cristiani, con la meditazione; non che Saint-Martin,
come ha avanzato l'autore di "Serate di San Pietroburgo" (Joseph de Maistre),
non credesse alla legittimità del sacerdozio cristiano, ma pensava che ovunque
l'istituzione del Cristo poteva operarsi con la fede sincera nei poteri e nei
meriti del Redentore.
Pur professando nei suoi scritti un cristianesimo così indulgente, egli era
incorso nell'avversione dei pretesi apostoli della tolleranza e della
filantropia. Ciò è dovuto al fatto che la sua religione non era nè politica, nè
simulata; ed in quanto alle luci che partivano dalla sua convinzione, malgrado
le nubi in cui sembra avvilupparsi, offuscavano i lumi del filosofismo.
Saint-Martin ha scritto molto; e i suoi libri sviluppano sempre per gradi, con
più forza e chiarezza, il carattere religioso di cui portano l'impronta. Essi
sono stati commentati e in parte tradotti soprattutto nelle lingue del
Nord-Europa.
Dando uno sguardo generale alla dottrina di Saint-Martin, di cui ciascuno dei
suoi scritti offre un punto di vista particolare, si vede come degli spiriti
sviati dalla passione, o abbandonati agli errori dei sensi, non abbiano potuto
intenderlo nè gustarlo. Ma è lecito credere che a misura che le idee morali e i
sentimenti religiosi rinascenti, si semplificheranno, epurandosi con l'influenza
di una cultura dello spirito più ampia, si sentirà il bisogno di opporre uno
spiritualismo illuminato e ragionevole a questa tendenza delle scienze naturali
verso un materialismo che attribuisce gli organi fisici, delle facoltà e delle
funzioni, e che rende, agenti passivi e ciechi, i principi dell'attività e
dell'intelligenza.
Le opere di Saint-Martin hanno per scopo, non solamente di spiegare la natura
attraverso l'uomo, ma di ricondurre tutte le nostre conoscenze al Principio di
cui lo spirito umano può divenire il centro. La natura attuale, decaduta e
divisa da se stessa e dall'uomo, conserva nondimeno nelle sue leggi, come l'uomo
in parecchie sue facoltà, una disposizione a rientrare nell'unità originaria.
Attraverso questo doppio rapporto, la natura si mette in armonia con l'uomo,
come pure l'uomo si coordina con il suo Principio. Ne consegue che il nosce te
ipsum deve abbracciare l'idea dell'io, la nozione dell'io razionale e quella
dell'io spirituale. Questa conoscenza non è dunque la semplice teoria di un tipo
o soggetto di nostre idee, che Platone concluse trattarsi della nozione di un
archetipo, tratta essa stessa dalle idee di unità ed oggetto. Descartes e
Leibnitz discendono pure, attraverso un'idea comune, dall'astratto al sensibile,
ma dopo essersi elevati dal soggetto all'oggetto, il primo per via della
concezione, il secondo per la via della percezione. Kant, non superando il
limite del sensibile, separa l'oggetto astratto dal soggetto e lo lascia nel
rango delle nozioni generali di cui la sua ragione intuitiva non può rendere
conto.
Seguendo Saint-Martin, l'uomo, preso per soggetto, non percepisce nè scorge
l'oggetto astratto del suo pensiero; egli lo riceve, ma da una sorgente diversa
da quella delle impressioni sensibili (Vedi Quadro naturale dei rapporti che
esistono tra Dio, l'uomo e l'universo). Inoltre l'uomo che si raccoglie e che fa
abnegazione, per sua volontà, di tutte le cose esteriori, opera ed ottiene la
conoscenza intima del Principio stesso del pensiero o della parola, ossia del
suo Prototipo, o del Verbo, di cui è originariamente l'immagine e il tipo.
l'essere divino si rivela così allo spirito dell'uomo; è, allo stesso tempo, si
manifestano le conoscenze che sono in rapporto con noi stessi e con la natura
delle cose. E' a questa natura originale, in cui l'uomo si trovava in armonia
con il suo Principio, ch'egli deve tendere, con la sua opera e il suo desiderio,
riunendo la sua volontà a quella del Riparatore. Allora, l'immagine divina si
riforma; l'anima umana si rigenera; le bellezze dell'ordine si scoprono e la
comunicazione tra Dio e l'uomo è ristabilita.
Si vede, secondo questo compendio della dottrina di Saint-Martin, che lo
spiritualismo, di cui la via gli era stata prima aperta da Martinez de Pasqually
ed in seguito appianata da Jacob Böhme, non era più semplicemente la "scienza
degli spiriti" ma quella di Dio. I mistici del medio evo e quelli della scuola
di Fénelon, unendosi attraverso la contemplazione del loro Principio, seguendo
la dottrina del loro maestro Ruysbroeck, erano assorbiti in Dio dall'affetto.
Qui si tratta di un piano più elevato; non è solamente la facoltà affettiva, è
la facoltà intellettuale, che conosce in sè il suo principio divino, e
attraverso lui, il modello di quella natura che Malebranche vedeva non
attivamente in se stesso, ma speculativamente in Dio e di cui Saint-Martin
scopre il tipo nel suo essere interiore attraverso una operazione attiva e
spirituale, che è il germe della conoscenza.
E' verso questo scopo che le opere dell'autore, nell'ordine della loro
composizione, sembrano dirigersi, marciando progressivamente, per la strada da
lui seguita e che tutti possono seguire. Considerato anzitutto come autore e poi
come traduttore, l'uno è ancora il seguito o il completamento dell'altro,
trattandosi sempre dello stesso spirito.
(NOTA: Questo cenno biografico è stato pubblicato a Parigi il 1° Settembre 1824
dalla Stamperia De Migneret, rue du Dragon, 30.