Apuleio - Della Magia
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I Io ero certo e ritenevo per vero, o Massimo Claudio e
voi Signori del Consiglio, che Sicinio Emiliano, vecchio di famigerata audacia,
a sostenere l'accusa contro di me, prima dinanzi a te intentata che dentro di
sé meditata, si sarebbe valso, in mancanza di positive imputazioni, di un
cumulo di ingiuriose calunnie. Qualsiasi innocente può essere diffamato, ma
convinto di reità non può essere che un colpevole. E in questo solo pensiero
confidando, mi rallegro che dinanzi a un giudice come te mi sia data ampia
facoltà di difendere presso gli ignoranti la filosofia e discolpare me stesso.
In verità codeste calunnie, gravi al primo aspetto, sorte così all'improvviso,
hanno accresciuto la difficoltà della difesa. Come ricordi, sono quattro o
cinque giorni, da che avevo cominciato a difendere nell'interesse di mia moglie
Pudentilla la causa contro i Granii, quando, seguendo un loro piano,
inaspettatamente gli avvocati di Emiliano mi assalgono con invettive
accusandomi di magici malefìci e per ultimo della morte di Ponziano mio
figliastro. Comprendevo che non eran queste vere e proprie
imputazioni prodotte in giudizio, ma schiamazzi ingiuriosi di litiganti:
appunto per questo li sfidai, con insistenti richieste, a presentare l'accusa.
E qui Emiliano, vedendo che anche tu eri sdegnato e che dalle parole si passava
ormai a un'azione giudiziaria, si smarrì e cominciò a cercare un rifugio alla
sua temerità. II Egli, che poco prima andava gridando ai quattro venti
che Ponziano, il figlio di suo fratello, era stato ucciso da me, appena è
sollecitato a sottoscrivere l'accusa, subito se ne scorda: della morte del
giovane parente neppure una parola; ma per non sembrare di avere in tutto
desistito dalla determinazione di così grave reato, la calunnia di magia, dove
è più facile incolpare che provare, questa sola preferì serbare all'accusa. Ma
neppure di questo ardiva farsi responsabile; il giorno dopo presenta una
querela scritta in nome di mio figliastro Sicinio Pudente, un minorenne, e
appone il suo nome come assistente, secondo la bella novità di perseguitare in
giudizio a nome altrui; naturalmente perché mettendo innanzi un ragazzo, egli
potesse sfuggire alla pena di calunnia. E tu, con il tuo finissimo accorgimento
avvertisti la cosa e lo esortasti per la seconda volta a sostenere in proprio
nome l'accusa. Promise di farlo, ma nemmeno così fu possibile trascinarlo qui a
lottare di persona e, ribellandosi alla tua stessa autorità, egli saetta le
calunnie da lontano. Tante volte fuggiasco dinanzi alla pericolosa responsabilità
dell'accusatore, ha perseverato nello scusabile ufficio dell'assistente. Così
prima ancora che il dibattimento fosse iniziato, chiunque poteva facilmente
capire che razza di accusa sarebbe stata quella di cui temeva farsi legale
promotore proprio colui che ne era stato il maestro e il macchinatore:
specialmente un uomo come Sicinio Emiliano, il quale, se avesse scoperto una
qualche prova contro di me non avrebbe davvero esitato a chiamare in giudizio
per tanti e così gravi delitti un uomo estraneo a lui: lui che ha impugnato di
falso il testamento dello zio pur sapendone l'autenticità, e con tale
ostinatezza che, allorquando l'illustrissimo Lollio Urbico, su parere dei
consolari, ebbe dichiarato quel testamento autentico e valido, questo
mentecatto, contro una sentenza profferita da così alto personaggio, osò
giurare tuttavia che quell'atto sì, era falso: e a fatica Lollio Urbico si
trattenne dal rovinarlo. III E un simile decreto, confidando nella tua equità e
nella mia innocenza, spero risonerà pure in questo processo, contro un uomo il
quale, convinto di mendacio in una causa di gran conto dinanzi al prefetto di
Roma, può adesso con più facilità accusare di proposito un innocente. Un
onest'uomo, quando abbia peccato una volta, si guarda bene dal ricadere; ma chi
ha malvagia natura più sfacciatamente ricomincia: e via via che crescono i
delitti, cresce l'impudenza: perché il pudore, come la veste, più è logoro,
tanto più è trascurato. E appunto perché il mio pudore è rimasto intatto, prima
che io cominci a discutere la lite, ritengo necessario confutare le maldicenze;
non soltanto la mia causa io difendo, ma anche quella della filosofia, la cui
maestà respinge come gravissima imputazione anche il più lieve biasimo. Gli
avvocati di Emiliano hanno testé buttato fuori con prezzolata loquacità tante e
tante calunniose invenzioni contro la mia persona ed altre più generiche use a
dirsi contro i filosofi. Codeste loro ciance, benché possano apparire utilmente
rimunerate e compensate con la paga dovuta all'impudenza, essendo ormai costume
di codesti cavalocchi prestare all'altrui rancore il veleno della propria
lingua, pure nell'interesse della mia causa devo brevemente rispondere loro
perché, se io, che ho tanto scrupolo nell'evitare la benché minima macchia
della mia vita, avrò trascurato qualcuna delle loro frivole insinuazioni, non
si debba credere che l'abbia accettata per vera anziché disprezzata. E pudore e
la verecondia, siccome penso, devono mal sopportare perfino il falso vituperio.
Anche quelli che hanno coscienza del delitto commesso, nel sentirsi biasimati
provano emozione e collera, benché da quando cominciarono a mal fare dovettero
assuefarsi al biasimo, perché se anche gli altri tacciono, essi hanno
ugualmente coscienza della loro riprovevole colpa. Con più ragione l'uomo buono
e innocente che ha le orecchie inesperte e nuove al biasimo ed è per
consuetudine di lode non avvezzo alla contumelia, si contrista che gli sian
dette tante di quelle cose che egli stesso potrebbe veracemente rimproverare agli
altri. Se dunque sembrerà che io abbia voluto scolparmi da
frivolezze e da inezie, ciò sia rivolto a discapito di coloro che
vergognosamente anche tali cose hanno imputato, e non sia data colpa a me che
onestamente anche tali cose confuterò. IV BELTÀ ED ELOQUENZA Hai dunque udito poco fa l'esordio dell'accusa:
«accusiamo dinanzi a te un filosofo di bell'aspetto e sì in greco, sì in latino
- guarda che delitto! - facondissimo». Se non erro, proprio con queste parole
diede principio all'accusa Tannonio Pudente, uomo quello lì davvero tutt'altro
che facondissimo. Magari egli fondatamente mi avesse rimproverato tali colpe di
bellezza e di facondia. Mi sarebbe stato facile rispondere come l'Alessandro di
Omero a Ettore: «non sono da spregiare i doni gloriosissimi degli dèi, quanti
essi ne accordano; molti li vorrebbero, senza ottenerli». Questo avrei detto quanto alla bellezza: e avrei
aggiunto che è lecito anche ai filosofi essere di nobile aspetto. Pitagora, che
primo assunse il nome di filosofo, fu l'uomo più bello del suo tempo;
similmente Zenone l'antico, oriundo di Velia, che primo con abilissimo
artificio seppe ridurre ogni proposizione a termini contradittorî, anche lui,
secondo afferma Platone, fu pieno di leggiadria: e così pure molti filosofi
sono ricordati di bellissimo aspetto, i quali la grazia del corpo ornarono con
la dignità dei costumi. Ma una tale difesa, come ho detto, è ben lontana da un
uomo, come me, di mediocre aspetto, a cui la continuata fatica degli studî
toglie ogni grazia alla persona, estenua il corpo, prosciuga il succo vitale,
spegne il colorito, debilita le forze. Questi miei stessi capelli, che costoro
con spudorata menzogna dissero spioventi a bella posta per vezzoso lenocinio,
guarda, guarda quanto siano graziosi e delicati, arruffati e lanosi, stopposi e
scarruffati e batuffolosi e impannicciati per la lunga incuria, nonché di
acconciarli, di scioglierli almeno e spartirli. Mi pare di aver detto
abbastanza circa l'accusa dei capelli, che costoro hanno mosso quasi fosse un
crimine capitale. V Quanto all'eloquenza, supposto che io ne abbia avuta,
non dovrebbe sembrare cosa strana né odiosa, se fin dalla prima giovinezza,
dedicatomi unicamente e con tutte le forze agli studî letterarî, sdegnato ogni
altro piacere, fino a questa età, forse più di ogni altro uomo con accanito
lavoro giorno e notte, io abbia cercato di conseguirla, spregiando e sprecando
la mia salute. Ma nessun timore da questo lato. Della eloquenza, per quanto io
abbia potuto in essa progredire, ho piuttosto il desiderio che il possesso.
Certamente, se è vero quanto si dice abbia scritto nelle sue commedie Stazio
Cecilio, che l'innocenza è eloquenza, se è vero questo, riconosco e
pubblicamente dichiaro che in fatto di eloquenza non la cederò a nessuno. Chi
potrebbe essere nella vita più valente espositore di me, che non ebbi mai un
pensiero che temessi di esporre? E affermo io stesso di essere facondissimo,
perché ogni peccato ho sempre ritenuto nefando; di essere ottimo parlatore
perché non esiste nessun fatto o detto mio di cui io non possa publicamente
parlare: così come ora parlerò dei versi da me composti che essi hanno creduto
di recitare qui quasi a mia vergogna, mentre io, come hai notato, ascoltavo con
un riso di sdegno per quegli ignorantoni che li pronunciavano in modo così
scorretto. VI IL DENTIFRICIO Essi, dunque, hanno cominciato a leggere tra i miei
scherzucci letterari un bigliettino poetico su un dentifricio, indirizzato ad
un certo Calpurniano, il quale nell'esibire quella lettera a mio danno, non ha
certamente visto, per la bramosia di nuocermi, se egli non fosse per caso
responsabile con me di quel delitto, se delitto c'era: perché proprio lui mi
aveva richiesto una sostanza per la pulizia dei denti, come attestano i versi.
Eccoli. Ti saluto, Calpurniano, con versi improvvisati. Ti ho mandato, come hai chiesto, nettezza di denti, splendori di bocca, fatti con arabici aromi, una tenue candifica famosa polverina che liscia e appiana la gengivetta enfiata che spazza via i resti del pranzo di ieri perché non si veda nessuna traccia impura quando avrai schiuso le labbra al sorriso. Di grazia, qual è in codesti versi il detto, il
pensiero, che faccia vergogna e che un filosofo non debba volere far suo?
Oppure per questo io sono da riprendere, per avere inviato una polverina tratta
da piante arabiche a Calpurniano cui sarebbe molto più adatto, secondo la
sporcissima usanza degli Iberi, di servirsi, come dice Catullo, della propria
urina: Per lustrarsi i denti e la rossa gengiva. VII Ho visto poco fa alcuni che trattenevano a stento le
risate mentre quell'avvocato muoveva fiera accusa contro la pulizia dei denti,
e la parola «dentifricio» pronunziava con tanto sdegno quanto nessuno ebbe mai
nel dire «veleno». Perché no? Dev'essere accusa bene accetta a un filosofo, non
tollerare su di sé nulla di sordido, non permettere che nessuna parte visibile
del suo corpo sia immonda e fetida: soprattutto la bocca che, posta in
evidenza, agli occhi di tutti, è l'organo di cui l'uomo si serve più spesso,
sia che baci qualcuno o che discorra o parli in pubblico o rivolga nel tempio
la preghiera a Dio. Ogni atto umano è preceduto dalla parola che, come dice il
massimo poeta, «vien fuori dalla chiostra dei denti». Immaginiamo un
magniloquente oratore: egli direbbe, nello stile che gli è proprio, che chi ha
specialmente cura del proprio linguaggio, deve attendere più che al resto del
suo corpo, alla bocca, vestibolo dell'anima, porta della orazione, comizio
delle idee. Per me, secondo la mia capacità, mi basti dire che a un libero e
liberale cittadino nulla sconviene più che la sozzura della bocca. Essa è la
parte eccelsa del corpo umano, la prima che si veda, la cui funzione è la
parola. Nelle fiere e nelle bestie la bocca bassa e prona giù giù fino alle
zampe e atterrata lungo il sentiero o la pastura mai può contemplarsi se non
quando siano morte o mordenti per la furia che le assale; nell'uomo nulla tu osservi
più presto quand'egli tace, nulla più spesso quand'egli parla. VIII Io vorrei pertanto che il mio censore Emiliano mi
rispondesse se egli usi qualche volta lavarsi i piedi o, se egli lo afferma,
che mi dimostri come mai sia più da curarsi la pulizia dei piedi che quella dei
denti. Certamente, se qualcuno come te, Emiliano, apre soltanto la bocca per
maledire e calunniare, credo bene che egli non curi né di pulirsi la bocca né
di nettarsi con una polvere esotica i denti - che per lui sarebbe più giusto
strofinare con carbone di forno crematorio - e neppure di sciacquarli con acqua
comune: ma piuttosto la sua lingua malefica, dispensiera di menzogne e di
amarezze, si appesti sempre nel suo letamaio. Infatti, ahimè, perché mai una
lingua pulita e bella dovrebbe possedere una voce brutta e sporca e a modo di
vipera col piccolo niveo dente stillare il nero veleno? Di chi si accinge ad
esporre pensieri né disutili né sgradevoli è giusto che sia ben forbita la
bocca, come la tazza per una buona bevanda. Ma a che parlare più a lungo
dell'essere umano? Una bestiaccia feroce, il coccodrillo che nasce nel Nilo,
anch'esso, a quanto ho appreso, sporge senza far male la enorme gola per farsi
pulire i denti; infatti poiché ha una bocca ampia ma priva di lingua, che
schiude solitamente nell'acqua, molte sanguisughe gli si attaccano ai denti; e
quando, arrivato al battito del fiume, ha spalancato la bocca, uno degli
uccelli fluviali, compiacente uccello, ficcato dentro il beccuccio, senza
pericolo alcuno, gliele cava fuori. IX VERSI DI AMORE Lasciamo questo argomento. Vengo ad altri versi, ai
versi d'amore, come essi dicono, che pure hanno letto in modo così duro e
villano da smuovere la bile. Quale rapporto può avere coi magici malefici il
fatto che ho composto una poesia in lode dei figli di Scribonio Leto, amico
mio? Sono mago perché sono poeta? Chi ha mai sentito parlare di un sospetto
così verosimile, di una congettura così fondata, di una prova così calzante?
«Fece dei versi Apuleio»: se cattivi, è un delitto e non del filosofo ma del
poeta; se buoni, di che mi accusi? «Ma versi leggeri, versi d'amore egli
compose». Ah son questi davvero i miei delitti? E avete dunque sbagliato
accusandomi di magia? Ben altri siffattamente peccarono, se anche voi lo
ignorate: presso i Greci un tale di Teos, un Lacedemone, uno di Ceos, con
innumerevoli altri; anche una donna di Lesbos, voluttuosa quella veramente e
con tanta grazia da fare accettare con la dolcezza del canto l'arditezza del
linguaggio; presso di noi Edituo, Porcio, Catulo, anch'essi con innumerevoli
altri. «Ma non erano filosofi costoro»: e negherai dunque che Solone sia stato
un personaggio severo ed un filosofo? Ebbene, quel verso pieno di lascivia è
suo: «desiando le cosce e la bocca soave». E di fronte a codesto solo che hanno
mai di tanto sfacciato i miei versi? E non dico nulla degli scritti di Diogene
il cinico e di Zenone, il fondatore della setta stoica, che ne hanno scritte
molte, di simili cose. Recitiamoli pure quei versi una volta ancora, perché sappiano
che non ne ho punto vergogna: Sì, Critia è la mia gioia: ma è salva, Carino, la
parte che a te rimane, o mia vita, nell'amor mio. No, non temere, fuoco con fuoco a talento mi bruci: io questa doppia fiamma, pur di godervi, sopporterò. Per l'uno e l'altro io sia quel che ognuno di voi è
per sé: e voi per me sarete quel che sono due occhi. Recitiamo adesso anche gli altri che essi hanno letto
per ultimi, come i più scostumati: Ecco, dolcezza mia, io t'offro ghirlande e canzoni: offro canzoni a te e al genio tuo ghirlande. Cantino le canzoni, o Critia, la luce del grato
giorno che ti riporta sette con sette primavere. Fiorisca di ghirlande, nel tempo lieto, la tua
fronte, e tu adorna di fiori il fiore di giovinezza. Per i fiori di primavera tu dàmmi la tua primavera, e supera coi tuoi doni i miei doni. Per gl'intrecciati serdi mi rendi col corpo un
amplesso, e per le rose i baci della purpurea bocca. Ma se il tuo fiato spiri nel flauto, tosto i miei
canti si taceranno vinti dalla tua dolce zampogna. X Eccoti il mio crimine, o Massimo, come di un
incorreggibile crapuIone: un crimine fatto di ghirlande e di canzoni. E qui hai
notato che mi si fa un altro rimprovero, perché avendo i fanciulli altro nome,
ho continuato a chiamarli Critia e Carino. Per il medesimo fatto accusino
Catullo perché nominò Lesbia invece di Clodia, e similmente Ticida per avere
scritto Perilla e non Metella, e Properzio che dice Cintia dissimulando Hostia
e Tibullo che ebbe Plania nel cuore e Delia nel verso. E io non saprei
veramente approvare Lucilio, quantunque sia poeta satirico, per avere esposto a
mala fama coi veri nomi, in uno dei suoi carmi, i giovinetti Genzio e Macedone.
Quanto più discreto il poeta Mantovano che, lodando, come io ho fatto, il
giovane schiavo dell'amico suo Pollione, in una scena bucolica, si astiene dai
nomi, chiamando sé Coridone e Alessi il fanciullo. Ma Emiliano, uomo rusticano
più dei pecorai e dei bovari virgiliani, zoticone e barbaro sempre, ma di gran
lunga più austero, com'egli si crede, dei Serrani e dei Curii e dei Fabrizi,
nega che a un filosofo platonico si convengano versi di tal genere. Dimmi,
Emiliano: anche se dimostro ch'essi sono fatti proprio sull'esempio dello
stesso Platone, del quale non abbiamo altri carmi fuorché elegie di amore?
Perché le altre poesie, immagino, non ritenendole altrettanto piacevoli, le
diede alle fiamme. Ascolta i versi del filosofo Platone sul giovane Aster, se
pure, vecchio come sei, puoi apprendere qualcosa di lettere: Aster, prima splendevi stella dell'alba tra i vivi: ora, che sei morto, splendi Espero tra i defunti. Dello stesso Platone sono
questi versi dove sono congiunti due efebi, Alexis e Fedro: Da quando io dissi che Alessi solo è bello, lo
guardano tutti, e in ogni luogo gli mettono gli occhi addosso. O cuore mio, perché mostrare un osso ai cani? Te ne
pentirai un giorno. Fedro, non l'abbiamo perduto così? E per non citarne di più,
eccovi un suo ultimo verso su Dione siracusano e avrò finito: «O Dione, mia
frenesia d'amore». XI Ma sono io forse uno stolto, che parlo di queste cose
anche davanti a un tribunale? O non voi piuttosto calunniatori, che cose di tal
genere allegate nell'accusa, quasi fossero documenti di moralità alcuni scherzi
poetici? Non avete letto la risposta di Catullo ai malevoli? Eccola: «il pio
poeta dev'essere casto, lui: i versi non è necessario lo siano». Il divo
Adriano, onorando di un omaggio poetico il tumulo dell'amico poeta Voconio,
così scrisse: «il verso tuo lascivo, ma l'anima era pura». Il che non avrebbe
mai scritto se le poesie alquanto voluttuose fossero da ritenere prove di
impudicizia. E proprio di lui, del divo Adriano, ricordo di aver letto più cose
di tal genere. Ora di' pure Emiliano, se ne hai il coraggio che è male fare ciò
che fece e lasciò alla posterità il divo Adriano imperatore e censore. Del
resto, puoi tu pensare che Massimo riterrà colpevole ciò che io ho fatto,
com'egli sa, sull'esempio di Platone? i cui versi, or ora citati, sono tanto più
puri quanto più schietti, tanto più pudicamente composti, quanto più
ingenuamente professati. In siffatta materia dissimulare e occultare è di chi
male opera, professare e divulgare è di chi scherza: giacché la natura ha
assegnato la voce all'innocenza, il silenzio al maleficio. XII E tralascio di significare quell'alto e divino
concetto di Platone noto, salvo eccezione, alle anime religiose, ma sconosciuto
a tutti i profani: che vi siano due Veneri, signora ciascuna di un proprio
amore e di amatori diversi; l'una è la Venere popolare che si scalda all'amore
volgare e sprona alla libidine gli animi non solo degli uomini ma anche degli
animali domestici e selvaggi, avvinghiando insieme in una passione sfrenata e
selvaggia i corpi asserviti; l'altra, la Venere celeste, preposta al più nobile
amore, ha cura degli esseri umani soltanto, di pochi tra essi, né per impulsi
di libidine né per lusinghe abbatte i suoi adoratori; ché il suo amore non
voluttuoso e sollazzevole, ma disadorno e severo rivolge i suoi amanti alla
virtù, colla bellezza morale: e se talora ci richiama alle belle persone, ci
distoglie dal far loro oltraggio: e infatti per questo solo è amabile la
bellezza dei corpi, perché essi richiamano l'anima divina e quella vera e pura
bellezza ch'essa vide prima tra gli dèi. Per ciò, sebbene con molta eleganza
Afranio abbia lasciato scritto: «amano i saggi, bramano gli altri», tuttavia,
Emiliano, se vuoi saper la verità e se sei capace di comprendere qualche cosa,
il sapiente non tanto ama quanto ricorda. XIII Perdona dunque a Platone filosofo quei suoi versi di
amore, perché io non abbia necessità, contro il precetto del Neottolemo
enniano, di filosofare con molte parole; se non vuoi, sopporterò facilmente di
farmi incolpare per siffatte poesie in compagnia di Platone. A te, Massimo,
rendo grazie infinite per la tanta attenzione onde hai ascoltato anche queste
appendici della mia difesa, per questo necessarie, perché fanno da contrappeso
alle accuse. Ed io ti chiedo di ascoltare ancora, come hai fatto finora,
volentieri e attentamente, ciò che mi resta a dire prima ch'io venga alle
accuse principali. LO SPECCHIO Segue dunque quel lungo e censorio discorso intorno
allo specchio, per cui, dinanzi all'atrocità della cosa, Pudente per poco non è
scoppiato schiamazzando: «ha uno specchio il filosofo, possiede uno specchio il
filosofo!» Orbene, ammettendo pure di averlo, perché tu non creda di aver
mossa, se lo negherò, una seria obiezione, non è tuttavia necessario concludere
che io sia solito anche abbigliarmi allo specchio. E che? Se io possedessi
tutto un vestiario scenico forse ne argomeriteresti che io sia solito indossare
il manto del tragico, la gialla tunica dell'istrione, la variopinta casacca del
mimo? Non credo. Così al contrario, moltissime sono le cose che non possiedo ma
che adopero. Se il possesso non è una prova dell'uso e la mancanza di possesso
non esclude l'uso, giacché non tanto il possesso dello specchio si incolpa,
quanto il fatto di specchiarsi, questo è necessario che tu mi provi: quanto e
in presenza di chi io mi sia guardato allo specchio. Dico questo perché in
realtà tu decreti che per un filosofo la vista di uno specchio è un sacrilegio
peggiore che per un profano vedere gli oggetti sacri dei misteri di Cerere. XIV Dimmi: se io confesso di essermi guardato, quale
delitto è conoscere la propria immagine e, anziché tenerla racchiusa in un
determinato luogo, portarla dovunque tu voglia, visibile e manifesta, in un
piccolo specchio? Ignori che per una creatura umana nulla è più degno di essere
rimirato che la propria figura? Anche dei figli so che sono più cari quelli che
rassomigliano ai genitori; e le città fanno dono ai benemeriti cittadini delle
loro immagini, perché possano contemplarle. Altrimenti che significato hanno le
statue e le immagini con varia arte rappresentate? A meno che per avventura ciò
che è stimato lodevole quando sia elaborato dall'arte, non sia da giudicarsi
vizioso quando venga offerto dalla natura, dove è pure assai più meravigliosa
la facilità e la somiglianza. Giacché in ogni ritratto si lavora a lungo,
eppure la somiglianza non apparisce così viva come negli specchi; manca infatti
alla creta il vigore, alla pietra il colore, alla pittura il rilievo e a tutte
quante il moto che rende con singolare fedeltà la somiglianza: mentre nello
specchio si vede l'immagine mirabilmente riportata, che rassomiglia e si muove
e obbedisce a ogni cenno della persona. E quella immagine, di coloro che si
rimirano è coetanea sempre, dalla nascente puerizia alla morente vecchiaia;
tante mutazioni di tempo essa riveste, così vari aspetti della persona
comporta, tante espressioni riflette di letizia e di dolore. Ma ciò che è
plasmato o fuso nel bronzo o scolpito nel sasso o impresso nella cera o steso
su coi colori o raffigurato con qualsivoglia altro artificio, dopo un breve
intervallo di tempo non rassomiglia più e, a guisa di cadavere, serba una sola
ed immobile faccia. Di tanto, rispetto alla somiglianza, supera le arti
figurative quella modellatrice levigatezza e quella creatrice splendidezza
dello specchio. XV Dobbiamo, dunque, seguire il proposito del solo
Agesilao, il Lacedemone, il quale diffidando del suo aspetto non si lasciò mai
né dipingere né scolpire o è da mantenere il costume di tutti gli uomini nel bene
accogliere le statue e le immagini? E in tal caso, perché ritieni si debba
vedere la propria immagine nella pietra e non nell'argento: in un quadro e non
in uno specchio? Oppure pensi tu sia brutta cosa studiare con assidua
contemplazione la propria figura? Socrate, il filosofo, esortava, come si dice,
i giovani a contemplarsi spesso nello specchio perché chi si fosse compiaciuto
della propria bellezza badasse attentamente a non disonestare coi mali costumi
la dignità del corpo; chi si ritenesse poco raccomandabile nell'aspetto, si
adoprasse a nascondere la bruttezza con le qualità morali. Tanto quell'uomo, il
più sapiente fra tutti, si valeva dello specchio per la disciplina dei costumi.
E Demostene, il principe dell'arte della parola, chi non sa che egli sempre
dinanzi allo specchio quasi davanti a un maestro ripeteva le sue orazioni? Così
quel sommo oratore, dopo aver attinto da Platone filosofo l'eloquenza e appreso
da Eubolide dialettico l'arte dell'argomentazione, chiese per ultimo allo
specchio l'armoniosa compostezza della pronuncia. Credi tu dunque che nel far
valere la sua orazione debba curare maggiormente il decoro della forma
l'avvocato che litiga o il filosofo che ammonisce; colui che discute per un
momento davanti a giudici sorteggiati o quello che disserta sempre dinanzi agli
uomini tutti? uno che contesta i limiti di un campo o uno che insegna i limiti
del bene e del male? Né soltanto per questo un filosofo deve riguardare lo
specchio. Spesso è necessario non solo esaminare la propria rassomiglianza, ma
considerare anche le ragioni della somiglianza. Bisogna vedere se, come afferma
Epicuro, le immagini movendo dai nostri corpi con perenne flusso, come leggeri
tessuti, allorché hanno urtato un che di liscio e di solido, schiacciate, si
riflettano e risaltino per di dietro rovesciate; o, come sostengono altri
filosofi, se i nostri raggi, sia emanati dal centro dei nostri occhi e con la
luce esterna commisti e unificati, come pensa Platone: sia semplicemente usciti
dagli occhi, senza alcun appoggio di luce esterna, secondo la opinione di
Archita, sia condotti attraverso il fluido dell'aria, come pensano gli Stoici;
se questi raggi, dunque, quando cadono su un corpo solido e brillante e liscio
rimbalzino con angoli uguali all'angolo di incidenza, tornando indietro alla
figura donde sono partiti, di guisa che ciò che essi toccano e vedono
all'esterno raffigurino dentro lo specchio. XVI Non pare a voi che la filosofia debba proporsi tutti
questi problemi e investigarli e guardare tutti gli specchi liquidi e solidi? E
al filosofo, oltre le questioni di cui si è parlato, è necessario altresì
considerare perché appunto negli specchi piani apparisce quasi affatto uguale
l'immagine di chi si specchia, in quelli convessi e sferici tutto apparisce più
impiccolito e nei concavi invece ingrandito; e inoltre per quale ragione negli
specchi la sinistra è al posto della destra, e quando la immagine ora resti
nascosta nell'interno, ora si manifesti alla superficie del medesimo specchio;
perché gli specchi concavi se sono collocati di faccia al sole accendano gli
oggetti infiammabili messi davanti al loro foco; perché mai si vede lo svariare
di un arco tra le nubi e l'emula somiglianza di due soli; e restano moltissimi
altri fenomeni di tal genere che tratta in un grande volume Archimede
siracusano: uomo certamente in ogni scienza geometrica sopra tutti meraviglioso
per acutezza, ma per questo forse massimamente memorabile, per aver saputo
veder bene e molte volte nello specchio. E se tu, Emiliano, avessi conosciuto
questo libro e ti fossi dato non solo al campo e alle glebe, ma anche
all'abbaco e alla rena, credimi pure, anche con codesto tuo mostruoso aspetto
da maschera tiestea, saresti, senza dubbio, per la passione dello studio,
andato allo specchio e talvolta, smesso l'aratro, avresti rimirato sulla tua
faccia i tanti solchi delle rughe. Ma se tu sei contento che io parli di codesta tua
raggrinzatissima faccia, dissimulando quella assai più selvaggia indole tua,
non ne ho punto meraviglia. Così è: oltre a non essere litigioso, io ho avuto
sino a poco fa il piacere di non sapere se tu fossi bianco o nero; e finora,
per grazia di Dio, non ti ho conosciuto abbastanza. Ed è avvenuto appunto
questo: che tu vivi ignorato nei tuoi campi, ed io vivo occupato nei miei
studi. Così l'ombra che ti nasconde ti ha sottratto alla censura e io non ho
cercato mai di conoscere le male azioni degli altri, e ho preferito sempre far
dimenticare i miei peccati che indagare quel degli altri. Pertanto, dinanzi a
te sono nella condizione di chi è vissuto in un luogo tutto pieno di luce e un
altro dalle tenebre di lontano lo spia. Così quello che io faccio all'aperto ed
in pubblico tu agevolmente riguardi dal fondo delle tenebre tue, mentre la
bassa ed occulta oscurità in cui vivi non mi consente di vederti a mia volta. XVII I TRE SERVI AFFRANCATI Così, se tu hai degli schiavi per coltivare la terra
o se fai scambio di opere mutuarie coi tuoi vicini, non so né mi curo di
sapere; tu invece sai che io nello stesso giorno in Oea ho affrancato tre
schiavi, e ciò il tuo avvocato, fra le altre rivelazioni che gli hai fatto, mi
ha rinfacciato, benché poco prima avesse detto che ero venuto in Oea
accompagnato da un solo servo. Ed io vorrei che tu mi rispondessi proprio su
questo, come mai con un solo servo io abbia potuto affrancarne tre: a meno che
non entri anche qui la magia. Che debbo dire? Può giungere fino a tanto la
cecità o la consuetudine della menzogna? «Venne Apuleio in Oea con un solo
servo»: e dopo un garrulio di poche parole: «Apuleio in Oea in un sol giorno ne
affrancò tre». Sarebbe già poco credibile che venuto con tre io li avessi tutti
e tre liberati; ma se anche così avessi fatto, perché dovresti stimare tre
servi indizio di povertà piuttosto che tre affrancati indizio di opulenza? Tu
non sai certamente, Emiliano, che accusi un filosofo: tu che hai potuto
rimproverarmi quella pochezza di servitù, che invece avrei dovuto inventare io,
per farmene un vanto: perché sapevo che non solo i filosofi, dei quali mi
dichiaro seguace, ma anche i supremi comandanti del popolo romano si gloriarono
della pochezza dei servi. Dunque neppure questo hanno letto i tuoi avvocati,
che M. Antonio, dopo il suo consolato, aveva in casa soltanto otto servi;
Carbone, quello rimasto a capo della Repubblica, uno di meno, e Manio Curio,
famoso per tante vittorie, che passò tre volte per la medesima porta da
trionfatore, quel Manio Curio, dico, ebbe nel suo accampamento due soli
garzoni. Così quell'uomo che trionfò dei Sabini, dei Sanniti e di Pirro, ebbe
più trionfi che servi. E M. Catone, senza aspettare che altri facesse la sua
lode, in una orazione lasciò scritto che partendo console per la Spagna,
condusse con sé da Roma tre soli servi; giunto alla Villa Pubblica, credendo
che non bastassero alle necessità del servizio, ne fece comprare due al
pubblico mercato: andò in Ispagna con cinque. Credo che se Pudente avesse letto
questi fatti o si sarebbe risparmiata la calunnia ovvero in tre servi che
accompagnano un filosofo avrebbe preferito scorgere una colpa di abbondanza
anzi che di miseria. XVIII LA POVERTÀ Egli, Pudente, anche della mia povertà ha fatto un
delitto: delitto che un filosofo gradisce e apertamente professa. La povertà è
sempre stata domestica ancella della filosofia, onesta, sobria, ricca di poco,
gelosa del buon nome, stabile possesso di fronte alle ricchezze, sicura del suo
stato, semplice nell'aspetto, provvida di consigli; nessuno ha mai gonfiato di
superbia, nessuno ha depravato con la sfrenatezza, nessuno ha imbestiato con la
tirannide, le delizie della gola e degli amori non vuole né saprebbe godere.
Queste sono vergogne consuete agli alunni delle ricchezze. Se passi in rassegna
i più grandi scellerati che la storia ricordi, non troverai tra di essi nessuno
povero; e mentre bisogna fare ricerca per trovare dei ricchi fra gli uomini
illustri, quanti sono ammirevoli per qualche merito sono stati fin dalla culla
nutriti dalla povertà. La povertà, dico, fin dai primi tempi dell'umano
consorzio, fondatrice di tutti gli Stati, inventrice di tutte le arti, priva di
ogni peccato, larga dispensiera di ogni gloria, operatrice di ogni bene nel
mondo. Vedetela presso i Greci: in Aristide giusta, in Focione benigna, in
Epaminonda valorosa, in Socrate sapiente, in Omero eloquente; essa stessa, la
povertà, è stata dalle origini fondamento di impero al popolo romano, il quale
appunto per ciò, ancora oggi, sacrifica agli dèi immortali con un ramaiolo e
una scodella di argilla. Se dovessero sedere giudici in questa causa Gaio
Fabrizio, Gneo Scipione, Manio Curio, le cui figlie per la loro povertà furono
dotate a spese dello Stato e andarono alle case dei loro mariti portando la
gloria domestica e il denaro pubblico; se Publicola, colui che cacciava i re,
se Agrippa, riconciliatore del popolo, i cui funerali a cagion di miseria
furono fatti mediante pubbliche offerte; se Attilio Regolo, il cui campicello
per simile indigenza fu coltivato a spese dello Stato: se insomma tutte quelle
antiche famiglie di consoli, di censori, di trionfatori, potessero ritornare un
istante alla luce ed assistere a questo processo, oseresti tu rinfacciare la
povertà a un filosofo dinanzi a tanti consoli che furono poveri? XIX E pare a te che Claudio Massimo sia uomo adatto ad
ascoltare i tuoi scherni sulla povertà per il fatto che egli ha sortito un
prospero e copioso patrimonio? Sbagli, Emiliano: tu sei ben lontano da
quest'anima, se la misuri secondo i favori della fortuna, non secondo i severi
principi della filosofia; se un uomo di tanta austera disciplina filosofica e
di così lunga milizia, non credi sia più amico di una contenuta temperanza che
di una raffinata opulenza e si compiaccia della fortuna come di una tunica
piuttosto proporzionata che lunga: giacché anche essa, la fortuna, se invece
che portata è trascinata, così come un lembo che penda giù, impaccia e fa
cascare. Fra tutte le cose necessarie agli usi della vita tutto quanto sorpassa
la giusta misura è piuttosto di aggravio che di vantaggio. Le ricchezze smodate
come ingenti ed enormi timoni fanno più facilmente affondare la nave, anzi che
dirigerla per la sua rotta, perché hanno un'abbondanza inutile e una
sovrabbondanza nociva. E tra la gente più ricca vedo che sono soprattutto
lodati quelli che, silenziosi e modesti, dissimulate le loro fortune, vivono
amministrando i loro grandi beni senza ostentazione né superbia, per la
semplicità delle loro maniere, simili ai poveri. Ora, se anche i ricchi, per
prova di modestia, vagheggiano una certa apparenza e un tal colore di povertà,
perché dovremmo arrossirne noi che, in più umile condizione, sopportiamo una
povertà non simulata ma reale? XX Ed io potrei anche fare con te questione proprio di
parola: e sostenere che nessuno è povero il quale rinunci al superfluo ed è
provveduto di quel necessario che per natura si riduce a ben poco. Ha il
massimo quegli che desidera il minimo; chi vorrà pochissimo avrà infatti quanto
vorrà. Le maggiori ricchezze non sono riposte in terre e in capitali, quanto negli
appetiti dell'animo nostro, ché se dall'avidità è fatto bisognoso e insaziabile
ad ogni guadagno, neppur montagne d'oro gli saranno abbastanza: e per aumentare
i suoi guadagni avrà sempre qualcosa da mendicare. È questa appunto una vera
confessione di povertà: perché ogni desiderio di arricchire viene dal pensiero
che ti manchi qualcosa: e non importa quanto sia grande ciò che ti manca. Filo
non ebbe un patrimonio così grosso quanto Lelio, né Lelio quanto Scipione, né
Scipione quanto Crasso il ricco, ma neppure Crasso il ricco quanto ne avrebbe
voluto. Così, mentre superava in richezza tutti gli altri, a tutti sembrò
ricco, meno che a sé. Quei sapienti invece, che ho ricordati, nulla volendo al
di là delle proprie forze e avendo anzi accordati i desideri con le loro
facoltà, furono a buon diritto meritamente ricchi e fortunati. Tu sei povero
per il continuo bisogno di afferrare qualcosa, sei ricco per la sazietà
dell'esser pago. Il distintivo della miseria è il desiderio, quello
dell'opulenza è la sazietà. Così, Emiliano, se vorrai che io mi ritenga povero,
è necessario dimostrarmi prima che sono un avaro. Ma se l'animo mio non manca
di nulla, io non mi dò pensiero di quanto manchi dei beni esteriori, dei quali
l'abbondanza non è un merito, e la penuria non è una colpa. XXI Ma supponi che la cosa stia altrimenti e che io sia
povero perché la fortuna mi ha invidiato le ricchezze, ed esse, come di solito
avviene, mi ha accorciate un tutore o mi ha strappate un nemico, o non mi ha
lasciate mio padre. Per questa ragione dovrai rinfacciare a un uomo quello che
non si rimprovera a nessun animale, non all'aquila, né al toro né al leone? Se
un cavallo ha tutte le migliori qualità: uguale andatura, corso veloce, nessuno
gli rimprovera la scarsezza del nutrimento; e tu mi attribuirai a colpa non la
bassezza di qualche parola o azione, ma la modestia della casa, la pochezza dei
servi, la troppa parsimonia degli alimenti, la semplicità dei vestiti, la
frugalità della tavola? Eppure, comunque ti sembrino misere queste mie
condizioni, io stimo al contrario di avere assai, di aver troppo, e vorrei
contenermi ancora di più e godere la maggiore felicità nelle maggiori
strettezze. Giacché dell'animo come del corpo la sanità non vuole impedimenti;
la debolezza è piena di impicci ed è segno infallibile di infermità aver
bisogno di tante cose. La vita è come il mare: nuota meglio chi è leggero, ed
anche nella tempesta della umana esistenza, il poco peso regge, il troppo
affonda. Ho appreso che appunto in questo consiste la superiorità degli dèi
sugli uomini, nel non aver bisogno di nessuna cosa per la propria esistenza;
fra noi, dunque, chi si contenta del minimo, quegli è più vicino agli dèi. XXII Per ciò godevo quando per oltraggiarmi dicevate che
tutto il mio patrimonio era la bisaccia e il bastone. Voglia il cielo che io
abbia l'animo così alto da non desiderare mai nulla oltre quel corredo e di
portare degnamente quell'apparato che Cratete, abbandonate le proprie
ricchezze, volle far suo. Codesto Cratete - puoi crederlo, Emiliano - uomo, tra
i grandi signori di Tebe, ricco e nobile, per amore di quest'abito che mi
rinfacci, donò al popolo il suo ricco ed opulento patrimonio, e congedati i
suoi numerosi schiavi, scelse la solitudine: ai moltissimi alberi fruttiferi
preferì un solo bastone, le ville piene di ogni ornamento commutò con una sola
bisaccia che poi, sperimentatane la utilità, celebrò in un carme, adattando a
questo scopo i versi in cui Omero magnifica l'isola di Creta. Ne citerò il
principio perché tu non creda siano queste fantasticherie della mia difesa: In mezzo al fosco oceano dell'orgoglio è una città: la mia bisaccia. E il resto è così stupendo
che se tu l'avessi letto mi avresti invidiato la bisaccia più che le nozze di
Pudentilla. La bisaccia e il bastone tu rimproveri ai filosofi: allora anche ai
cavalieri le loro fàlere e ai fanti gli scudi e ai vessilliferi gli stendardi e
ai trionfatori le bianche quadrighe e la toga palmata. Queste di cui parlo non sono
le fogge della setta platonica, ma le insegne della cinica famiglia. Dico
dunque che per Diogene e Antistene la bisaccia e il bastone furono quello che è
il diadema per i re, il manto per i generali, la calotta per i pontefici, il
lituo per gli àuguri. Diogene cinico, discutendo con Alessandro il Grande sul
vero regno, si gloriava del suo bastone invece dello scettro; e lo stesso
invincibile Ercole - giacché per te le virtù morali dei filosofi sono
miserabili pitoccherie - lo stesso Ercole, dico, percorritore del mondo,
sterminatore delle fiere, domatore delle genti, egli che fu pure un dio, nel
tempo in cui vagò per le terre, fin quasi al momento in cui le sue virtù lo
innalzarono al cielo, non ebbe che una sola pelle per veste e un sol bastone
per compagno. XXIII Ma se questi esempi non valgono niente per te e se mi
hai citato non per trattare la causa ma per inventariare i miei beni, perché tù
non abbia a ignorare nulla delle mie cose, - supposto che tu non sappia -
dichiaro che a me e a mio fratello mio padre lasciò circa due milioni di
sesterzi: e questo patrimonio per i lunghi viaggi, per i miei continui studî e
le frequenti liberalità fu alquanto diminuito. A molti amici prestai soccorso,
a moltissimi maestri diedi segni della mia riconoscenza e di alcuni anche dotai
le figliole: e non avrei affatto esitato a sacrificare anche tutta la mia
ricchezza per acquistare un bene che del patrimonio vale assai più. Ma tu,
Emiliano, e gli uomini della tua razza, gente incolta e selvaggia, valete
soltanto quello che possedete: così come l'albero sterile e infelice, che non
produce alcun frutto, vale soltanto il legno del suo tronco. Lascia per
l'avvenire, Emiliano, le invettive contro la povertà, tu che ora è poco quel
campicello di Zaratha, l'unico che ti avea lasciato tuo padre, solo con un solo
asinello in tre giorni lavoravi verso la stagione delle pioggie. Perché solo da
poco tempo la morte che infierisce tra i tuoi parenti ti ha rassodato con
eredità che non ti spettavano affatto: donde a te, piuttosto che da codesta tua
orribile figura, è venuto il nome di Caronte. XXIV LA PATRIA DI APULEIO Quanto alla patria mia, che essa è posta proprio sul
confine della Numidia e della Getulia, risulta, come avete mostrato, dai miei
discorsi scritti; infatti in una pubblica conferenza, alla presenza del
chiarissimo Lolliano Avito, mi dichiarai seminumida e semigetulo; ma io non
vedo che cosa ci sia in questo di vergognoso per me come per Ciro il grande, il
quale fu di genere misto, semimedo e semipersiano. Non infatti dove uno è nato,
ma come è costumato bisogna osservare: e considerare non il luogo di nascita ma
il modo di comportarsi nella vita. L'ortolano e il bettoliere a buon diritto
vantano gli ortaggi e il vino secondo la nobiltà del suolo da cui provengono:
vino di Tasos, legumi di Fliunte: giacché a quei prodotti della terra dà un
miglior sapore la fertilità della contrada, l'umidità del clima, la mitezza del
vento, l'abbondanza di sole, la grassezza del terreno. Ma all'anima umana, che
viene a immigrare straniera nell'ospizio del corpo, quale di codeste cose
accessorie potrebbe accrescere o diminuire la virtù o il vizio? E varii ingegni
non sono sempre apparsi in tutti i paesi, anche in quelli più famosi per
ottusità o per intelligenza? Presso gli Sciti, ottusissima gente, nacque il
sapiente Anacarsi; in Atene, la città dello spirito, Meletide l'idiota. Non ho
detto questo perché io abbia vergogna della mia patria, se pur fossimo ancora
dominio di Siface: ma così non fu: ché dopo la sua sconfitta passammo per
favore del popolo Romano alla signoria di Massinissa e poi con nuovo
ordinamento divenimmo splendidissima colonia di veterani. In questa colonia mio
padre tenne l'alta carica di duumviro, dopo esser passato per tutti i gradi: e
la paterna dignità, fin da quando ebbi parte nella vita pubblica, senza mai
degenerare, ho sempre mantenuto, spero, con uguale stima ed onore. Perché ho
detto queste cose? Perché tu, Emiliano, da ora in poi sia meno sdegnato con me
ed anzi mi impartisca il perdono, se mi sono per avventura scordato di
scegliere a luogo di nascita quella tua attica Zaratha. XXV Come mai non vi vergognate di produrre seriamente
dinanzi a tale magistrato tali capi di accusa frivoli e contradittori,
colpendoli ugualmente di biasimo? E non vi siete forse contraddetti incolpando
la bisaccia e il bastone di austerità, le poesiole e lo specchio di
scostumatezza, e trovando in un solo servo lo spilorcio, in tre liberti lo
scialacquatore e l'eloquenza greca in un barbaro? Svegliatevi una buona volta e
ricordate di parlare dinanzi a un magistrato severo che deve accudire agli
affari di tutta la provincia; tralasciate, dico, queste ingiurie vane e
dimostrate le colpe di cui mi avete accusato, i feroci delitti, i vietati
maleficî, le nefande macchinazioni. Perché nelle prove tanta mollezza e negli
schiamazzi tanta energia? L'ACCUSA DI MAGIA Eccomi arrivato all'accusa di magia, a quell'incendio
che acceso con grande baccano, per mia rovina, contro la comune aspettazione è
svanito fra non so quali storielle da vecchie comari. Non vedesti tu mai,
Massimo, uno di quei fuochi di stoppia che scoppiettando sonoro divampa immenso
a un tratto e poi cade, ché è paglia, senza lasciare più nulla? Eccoti
quell'accusa: cominciata con le ingiurie, nutrita di chiacchiere, difettosa di
prove, dopo la tua sentenza non lascerà più veruna traccia della calunnia. IL MAGO Poiché per Emiliano tutta l'accusa fu compresa in
questa sola imputazione, che io sono un mago, voglio chiedere ai suoi eruditissimi
avvocati, che cosa sia il mago. Siccome io leggo in numerosi autori, mago è
nella lingua dei Persiani quello che è da noi il sacerdote; e allora qual
delitto è dopo tutto essere sacerdote, avere la conoscenza, la scienza, la
pratica delle ordinanze rituali, dei precetti della religione, delle regole del
culto? Questa è almeno la definizione che Platone dà della magia quando ricorda
con quali discipline i Persiani educhino al regno il giovane principe. Ho nella
memoria le parole di quell'uomo divino: e tu, Massimo, ricorda con me: «All'età
di quattordici anni lo ricevono quelli chiamati regi pedagoghi. Sono scelti tra
i Persiani i quattro ritenuti migliori, di età matura: il più saggio, il più
giusto, il più temperante, il più coraggioso. Dei quali uno insegna la magia di
Zoroastro figlio di Oromazo: e questo è il culto degli dèi. Insegna anche
l'arte del regnare». XXVI Avete ascoltato, dunque. La magia, che voi
sconsigliatamente accusate, è arte gradita agli dèi immortali, che gli dèi sa
bene onorare e venerare, pietosa voglio dire ed esperta delle cose divine, già
fin da Zoroastro e da Oromazo, suoi fondatori, sacerdotessa dei celesti; essa
fa parte dei primi insegnamenti del principe, e fra i Persiani non è più lecito
a chiunque esser mago che essere re. In un altro dialogo Platone, a proposito
di Zalmoxis, uno che pur essendo trace di nazione, praticava la medesima arte,
lasciò scritto così: «gl'incantamenti essere buone parole». Se è così, perché
non mi è lecito conoscere le buone parole di Zalmoxis o la scienza sacerdotale
di Zoroastro? Ma se, com'è volgare costume, i miei avversari credono che mago è
propriamente colui che mediante la sua comunicazione con gli dèi immortali, con
la forza di certi incantesimi può compiere tutto ciò che voglia di incredibile,
mi stupisco in verità che essi non abbiano temuto di accusare uno cui
riconoscono tanto potere. Giacché da una potenza tanto occulta e soprannaturale
non ci si potrebbe guardare come da altri pericoli. Chi chiama in giudizio un
assassino, viene accompagnato; chi accusa un avvelenatore, sta più attento a
quel che mangia; chi denuncia un ladro, custodisce bene le sue cose; ma chi
accusa di un delitto capitale un mago, come costoro l'intendono, con quali
compagni, con quali scrupoli, con quali custodi può rimuovere da sé la
invisibile e inevitabile rovina? Per siffatti delitti, chi accusa non crede. XXVII Per un comune errore di ignoranza sono attaccati
solitamente i filosofi. Gli uni che cercano di penetrare le cause elementari e
i princìpi costitutivi dei corpi, sono tenuti per irreligiosi e negatori degli
dèi, come Anassagora, Leucippo, Democrito ed Epicuro e tutti quanti sono
sostenitori dell'ordine naturale del mondo; gli altri che solleciti scrutano la
provvidenza ordinatrice dell'universo e onorano devotamente gli dèi, questi
sono chiamati volgarmente maghi, quasi fossero altresì gli autori dei fatti che
essi conoscono. Tali furono Epimenide e Orfeo e Pitagora e Ostane; e in
sospetto di magia vennero dopo anche le Purificazioni di Empedocle, il Dèmone
di Socrate, il Bene di Platone. Mi congratulo con me stesso di essere anch'io
annoverato fra tanti e tali personaggi. Tutte le altre inezie e assurdità che
costoro han tratto fuori per dimostrare la mia colpabilità ingenuamente temerei
che tu possa ritenerle criminose per il solo fatto che mi sono state imputate.
«Perché, dice, tu hai fatto ricerca di certe specie di pesci?» Come se a un
filosofo non sia lecito fare per motivo di studio quello che un gaudente si
permetterebbe per il piacere della gola. «Perché una donna libera ti ha sposato
dopo quattordici anni di vedovanza?» Quasi non fosse più mirabile cosa l'essere
rimasta tanti anni senza marito. «Perché prima di sposarti mise per iscritto in
una lettera non so quale suo personale apprezzamento?» Quasi uno debba dare
ragione dei sentimenti altrui. «Una donna avanti negli anni non ha rifiutato un
giovane»: questo per l'appunto prova che non c'è stato bisogno di magia, per
decidere una donna a sposare un uomo, una vedova un celibe, un'anziana un
giovane. E così anche il resto. «Apuleio ha in casa un oggetto che adora
religiosamente»: come se non sia piuttosto una colpa non aver nulla da adorare.
«Un ragazzo è caduto in presenza di Apuleio»: e che ci sarebbe di strano se un
giovane, se anche un vecchio fosse caduto dinanzi a me o colpito da malore o
sdrucciolato su un terreno scivoloso? Ah, dunque con questi argomenti intendete
convincermi di magia, con la caduta di un fanciullo, col matrimonio di una
donna e con un piatto di pesci? XXVIII Potrei con piena sicurezza contentarmi di ciò che ho
detto e concludere. Ma, perché in grazia della lunga accusa, mi resta molto
tempo ancora, consideriamo, se non dispiace, i singoli capi di accusa. Tutti i
fatti che mi sono imputati, falsi o veri che siano, io non negherò: li
confesserò come fossero avvenuti, affinché tutta codesta gente che è qui
accorsa da ogni parte ad ascoltare, intenda apertamente che contro i filosofi
non c'è accusa vera o calunniosa che essi, quantunque sia loro lecito negare,
non possano respingere come più loro piace, sicuri della propria innocenza.
Comincerò dunque col confutare i loro argomenti provando che non hanno alcun
rapporto con la magia; fossi anche il più gran mago del mondo, dimostrerò che
essi non ebbero mai né motivo né occasione di sorprendermi in qualche opera
malefica, Tratterò della campagna di calunnie scatenata contro di me, delle
lettere di mia moglie malamente lette e perfidamente interpretate, e dei mio
matrimonio con Pudentilla, accettato da me per dovere e non per interesse:
matrimonio che non è a dirsi quanto sia stato a Emiliano angoscioso e
tormentoso. Di là è nata tutta l'ira, la rabbia, la follia, che hanno mosso
questo processo. Quando io ti avrò apertamente e chiaramente dimostrato tutti
questi punti, allora, Claudio Massimo e tutti voi qui presenti, vi prenderò a
testimoni che questo ragazzo Sicinio Pudente, mio figliastro, a cui nome e per
cui volere dallo zio suo sono accusato, è stato ora è poco strappato alla mia
cura, dopo la morte di Ponziano, suo fratello maggiore di età e migliore di
costui; e, reso empiamente selvaggio contro di me e la madre sua, disertati
senza mia colpa gli studi liberali, ripudiata ogni disciplina, mercé gli
scellerati ammaestramenti di questo processo, sarà destinato a rassomigliare
allo zio Emiliano piuttosto che al fratello Ponziano. XXIX I PESCI MAGICI Ed ora, conforme al mio piano, passerò a tutte le
frenesie di questo Emiliano qui, cominciando da quella che hai sentito addotta
in principio come argomento capitale per il sospetto di magia: che cioé io
abbia pagato dei pescatori per procurarmi certe specie di pesci. Quale dei due
fatti è valido per il sospetto di magia: il fatto che dei pescatori abbiano
cercato del pesce per me? Vuol dire che avrei dovuto dare questo incarico a dei
ricamatori o a dei carpentieri e invertire così le prestazioni di ciascun
mestiere per evitare le vostre calunnie, di guisa che un falegname mi pescasse
dei pesci e un pescatore mi piallasse il legname. Oppure intendete che quei
pesci eran destinati a un maleficio per il fatto che l'ho pagati? Già: ritengo
che se li avessi richiesti per un banchetto, me li avrebbero dati per nulla.
Perché non mi accusate anche di tanti altri acquisti? Tante volte ho speso il
mio denaro per comprare vino, legumi, frutta. Ma tu così condanni alla fame
tutti i rivenditori di generi alimentari, perché nessuno oserà provvedersi da
loro, se si stabilisce che tutti i commestibili acquistati a un dato prezzo
servono non al pranzo ma alla magia. Se non sussiste dunque alcun sospetto, sia
nei pescatori invitati al loro mestiere, cioè a prendere i pesci - dei quali
tuttavia nessun testimone citarono, perché nessuno esisteva - sia nel prezzo
della merce - la cui somma tuttavia non specificarono affatto perché il prezzo
non apparisse se troppo basso una miseria, se troppo alto una menzogna - se in
tutto questo, dico, non è alcun sospetto, mi dica Emiliano per quale probante
indizio sia stato indotto ad accusarmi di magia. XXX «Tu cerchi, dice, dei pesci». Non voglio negarlo. Ma,
di grazia, chi cerca un pesce è un mago? Non più, credo, che se cercasse lepri
o cignali o pollame. Oppure i soli pesci hanno qualcosa di occulto agli altri e
noto soltanto ai maghi? Se tu sai che cosa sia, sei certamente mago; se non lo
sai, devi confessare che mi accusi di ciò che non sai. Ma come essere così
ignoranti di ogni opera letteraria e perfino di ogni favoletta popolare, da non
poter mettere insieme delle fandonie verosimili? Come mai può servire ad
accendere fiamma di amore un freddo pesce o qualunque altra sostanza tratta dal
mare? A meno che non vi abbia indotto a mentire la leggenda di Venere nata dai
flutti marini. Stai a sentire, Tannonio Pudente, che grande ignorantone sei tu
che hai raccolto una prova di magia a proposito dei pesci. Se tu avessi letto
Virgilio per certo avresti appreso che a fare stregoneria occorrono altre cose.
Egli infatti, per quanto io so, enumera bende delicate, grasse verbene, maschio
incenso, fili di diverso colore e inoltre l'alloro crepitante, l'argilla che
indurisce, la cera che si fonde: senza contare ciò che egli menziona nell'opera
grande: Con falci di bronzo si raccolgono al lume di luna le
erbe mature stillanti un succo di nero veleno: si cerca dalla fronte di un puledro
neonato l'ippomane strappato alla madre. Ma tu, l'accusatore di
pesci, attribuisci ai maghi ben altri strumenti che bisognerà non detergere
dalle tenere fronti ma staccare dai dorsi squamosi, né divellere dal campo ma
estrarre dal fondo del mare, né mietere con le falci ma uncinare con gli ami.
Infine, Virgilio, in quella magica fattura, nomina il veleno, tu una pietanza,
egli erbe e ramicelli, tu squame e lische, egli spoglia il prato, tu frughi il
mare. Potrei citare anche passi analoghi di Teocrito, altri di Omero, altri
numerosissimi di Orfeo: e molti tratti dalle commedie e dalle tragedie greche e
dalle storie, se non avessi notato che non hai saputo leggere una lettera di
Pudentilla in lingua greca. Citerò un solo poeta latino, i cui versi
riconosceranno i lettori di Levio: Estraggono da per tutto filtri, cercano l'antipate, rotelle, unghie, bende, radichette, erbe, sorcoli, lucertole adescatrici a due code, dolcezze di annitrenti cavalle. XXXI Ecco press'a poco le cose che invece dei pesci con
più verosimiglianza e con qualche credito, sulla base di correnti dicerie,
avresti potuto immaginare se tu avessi la minima erudizione. Un pesce invece a
che può servire, quando si è preso, se non che a mangiarlo, quando si è cotto?
Rispetto alla magia mi pare non possa per niente giovare. Ti dirò perché penso
così. Molti hanno ritenuto Pitagora discepolo di Zoroastro ed esperto, come
lui, di magia: eppure si narra che presso Metaponto, sul litorale della sua
Italia, divenuta per lui una seconda Grecia, avendo egli visto dei pescatori
che traevano la rete, comprò tutta la retata e sborsato il denaro ordinò che i
pesci là dentro prigionieri fossero liberati e restituiti al fondo del mare.
Egli, di certo, non se li sarebbe lasciati sfuggire di mano se ci avesse
trovato una qualche utilità in fatto di magia. Era un uomo, Pitagora, di
eccezionale erudizione, che aveva a modello gli antichi e ricordava che Omero
poeta multisciente, anzi di un sapere assolutamente universale, aveva
attribuito ogni magico potere non al mare, ma alla terra, quando di una certa
maga egli dice: essa tanti farmaci conobbe quanti ne produce l'ampia
terra, e in un altro poema dice
ugualmente: colà dove la terra feconda produce insieme in gran
copia erbe velenose e salutari. E invece mai in Omero con
alcunché di mare o di pesci incantò Proteo la propria figura o Ulisse la sua
fossa o Eolo i suoi otri o Elena la sua coppa o Circe i suoi beveraggi o Venere
la sua cintura. Voi soli, da che mondo è mondo, siete stati trovati capaci di
trasferire la virtù magica delle erbe, delle radici, dei sorcoli e delle
pietre, per una specie di rovesciamento della natura, dalle sommità delle
montagne nel mare e di cucirla in fondo alle interiora dei pesci. Pertanto come
nelle cerimonie magiche si solevano invocare Mercurio apportatore di
incantesimi e Venere ammaliatrice dei cuori e la Luna complice delle notti e
Trivia regina dei Mani, per merito vostro ormai Nettuno con Salacia e Portuno e
tutto il coro di Nereo trapasseranno dal fervore dei flutti al fervore delle
passioni amorose. XXXII Ho detto perché non credo ci sia alcun rapporto tra i
maghi e i pesci. E ora, se volete, crediamo pure ad Emiliano, che i pesci
servono anche alle operazioni magiche. Ma per questo chi ne fa ricerca è un
mago? E allora chi fa ricerca di un brigantino è un pirata, chi cerca una leva
è uno scassinatore, chi una spada, un assassino. Nulla è in ogni cosa tanto
innocente che non possa ispirare una sinistra interpretazione. Ma pure non si
ha l'abitudine di trarre ogni cosa al suo peggiore significato; come credere
per esempio che incenso, cassia, mirra, debbano servire soltanto ai funerali,
mentre si acquistano anche per medicamenti o per sacrifici? Restando
all'argomento dei pesci, crederai maghi anche i compagni di Menelao che, a
quanto afferma il poeta sovrano, presso l'isola di Faros si servirono di ami
ricurvi per cacciare la fame, anche gli smerghi, i delfini, la squilla porrai
nella stessa categoria, anche tutti i ghiottoni, che a furia di spese si fanno
affogare dai pescatori, e i pescatori stessi, la cui arte consiste nel pigliare
ogni specie di pesce. «Ma si può sapere, dici tu, perché ne hai fatto ricerca?»
Non ho desiderio né bisogno di dirtelo; tu, se ne sei capace, accusami pure di
averne acquistato per magia. Se io per esempio avessi comperato elleboro o
cicuta o succo di papavero o altre simili sostanze, di cui l'uso moderato è
benefico, ma nocivo il miscuglio e l'eccesso, chi sopporterebbe in pace che tu
mi accusassi di veneficio per la sola ragione che con quelle sostanze si può
uccidere un uomo? XXXIII Vediamo quali specie di pesci furono così
indispensabili e così rare a trovare da dover essere ricercate a prezzo
stabilito. Essi in tutto ne hanno nominato tre: in uno hanno sbagliato, in due
hanno mentito. Si sono sbagliati quando hanno dato il nome di lepre marino a
tutt'altro pesce, che il mio servo Temisone, non ignaro di medicina, mi portò
spontaneamente a esaminare, come hai udito da lui stesso: perché lepri di mare
finora non ne ha trovati. Dichiaro che le mie ricerche vanno più in là: e non
solo ai pescatori, ma anche agli amici dò incarico, ogni qual volta capiti loro
sotto gli occhi un pesce di specie poco conosciuta, che me lo descrivano,
oppure me lo facciano vedere vivo o, se non è possibile, morto. Dirò fra poco
per quale ragione. Codesti miei accusatori, pieni come si credono di furberia,
mentirono quando a compimento della calunnia immaginarono che io avessi
ricercato due frutti di mare dai nomi osceni: e Tannonio voleva far intendere
che fossero le parti genitali dei due sessi; ma non potendo per incapacità di
parola esprimersi, quel sommo avvocato, dopo molta e lunga incertezza,
finalmente, con non so quale perifrasi, riuscì a nominare, con disgustosa
improprietà, i genitali maschili di un pesce; ma non potendo assolutamente
trovare un termine pulito per l'organo femminile, ricorse ai miei scritti e
lesse in un mio libro: «l'interfeminio nasconda con la sporgenza delle cosce e
col velame della palma». XXXIV Quest'uomo, anche in nome della sua moralità, mi
rimproverava che non mi increscesse dire onestamente cose alquanto impudiche;
io piuttosto dovrei più onestamente rinfacciargli che, mentre fa pubblica
professione di patrocinio oratorio, anche delle cose oneste a dirsi ciancia
trivialmente, e dove non c'è difficoltà alcuna si mette a chioccolare o
ammutolisce. Ti faccio una domanda: se io non avessi detto nulla della statua
di Venere né avessi nominato l'interfeminio, con quali parole avresti mosso
quell'accusa che è in perfetta armonia tanto con la tua sciocchezza quanto con
la tua lingua? E si potrebbe fare congettura più sciocca di questa, che cose affini
di nome abbiano tra loro una reale parentela? Eppure probabilmente voi credete
di avere scoperto un modo ingegnosissimo, immaginando che io avessi cercato per
i miei magici incantesimi quei due frutti marini, la veretilla e il virginal:
impara a nominare le cose in latino: per questo ho variato i termini, perché tu
meglio istruito rinnovi l'accusa. Sappi tuttavia che accusare un uomo di aver
cercato oscenità marine per i suoi piaceri venerei sarebbe argomento tanto
ridicolo come se tu dicessi che un pettine di mare è richiesto per ravviare i
capelli, un pesce falco per acchiappare gli uccelli, un pesce cignalino per
cacciare i cinghiali o i teschi marini per evocare i morti. A tali vostre
invenzioni così insipide e assurde rispondo che queste robucce e chiappole di
mare e di spiaggia io non ho mai cercato né a prezzo né in dono. XXXV E dico anche questo, che voi non sapete che cosa
inventare quale oggetto delle mie ricerche. Queste scioccherie che avete
nominato giacciono in massa e alla rinfusa su tutte le spiagge: e senza
intervento di nessuno, col solo lievissimo ondeggiare dei flutti, sono
voltolate fuori del mare. Dite dunque, una volta che ci siete, che io a caro
prezzo ho fatto cercar da moltissimi pescatori la conchiglietta striata, la
conchiglia smussata, la pietruzza liscia, pinze di granchi, gusci di ricci,
ossi di seppia, pietruzze, festuche, stecchi, [ostriche di Pergamo vermicolate]
e musco e alga e altri rifiuti marini che sono dovunque sui lidi cacciati dai
venti, rigettati dai flutti, sballottati dalla tempesta, abbandonati dalla
bonaccia. Infatti codeste cose che ho ricordate possono suscitare similmente a
causa del nome i vostri sospetti. Voi dite che abbiano potere, in fatto di
amore, sostanze marine che hanno nome di organi sessuali maschili e femminili.
E perché, sarebbe meno efficace prendere ugualmente dalla spiaggia una pietra
per il mal della pietra, una testa per il testamento, un granchio per il cancro
e l'alga per la febbre algida? Oh sì certamente, Claudio Massimo, troppo
paziente uomo tu sei e di una assai facile bontà, tu che hai così a lungo
sopportato tutte codeste argomentazioni mentre io, quando essi parlavano di
tali cose come di prove gravi e decisive, ridevo della loro stoltezza e
ammiravo la tua sopportazione. XXXVI Del resto perché io abbia conosciuto così gran numero
di pesci e di altri mi rincresca non avere conoscenza, impari Emiliano una
volta che ha tanta cura delle mie cose. Benché egli sia ormai giunto al
precipizio dell'età e al tramonto della vecchiaia, pure, se gli pare, acquisti
una scienza davvero tardiva e dell'ultima ora; legga le opere degli antichi
filosofi, perché intenda una buona volta che non sono il primo in queste
ricerche, ma già da tempo vi hanno atteso quelli venuti prima di me,
Aristotele, dico, e Teofrasto ed Eudemo e Licone e tutti gli altri discendenti
di Platone, i quali lasciarono moltissimi libri sulla generazione degli
animali, sui loro costumi, sulla loro struttura e sull'insieme dei loro
caratteri distintivi. È bene, Massimo, che giudice di questa causa sia tu, che
per tua erudizione hai certamente letto i numerosi volumi di Aristotele,
intorno alla generazione, l'anatomia e la storia degli animali, come anche i
suoi innumerevoli Problemi: e poi le opere degli altri peripatetici, dove sono
trattate diverse questioni dello stesso genere. Ora se fu loro di onore e di
gloria scrivere su tante diligenti ricerche, perché dovrebbe essere disonorante
per me farne oggetto di esperimento, tanto più che mi sforzo di presentarle con
maggiore ordine e concisione in greco e in latino e di aggiungere nuovi
risultati e colmare le lacune? Permettete, se ne avete voglia, che io legga
qualche passo dei miei libri magici, perché Emiliano sappia che io ricerco e
diligentemente esploro più cose di quanto egli non creda. (Si rivolge a un
suo segretario.) Prendi uno dei miei libri greci, che forse in questa città
troverai presso qualche amico mio, amatore di scienze naturali; prendi
soprattutto quello che tratta di questioni relative ai pesci. (Torna a
rivolgersi ai giudici.) Intanto, mentre ne va in cerca, vi riferirò un
aneddoto adatto alla circostanza. XXXVII Il poeta Sofocle, che fu rivale di Euripide e gli
sopravvisse - infatti raggiunse l'estrema vecchiaia -, accusato di demenza da
suo figlio, quasi fosse a cagion dell'età svanito di mente, si racconta abbia
presentato il suo Edipo a Colono, la eccellentissima delle sue tragedie,
ch'egli componeva proprio in quel tempo: e la lesse ai giudici, aggiungendo a
propria difesa solo queste parole: che osassero condannarlo di pazzia se
fossero dispiaciuti i carmi della sua vecchiaia. Trovo scritto che tutti i
giudici si levarono in piedi dinanzi a tanto poeta, esaltandolo per la bravura
artistica di tutta la trama e la grandiosità tragica dello stile: e poco mancò
non condannassero piuttosto l'accusatore come demente. (Si rivolge all'uomo
che è tornato.) Hai trovato il libro? Benone. Vediamo un po' se anche a me,
dinanzi a un tribunale, possano giovare i miei scritti. Leggi alcune linee dal
principio, e poi qualche passo sui pesci. (Si rivolge all'uomo che ha cura
della clessidra): tu, intanto, arresta l'acqua. (Si dà lettura di alcuni
passi greci.) XXXVIII Molte di queste cose che hai udite, Massimo, avevi
naturalmente lette nei libri degli antichi filosofi. Nota che questi miei
volumi trattano dei soli pesci, quali di essi siano generati per via di
accoppiamento, quali crescano su dal fondo limaccioso, quante volte e in quale
epoca dell'anno le femmine e i maschi di ciascuna specie vadano in caldo, per
quali disposizioni di membri e per quali cause la natura abbia distinto i
vivipari e gli ovipari - così traduco in latino i vocaboli greci zootóca e
ootóca - e, per non infastidirvi ancora con le geniture animali, quali sono le
loro differenze, i costumi, la struttura del corpo, la durata della vita e
tantissime altre questioni necessarie alla scienza, ma estranee affatto in un
processo giudiziario. Rispetto alle medesime nozioni, farò leggere qualche
passo delle mie opere latine in cui osserverai altre particolarità poco note,
nomi ancora fuori d'uso presso i Romani e fin'oggi, ch'io mi sappia, non
creati; nomi i quali mercé lo studio e l'opera mia sono bensì derivati dai
Greci, ma di puro conio latino. Se no, dicano i tuoi avvocati, Emiliano, dove
hanno letto in lingua latina le parole che sto per pronunciare. Parlerò dei
soli acquatici, né farò cenno degli altri animali salvo quando abbiano
caratteri comuni. Ascolta ciò che dirò. Adesso tu griderai che faccio una
rassegna di parole magiche secondo il rituale egiziano o babilonese: Selácheia, malákeia, malakóstraka, chondrákantha, ostrakóderma, karcharódonta, anfíbia, lepidotá,
folidotá, dermóptera, steganópoda, monére, sunagelastiká. Potrei continuare ancora,
ma non possiamo consumare la giornata in queste cose, e ho bisogno di tempo per
passare al resto. Leggi intanto come io abbia reso in latino quei pochi
vocaboli che ho testé citati. (Manca tale elenco nel testo latino.) XXXIX Ebbene, credi tu che per un filosofo, non secondo la
cinica sconsideratezza rozzo e ignorante, ma consapevole di appartenere alla
scuola platonica, credi tu sia brutta cosa sapere queste cose o ignorarle,
trascurarle o interessarsene, conoscere quanto sia grande anche in codeste
piccole cose il disegno della Provvidenza, o ricorrere al babbo e alla mamma
sul conto di Dio? Quinto Ennio scrisse una Gastronomia in versi, dove enumera
innumerevoli specie di pesci, che naturalmente aveva studiato con molta cura.
Ne ricordo qualche verso: ecco: La mustela marina di Clipea supera tutte le altre, i topolini di mare si trovano a Enos, le ruvide
ostriche abbondano in Abido; a Mitilene il pesce pettine e
anche a Caradro, nella regione di Ambracia; a Brindisi è buono il sargo: prèndilo, se è grosso; il cignalino sappi
che a Taranto è di prima qualità. Compra a Sorrento
l'elope; il glauco a Cuma. Come mai ho potuto scordare lo
scaro, quasi cervello del sommo Giove: esso, nella patria di
Nestore, si piglia grosso e buono: il melanuro, il pesce
tordo, il merlo, l'ombrina? A Corcira il polpo, i pingui
calvarî, le acarne, le conchiglie della porpora, i piccoli
murici, i topi di mare, e anche i ricci saporiti. E altri pesci ancora
celebrò in molti versi, dicendo di ciascuno in qual paese si trovi e come sia
più gustoso, arrostito o in salsa. Eppure non è ripreso dagli uomini dotti:
tanto meno potrò esserlo io, che cose note a pochissimi, in greco e in latino,
metto insieme con termini scelti e appropriati. XL Ho detto abbastanza: ora ascolta anche questo: che
c'è finalmente di male se io, che della medicina sono studioso ed esperto,
cerco di ricavare dai pesci taluni rimedi? La natura ha infuso dovunque, sparsi
e seminati qua e là, numerosissimi princìpi salutari, e alcuni anche nei pesci.
Conoscere i rimedi e farne ricerca ritieni sia piuttosto ufficio del mago e non
del medico e del filosofo il quale se ne servirà non per averne guadagno ma per
prestare soccorso? Gli antichi medici conoscevano anche gl'incantesimi come
rimedio delle ferite: ce lo insegna Omero, l'autore più sicuro di tutta
l'antichità, il quale ci mostra arrestato mediante incantesimo il sangue che
scorre dalla ferita di Ulisse. Nulla di ciò che si fa per salvare una vita è
delittuoso. «Ma, dice, per quale fine, se non malefico, tu sezionasti il pesce
che ti portò il servo Temisone?» Poco fa ho detto che ho scritto libri sugli
organi di tutti gli animali: loro posto, loro numero, loro ragione di essere: e
di avere esaminato accuratamente e accresciuto di nuove osservazioni le opere
di anatomia di Aristotele. E sommamente mi stupisco che voi abbiate saputo
della ispezione di un solo pesce, mentre tanti e poi tanti, dovunque me ne
siano capitati, ho ugualmente ispezionato; e questo ho fatto non di nascosto,
ma apertamente alla presenza di qualunque testimone, anche estraneo, seguendo
l'esempio e i precetti dei miei maestri i quali affermano che l'uomo libero e
generoso deve, dovunque vada, portare l'anima sulla fronte. Così, questo
pesciolino, che chiamate lepre di mare, ho mostrato ai moltissimi che erano
presenti, e ancora non saprei dire qual è il suo nome, senza prima fare
ricerche molto accurate, perché neppure presso gli antichi filosofi trovo il
carattere proprio di questo pesce, sebbene sia il più raro fra tutti e davvero
degno di essere ricordato. Esso solo infatti, per quanto io ne sappia,
sprovvisto di ossi nel resto del corpo, ha dodici ossi, simili a malleoli di
zampe suine, connessi e concatenati nel ventre. E Aristotele non avrebbe tralasciato
di segnalarlo nei suoi scritti, egli che ricordò, come molto importante, il
fatto che solo il pesce asello ha il cuoricino collocato nel mezzo dell'addome. XLI «Hai sezionato un pesce», dice. Ma è tollerabile che
per un filosofo sia delitto quei che non lo sarebbe per un beccaio o per un
cuoco? «Hai sezionato un pesce». Perché crudo? È questa l'accusa? Se dopo
averlo cotto frugassi nel suo ventre, ne cavassi il fegato, come in casa tua, a
proprie spese, impara a fare il piccolo Sicinio Pudente, per te, questa non
sarebbe materia di accusa. Eppure è più grave colpa per un filosofo mangiare un
pesce che esaminarlo. È permesso agli indovini rovistare i fegati ed è
interdetto al filosofo di osservarli, a lui che sa di essere aruspice di tutti
gli animali e sacerdote di tutti gli dèi? Tu dunque imputi a me ciò che io e
Massimo ammiriamo in Aristotele, le cui opere, prima di accusarmi, dovresti
bandire dalle biblioteche e strappare dalle mani degli studiosi. Ma su questo argomento ho detto più del necessario.
Ora tu vedi come si contraddicano da se stessi: affermano che una donna con
arti magiche, con seduzioni marine, è stata da me tentata, proprio nel tempo -
e non potranno negarlo - in cui mi trovavo nell'interno del paese, fra le montagne
della Getulia, dove si troveranno i pesci grazie al diluvio di Deucalione. Ed è
una fortuna per me che essi ignorino che ho letto anche il libro di Teofrasto
sulle morsicature e sulle ferite degli animali e i Theriaca di Nicandro:
altrimenti mi avrebbero accusato di veneficio. Questa attività ho conseguita
leggendo ed emulando Aristotele, incoraggiato un poco anche dal mio Platone il
quale afferma che darsi a queste ricerche è «godere di un passatempo non
increscioso nella vita». XLII IL SERVO TALLO Ora, giacché è abbastanza assodato che cosa siano i
pesci di costoro, ascoltane un'altra escogitata, è vero, con pari stupidità, ma
con molto più di sconsigliatezza e di bricconeria. Essi sapevano che quello dei
pesci era argomento futile e nullo, oltre la ridicola novità della cosa: perché
si è mai sentito dire che ai pesci si usa togliere scaglie e dorsi per magiche
fatture? Pensarono dunque che bisognava inventare un che di più diffuso e
accreditato; e per conformarsi alle comuni credenze immaginarono che un
ragazzo, da me incantato, senza gente dattorno, in un luogo segreto, con un
piccolo altare e una lucerna e in presenza di pochi complici, appena compiuto
l'incantesimo, sia caduto a terra, e poi si sia risvegliato senza più memoria
dell'accaduto. Non osarono spingere oltre la loro menzogna; per completare la
favola, infatti, avrebbero dovuto aggiungere che il fanciullo aveva predetto
molte cose. Giacché sappiamo che è questo il fine pratico di tali incantesimi:
il presagio e la divinazione: né soltanto la opinione volgare, ma anche
l'autorirà di uomini dotti conferma questo prodigio che riguarda i fanciulli.
Ricordo di aver letto in Varrone, scienziato di accuratissima dottrina ed
erudizione, insieme con altre cose analoghe, anche questa: che a Tralle,
fattosi ricorso alla magia per conoscere l'esito della guerra mitridatica, un
fanciullo vide nell'acqua un'immagine di Mercurio e ciò che sarebbe accaduto
annunziò in un presagio di centosessanta versi. Parimenti Fabio, perduti
cinquecento denari, andò a consultare Nigidio. Costui incantò alcuni fanciulli
i quali indicarono dov'era sotterrata una borsa contenente parte della somma e
il resto come era stato distribuito: e aggiunsero che uno di quei denari era in
possesso del filosofo Marco Catone, il quale confessò di averlo ricevuto da un
suo servo tra le offerte per il tesoro di Apollo. XLIII Questi ed altri esempi in molti autori ho letto
intorno alle arti magiche e ai fanciulli, ma sono incerto se debba negarne o
affermarne la possibilità. Tuttavia credo, con Platone, che fra gli dèi e gli
uomini esistano alcune divine potestà, intermedie per la loro natura e per lo
spazio che occupano, le quali altresì governano tutte le divinazioni e i
miracoli della magia. Ed invero io penso tra me stesso che possa l'anima umana,
specialmente semplice e pargoletta, sì per l'estasi che la incanti, sì per
lenimento di profumi, addormirsi e sollevarsi all'oblìo delle cose presenti e
che, per poco rimossa la memoria del corpo, ella si riduca e torni alla natura sua
che è, come ognuno sa, immortale e divina, e così presagisca come in visione di
sogno l'avvenire. Ma naturalmente, se a codesti fatti bisogna prestar fede,
dovrebbe questo non so quale antiveggente fanciullo, per quanto ne sento dire,
essere scelto bello e intatto di corpo, ingegnoso e facondo, perché la divina
potenza abbia in lui degna dimora, se veramente essa si introduce nel corpo di
un ragazzo: oppure perché l'anima, appena desta, ritorni subito alla sua
visione delle cose future, che bene impressa in lei e per nessuna dimenticanza
offesa e affievolita, si ripresenti di nuovo senza ostacoli. Infatti, come
diceva Pitagora, non ogni legno è buono per scolpire Mercurio. Se è così,
ditemi chi sia stato quel fanciullo sano, incolume, ingegnoso, bello, che con i
miei incanti ho voluto iniziare ai misteri. Ma quel Tallo, da voi nominato, ha
bisogno più di un medico che di un mago; l'infelice è tormentato dall'epilessia
sì che tre o quattro volte al giorno spesso cade a terra, senza bisogno di
incantesimi, con tutto il corpo fiaccato da convulsioni, la faccia ulcerosa, la
fronte e l'occipite pieni di contusioni, gli occhi inebetiti, le narici
dilatate, i piedi vacillanti. Mago, il più grande di questo mondo, è quegli
alla cui presenza Tallo possa reggersi a lungo sulle gambe: tante volte,
ripiegandosi per il male, come per sonno è costretto a cadere. XLIV Questo è quel fanciullo che avete detto gettato a
terra coi miei incantesimi, perché una volta per caso cadde in mia presenza. I
suoi conservi, che avete fatto citare come testimoni, sono per la maggior parte
qui presenti. Tutti possono dire perché sputino alla vista di Tallo, perché
nessuno voglia con lui mangiare nello stesso piatto, bere nel medesimo
bicchiere. E a che parlo dei servi? Voi stessi lo sapete. Negate pure che
Tallo, molto prima che io venissi in Oea, era soggetto agli accessi che lo
facevano cadere e fu mostrato spesso ai medici; neghino questo i suoi conservi
che sono al vostro servizio: io mi confesserò convinto di tutto se egli non è da
tempo ormai relegato in una campagna lontana, per non contaminare gli altri
schiavi. Che questo sia avvenuto, neppure essi possono negare: perciò non
abbiamo potuto oggi produrlo in tribunale. Perché tutta codesta accusa fu
temeraria e repentina e soltanto da tre giorni Emiliano ci ha intimato di
esibire dinanzi a te quindici schiavi. Quattordici sono presenti, che si
trovavano in città: Tallo solo, relegato come ho detto a una distanza di circa
cento miglia, soltanto lui è assente; ma abbiamo mandato un tale che lo
trasporti qui di corsa. Interroga, Massimo, i quattordici servi che
presentiamo, domanda loro dov'è il ragazzo Tallo e come stia di salute;
interroga i servi dei miei accusatori. Non negheranno che è un ragazzo
ripugnante, di corpo floscio e malato, soggetto a cadute, un selvaggio
zoticone. Avete scelto davvero un bel fanciullo, da figurar bene in un
sacrificio e proprio meritevole che gli si tocchi la testa, che lo si avvolga
nel bianco lino, che se ne attenda il responso. Per Ercole, vorrei fosse qui:
io l'avrei affidato a te, Emiliano, e lo avrei sostenuto perché tu lo
interrogassi: a metà dell'interrogatorio, qui davanti al tribunale, egli
avrebbe puntato su di te gli occhi truci, avrebbe sputacchiato di spuma la tua
faccia e contratte le mani, scossa la testa, finalmente sarebbe caduto fra le
tue braccia. XLV Ecco i quattordici servi che hai reclamati. Perché
non ne profitti per interrogarli? Un solo fanciullo tu richiedi, un epilettico,
che tu sai, come me, assente da molto tempo. Quale calunnia più evidente?
Quattordici servi, a tua richiesta, sono presenti; fingi di non vederli. Uno
solo, un fanciullo, è lontano, e tu ne incolpi l'assenza. Insomma, che cosa
vuoi? Fa' conto che Tallo ci sia. Vuoi provare che egli è caduto in mia
presenza? Sono il primo a confessarlo. Per via d'incantesimo, tu dici. Questo
il ragazzo non lo sa: io rispondo ch'è falso. Che il fanciullo sia epilettico
neppure tu oserai negare. Perché dunque attribuire la sua caduta a incantesimi
anziché a malattia? Dinanzi a me non potrebbe coglierlo lo stesso male che
altre volte lo ha còlto dinanzi a tante persone? E se io avessi stimato una
gran cosa buttare a terra un epilettico, che bisogno c'era di incantesimi,
quando, come leggo nei fisici, a richiamare senz'altro i sintomi del male basta
un pezzo di gagate infocata? Nei mercati di schiavi si fa appunto odorare
questa pietra per assicurarsi della sanità o della malattia degli schiavi messi
in vendita. Anche la ruota girata dal vasaio coglie nella sua vertigine
l'epilettico: tanto la vista della rotazione colpisce i sensi malati: ad
abbattere un epilettico ha molto più potere un vasaio che un mago. Tu dunque,
senza ragione, hai richiesto la presenza dei miei servi: ma bene a ragione, io
ti intìmo di nominare i testimoni presenti a questo empio sacrificio dove io ho
spinto Tallo a cadere. Nomini uno solo in tutto, quel ragazzo Sicinio Pudente,
nel cui nome mi accusi; egli infatti dice di essere stato presente: ma se anche
la sua fanciullezza non fosse di ostacolo alla serietà della testimonianza, la
sua condizione di accusatore ne infirmerebbe la buona fede. Sarebbe stato più
agevole, Emiliano, e molto più serio dire che tu stesso eri presente: e che da
quella magica scena ebbe principio la tua pazzia, invece di abbandonare tutto
questo affare, come fosse un gioco, ai ragazzi. Un fanciullo fu la vittima, un
fanciullo l'osservatore: che sia stato anche un fanciullo l'incantatore? XLVI Qui Tannio Pudente, furbacchione com'è, visto che
anche questa menzogna era freddamente accolta e disapprovata a quanto appariva
dal volto e dal mormorio del pubblico, per trattenere ancora con le promesse i
sospetti di alcuni, affermò che avrebbe prodotti altri fanciulli, ugualmente
vittime dei miei incantesimi: dopo di che passò ad altro ordine di prove. Avrei
potuto lasciar cadere l'incidente: ma come su tutto il resto, anche su questo
punto, sfido l'avversario alla prova. Voglio che tu li produca, quei giovani
servi che con la promessa dell'affrancamento, si dice, hai impegnato a mentire.
Di questo non discuto: siano prodotti. Reclamo ed esigo, Tannonio Pudente, che
tu adempia la tua promessa. Avanti, vediamo codesti fanciulli in cui confidate,
presentali, di' i loro nomi. Prendi pure a questo scopo la mia parte di acqua:
io consento. Parla, dico, Tannonio; perché taci, perché esiti, a che guardi
indietro? Ma se Tannonio non sa più la sua lezione e ha dimenticato i nomi,
fatti avanti tu, Emiliano, di' quale incarico avevi affidato al tuo avvocato, presenta
questi ragazzi. Sei impallidito, taci, perché? Ah, dunque così si accusa, così
si denuncia un tanto delitto, o non piuttosto si tiene in dileggio Claudio
Massimo, un tanto uomo, e mi si perseguita con la calunnia? Ma se per caso il
tuo avvocato ha sbagliato a parlare, e tu non hai giovani schiavi da
presentare, almeno giòvati dei quattordici servi che ho messo a tua
disposizione. XLVII Altrimenti perché richiedevi la presenza di tanta
servitù? A sostenere l'accusa di magia hai fatto richiesta di quindici servi;
se tu mi accusassi di violenza, quanti servi richiederesti? Quindici servi
conoscono, dunque, un certo fatto: e questo fatto è occulto; se non fosse
occulto, dove sarebbe la magia? Tu devi ammettere una delle due cose, o che non
fosse illecita un'operazione a cui non ho temuto di ammettere tanti testimoni,
o che fosse illecita, e allora non avrei dovuto avere tanti consapevoli
complici. Codesta magia, per quanto ne sento dire, è delitto perseguitabile in
giudizio, già fin dai tempi antichi interdetta dalle Dodici Tavole, per gli
incredibili incanti onde può attrarre le messi; occulta, pertanto, non meno che
tetra e spaventosa, essa si esercita solitamente nelle veglie della notte, in
mezzo alle tenebre, lungi da ogni sguardo, al mormorio degli incantesimi, a cui
pochi, non soltanto dei servi, ma anche degli uomini liberi, sono ammessi. E tu
vuoi che siano intervenuti quindici servi? Fu un matrimonio, dunque, o qualche
altra solennità o un banchetto di circostanza. Quindici servi hanno parte in un
sacrificio magico, quasi fossero un collegio di quindecimviri sacris
faciundis. Per qual motivo avrei dovuto adoperarne tanti, se sono già
troppi per custodire un segreto? Quindici cittadini fanno un popolo,
altrettanti servi una casa, altrettanti prigionieri un ergastolo. Forse avevo
bisogno di tante persone che mi aiutassero a tenere le vittime lustrali? Ma voi
non avete parlato di altre vittime che di galline. O forse perché contassero i
granelli di incenso o mi gettassero a terra Tallo? XLVIII LA DONNA EPILETTICA Inoltre avete detto che una donna di libera
condizione, afflitta dallo stesso male di Tallo, mi fu condotta in casa, che io
promisi di curarla e che anch'essa, incantata da me, cadde a terra.
Evidentemente voi siete venuti ad accusare un lottatore, non un mago: quanti
sono venuti da me, voi dite che sono caduti. Eppure a tua richiesta, Massimo,
il medico Temisone, che mi aveva condotto la donna per un esame, dichiarò che
io non feci altro che domandarle se qualche volta le ronzassero le orecchie e
quale delle due maggiormente: e che essa, dopo aver detto che l'orecchia destra
era molto inquieta, senz'altro si ritirò. E qui, Massimo, benché mi astenga con
ogni cura dal tuo elogio dinanzi al tribunale, per non aver l'aria di lusingarti
nell'interesse della mia causa, pure non posso non lodare la tua accortezza
nell'interrogare. Infatti, mentre si discuteva questo punto, e quelli dicevano
incantata la donna e Temisone, che l'aveva assistita, lo negava, tu domandasti
con straordinaria sagacità quale profitto avevo ricavato da quell'incantesimo.
Risposero: la caduta della donna. «E dopo?» hai aggiunto, «è morta?» Dissero
che no. «E allora ditemi, quale vantaggio avrebbe avuto Apuleio se fosse
caduta?» Così opportunamente e con insistenza hai rinnovato tre volte la
domanda, perché sapevi che di tutti i fatti bisogna con diligenza esaminare e
più spesso ricercare le cause, pur se si ammettono i fatti; e per questo gli
avvocati si chiamano anche «causidici», perché spiegano le cause di ciascun fatto.
Negare un fatto è cosa facile, e non ha bisogno di alcun avvocato. Ma
dimostrare che il fatto è giustificato o condannabile, qui è la difficoltà e la
fatica. È inutile ricercare se il fatto sia avvenuto, quando non ci sia una
intenzione colpevole. Così l'imputato del fatto, dinanzi a un buon giudice, è
liberato dalla inquietudine del processo, se non ha avuto nessuna ragione di
male operare. Ora, giacché essi non hanno provato che la donna sia stata da me
incantata e gettata per terra, ed io non nego di averla, a richiesta del
medico, esaminata, dirò a te, o Massimo, per quale ragione ho fatto quella
domanda sul ronzìo dell'orecchio, non tanto per discolparmi di un fatto che già
preventivamente hai giudicato né colpevole né incriminabile, quanto per non
trascurare nulla che sia degno della tua attenzione e dottrina. Dirò pertanto,
più brevemente che potrò, giacché non ho nulla da insegnarti, soltanto qualcosa
da ricordarti. XLIX Il filosofo Platone in quel suo preclarissimo Timeo,
con eccelsa eloquenza, costruì il piano di tutto l'universo. Dopo aver trattato
con sommo accorgimento delle tre potestà dell'anima umana e aver esattamente
esposto perché ciascuno dei nostri membri è opera di una divina provvidenza,
dimostra infine, sotto tre punti di vista, la causa di tutte le malattie. La
prima causa attribuisce ai princìpi costitutivi dei corpi: se le qualità di
questi elementi, l'umido e il freddo, e il loro contrario, il secco e il caldo,
non armonizzino tra loro: e ciò avviene per eccesso o spostamento di qualcuno
di essi. La seconda causa delle malattie sta nei viziosi prodotti di questi
elementi semplici, quando siano già rappresi e combinati in un tutto
specificamente definito, come il sangue, le carni, le ossa, il midollo: e ancora
in tutto ciò di vizioso che risulta da queste singole parti. In terzo luogo
finalmente le concrezioni formate nei corpi dalla ineguaglianza della bile,
dalla torbidezza dello spirito e dalla densità degli umori, danno stimolo al
male. L Di qui viene il principale alimento alla epilessia,
della quale ho cominciato a parlare. Quando la carne per un fuoco che la
strugge, si discioglie in un umore crasso e schiumoso, si genera quindi un
vapore: e dall'accensione dell'aria compressa fluisce un liquido corrotto,
biancastro e ribollente. Questo liquido, se può traspirar fuori, si diffonde
con più laidezza che danno: infatti screzia di vitiligini l'epidermide del
petto e la chiazza di svariatissime macchie; ma chi tenga questo corso del
male, non è più assalito dall'epilessia: e così sconta una gravissima infermità
dello spirito con un lieve deturpamento del corpo. Ma se quella perniciosa
sierosità, rattenuta nell'interno e associata alla nera bile si spande furiosa
in tutte le vene e fattasi una via fino alla sommità del capo, riversa il suo
terribile flusso nel cervello, debilita subito quella regale parte dell'anima
che col dominio della ragione occupa come rocca e reggia il vertice dell'uomo;
e ne oscura e sconvolge le divine vie e i sentieri della saggezza. Gli effetti
sono meno rovinosi durante il sonno, quando gli ammalati pieni di bevanda e di
cibo, sono presi da uno strozzamento non molto tormentoso che annunzia
l'attacco epilettico; ma se la tabe si accresce tanto da riversarsi nel capo
degli ammalati anche quando siano svegli, allora con la mente a un tratto
ottenebrata, si irrigidiscono e col corpo tramortito, privi di sentimento,
cadono giù. Questa malattia noi chiamiamo non soltanto morbo maggiore o
comiziale, ma anche morbo sacro, come i Greci ierà nósos: giustamente,
perché profana la parte razionale dell'anima, che è quella più santa. LI Riconosci, Massimo, la teoria di Platone esposta, per
quanto ho potuto, chiaramente, data l'urgenza del momento. E giacché io penso
con Platone che il morbo sacro è prodotto dall'affluire di quella peste nel
capo, credo di aver avuto ragione di domandare a quella donna se avesse
pesantezza di testa, torpore alla nuca, pulsazioni alle tempie e ronzio alle
orecchie. E poiché essa accusava più frequenti ronzii all'orecchio destro, era
segno questo di male assai progredito, perché la parte destra del corpo essendo
la più forte, lascia meno speranza di guarigione, quando essa stessa soccombe
alla malattia. Aristotele, nei Problemata, lasciò scritto che gli epilettici
colti in principio dal male al lato destro, si salvano più difficilmente.
Sarebbe lungo riferire l'opinione di Teofrasto sulla medesima malattia; anche
di lui esiste un eccellente libro sugli epilettici, ai quali in un altro libro
sulla gelosia degli animali, indica come rimedio la pelle di cui le tarantole,
alla pari degli altri rettili, si spogliano in determinate epoche, come di un
vecchio abito. Bisogna però sottrarre subito quelle spoglie perché altrimenti o
per un presentimento geloso o per istintiva appetenza, si rivoltano subito e le
divorano. Ho ricordato queste opinioni di filosofi illustri e ho citato
diligentemente i loro libri, lasciando volutamente da parte medici e poeti,
perché costoro smettano di stupirsi che filosofi conoscano, per necessità della
loro dottrina, le cause e i rimedi delle malattie. Concludendo: una donna
ammalata fu condotta da me a scopo di cura: essendo questa cosa ben fatta sia
per confessione del medico che quella donna accompagnò, sia per mio
ragionamento, stabiliscano i miei avversari che o è proprio di un mago e di un
malefico uomo curare le malattie o, se questo non osano dire, confessino di
avere rivolto, quanto al fanciullo e alla donna caduca, delle vane e veramente
caduche calunnie. LII Anzi, a dire il vero, tu piuttosto caduco, Emiliano,
che sei caduto ormai sotto il peso di tante calunnie. Infatti non è più grave
cosa il deliquio del corpo che quello dello spirito, andar giù col piede
anziché col cervello, essere coperti di sputi nella propria camera che di
maledizioni in questa così splendida assemblea. Forse ti credi sano perché non
sei chiuso in casa e segui la tua pazzia dovunque essa ti conduca. Eppure,
confronta, se vuoi, il tuo furore con quello di Tallo; troverai che la
differenza non è molta, se non che Tallo infuria con sé, tu anche con gli
altri; Tallo storce gli occhi, tu la verità; Tallo contrae le mani, tu gli
avvocati; Tallo batte la testa contro il pavimento, tu contro il tribunale;
finalmente, egli, qualunque cosa faccia, la fa per malattia, pecca senza
avvedersene: tu, miserabile, pecchi previdente e sciente, tanta è la violenza
del male che ti istìga; insinui il falso, come vero; ciò che non è fatto
incolpi come fatto; colui che ti risulta con certezza innocente, accusi
tuttavia come colpevole. LIII IL FAZZOLETTO MAGICO C'è di più: e dimenticavo di parlarne. Ci sono cose
che tu confessi di ignorare, eppure le denunci come le conoscessi. Affermi che
io, presso i Lari di Ponziano, tenevo avvolti in un fazzoletto alcuni oggetti.
Quali fossero questi oggetti e di che natura, confessi di non saperlo: e
aggiungi che nessuna persona li ha mai visti. Non di meno sostieni che erano
strumenti di magia. Non ti si faranno dei complimenti, Emiliano: nel tuo
mestiere di accusatore non mostri né astuzia né impudenza: credilo pure. Mostri
lo sterile furore di un animo invidioso e la miserabile follia di una selvaggia
vecchiaia. Ecco press'a poco il discorso che hai fatto a un giudice così. grave
e perspicace. «Apuleio teneva alcuni oggetti avvolti in un lino presso i Lari
di Ponziano; ignoro quali fossero tali oggetti, e perciò sostengo fossero
oggetti di magia. Credi dunque a quello che dico, perché dico quello che
ignoro». Bellissimi argomenti, che non lasciano dubbi sull'accusato: «questo fu
perché ignoro ciò che fu». Ci sei tu solo al mondo, Emiliano, che sai anche
quello che non sai. Per la sciocchezza ti innalzi sopra tutti, giacché i più
esperti ed acuti filosofi dicono che non dobbiamo prestar fede neppure alle
cose che vediamo, mentre tu parli con sicurezza anche delle cose che non hai né
viste né intese. Ponziano se vivesse e tu gli chiedessi cosa c'era in
quell'involucro, risponderebbe di non saperlo. Ecco qui: il liberto che tiene
ancora le chiavi della stanza, e che è dalla vostra parte, dichiara di non aver
mai esaminato quell'oggetto: e sì che egli, come custode dei libri là
conservati, apriva e chiudeva quasi ogni giorno; entrava spesso con noi, più
spesso solo, vedeva il pannolino posto su una tavola, senza sigillo né legame.
Perché no? Là dentro c'erano nascosti oggetti magici: appunto perciò lo
conservavo con tanta negligenza; anzi lo esponevo liberamente alla curiosità e
alla vista di chi potesse anche, volendo, portarlo via; lo affidavo all'altrui
custodia, lo abbandonavo all'altrui discrezione. Come vuoi, ora, che ti si
creda? Ciò che ignorò Ponziano, il quale convisse con me inseparabilmente, si
può mai credere lo sappia proprio tu, di cui vedo soltanto ora, dinanzi al
tribunale, la faccia? Ciò che il liberto sempre presente, che aveva ogni
facilità di guardare, ciò che quel liberto non ha visto, lo hai visto tu che
non hai mai veduto, sia come dici tu. Ebbene, povero sciocco, se oggi tu avessi
intercettato quel fazzoletto, qualunque oggetto tu ne traessi fuori, io
negherei che sia magico. LIV Fai pure come vuoi, immagina, inventa, escogita ciò
che possa apparire magico: ti confuterei sempre: direi che si tratta di una
sostituzione o di un oggetto per guarigione, per sacrificio, per incubazione: e
mille altre spiegazioni conformi a verità potrei opporre secondo le comuni
abitudini e le pratiche più generalmente osservate. Ora quella tal cosa che, se
anche fosse raccolta e trattenuta, dinanzi a un giudice onesto non mi
apporterebbe alcun danno, tu vuoi che, senza essere accertata e conosciuta, per
un vuoto sospetto, mi faccia condannare. Potrebbe darsi che tu ancora dica,
secondo il solito: ma insomma che era quella cosa che coperta da un lino
deponesti proprio là, presso i Lari? Ah così è, Emiliano? Tu sei un accusatore
che chiede tutto all'imputato e da sé non porta niente di preciso: «perché fai
ricerca di pesci, perché hai esaminato la donna malata, che cosa avevi nel
fazzoletto?» Sei venuto ad accusare o ad interrogare? Se ad accusare devi
proprio tu provare quello che dici; se ad interrogare non anticipare giudizi su
ciò che sei costretto a domandare, appunto perché ignori. In questo modo tutti
gli uomini si potrebbero processare se il denunciatore non avesse alcun obbligo
di prova e avesse invece ogni facoltà di interrogare. A ciascuno così, non
appena lo si abbia incolpato di magia, si potrà imputare qualunque cosa avrà
fatto. Hai scritto un voto sulla gamba di qualche statua: dunque, sei mago;
altrimenti, perché quel voto? Ti sei rivolto nel tempio con tacita preghiera
agli dèi, dunque sei mago: se no, che cosa hai chiesto? E al contrario: sei
stato nel tempio senza pregare: dunque, mago; allora perché non hai invocato
gli dèi? Lo stesso accadrebbe se tu avessi deposto un dono, fatto un
sacrificio, preso della verbena. La giornata non mi basterebbe se volessi
enumerare tutti i fatti di cui un accusatore di malafede chiederebbe ugualmente
ragione. Tutto quanto si tiene riposto, sigillato, chiuso in casa, in virtù
della stessa argomentazione, sarà detto magico, oppure si dovrà cavare
dall'armadio e presentare nel foro, in tribunale. LV Quanti e quali mai sarebbero siffatti procedimenti, o
Massimo, e che largo campo alle calunnie si aprirebbe su questo sentiero di
Emiliano: e quanti fazzoletti di sudore un semplice fazzoletto farebbe versare
agli innocenti; è questo un tema su cui avrei più cose da dire: ma seguirò la
via che mi sono imposta. Anche quando potrei dispensarmene, confesserò, e
interrogato da Emiliano, risponderò. Tu domandi, Emiliano, che cosa avevo in
quel fazzoletto. Potrei affermare di non aver affatto deposto alcun fazzoletto nella
biblioteca di Ponziano e, se anche ne volessi ammettere pienamente l'esistenza,
potrei dire che niente vi era avvolto, e a questa asserzione non si potrebbe
opporre né testimonianza né argomento alcuno, poiché nessuno toccò, e un solo
liberto, come tu dici, vide; tuttavia, per quanto sta a me, quel fazzoletto era
pieno zeppo. Pensalo pure, se vuoi, come quella volta pensarono i compagni di
Ulisse, i quali credevano di aver trovato un tesoro e rubarono un otre pieno di
venti. Vuoi ti dica di che genere fossero gli oggetti avvolti nel fazzoletto e
confidati ai Lari di Ponziano? Sarai soddisfatto. Sono stato iniziato in Grecia
a un gran numero di culti e conservo accuratamente i segni e i simboli che mi
furono consegnati dai sacerdoti. Nulla di insolito, dico, nulla di sconosciuto.
E anche voi, quanti siete qui presenti, iniziati anche ai soli misteri di
Libero Padre, sapete quale oggetto tenete in casa nascosto ed in silenzio
adorate, lungi da tutti i profani. Ma io, come ho detto, diversi culti e moltissimi
riti e varie cerimonie per amore della verità e per dovere verso gli dèi, ho
voluto conoscere. E non è questa una favola inventata per la circostanza. Circa
tre anni addietro, nei primi giorni del mio arrivo in Oea, in una pubblica
conferenza sulla maestà di Esculapio, feci questa medesima dichiarazione e
annoverai i misteri che conoscevo. Quel discorso è celebratissimo; si legge
dovunque ed è tra le mani di tutti, raccomandato ai religiosi di Oea non tanto
dalla mia facondia quanto dal nome di Esculapio. (Si rivolge al pubblico.)
Qualcuno di voi dica, se per caso se ne ricorda, il principio di quel passo. (Voci
del pubblico ripetono le parole del passo.) Senti, Massimo, quanti se ne
ricordano? Oh ecco: mi viene offerto il testo del discorso: farò leggere il
passo, giacché, dalla grande benevolenza del tuo volto, dimostri che non ti
sarà fastidioso ascoltare. (Viene letto il brano della orazione.) LVI Chi abbia qualche notizia di religione si stupirà che
un uomo iniziato a tanti divini misteri conservi in casa simboli di sacre
cerimonie e li tenga avvolti in un tessuto di lino, il velo più puro per
oggetti consacrati? Giacché la lana, escrescenza di un pigrissimo corpo
detratta alla pecora, è già, secondo i precetti di Orfeo e Pitagora riservata
alle vesti dei profani; invece la purissima pianta del lino, tra i più nobili
frutti della terra, non solo serve di rivestimento e di abbigliamento ai
santissimi sacerdoti dell'Egitto, ma si adopera anche per coprire gli oggetti
sacri. Io so bene che taluni, Emiliano in prima fila, trovano divertente la
derisione delle cose divine, perché, come sento dire dagli abitanti di Oea che
lo conoscono, egli non ha mai supplicato nessun Dio, non ha frequentato nessun
tempio; se passa davanti a un luogo sacro ritiene empietà accostare la mano
alle labbra in segno di adorazione. Costui neppure agli dèi della campagna, che
lo nutrono e lo vestono, offre mai qualche primizia delle sue messi, delle sue
vigne, del suo gregge; nessun santuario è nella sua villa, nessun luogo o bosco
consacrato. A che parlo di santuari e di boschi? Coloro che ci sono stati
affermano di non aver veduto dentro i confini dei suoi campi una sola pietra
unta o un ramo inghirlandato. Perciò gli furono imposti due soprannomi: quello
di Caronte, come ho detto, per la ferocia del volto e dell'animo, e l'altro,
che gli è più gradito, di Mezentio, per il disprezzo della divinità. Perciò mi
è facile capire che tutte queste enumerazioni di misteri gli sembrino delle
stupidaggini e, per codesto suo spregio delle cose divine, può essere che egli
non creda alla verità delle mie parole, allorché dicevo della venerazione onde
custodisco i simboli e i ricordi di tante sacre cerimonie. Ma io, qualunque
cosa pensi di me Mezentio, non alzerei un dito; agli altri ad altissima voce
dichiaro: se qualcuno c'è qui, iniziato con me ai medesimi misteri, dia un
segno di riconoscimento: e potrà sentire quali sono gli oggetti da me
custoditi: perché non c'è pericolo che possa indurmi a divulgare dinanzi ai
profani ciò che mi è stato confidato con l'obbligo del silenzio. LVII SACRIFICIO NOTTURNO Mi pare, Massimo, di aver detto abbastanza per
soddisfare anche l'animo più maldisposto: e quanto al fazzoletto, di aver tolto
ogni macchia di peccato. Sicché ormai dalle supposizioni di Emiliano
sicuramente passerò a quella famosa testimonianza di Crasso. Avete ascoltato la
lettura di una deposizione scritta fatta da un certo ghiottone e lurcone
disperato, Giunio Crasso; che io, cioè, nella sua casa, con il mio amico Appio
Quinziano, che stava lì a pigione, abbia fatto dei sacrifici notturni; e
quantunque Crasso sia stato in quel tempo precisamente in Alessandria, tuttavia
dice di avere scoperta la cosa mediante fumo di torce e penne di uccelli. E
già: egli è uomo che si trascina ben volentieri di giorno nelle taverne: così
mentre in Alessandria faceva baldoria, in mezzo a quelle esalazioni di osteria,
diede la caccia alle penne che venivano dai suoi Penati e riconobbe il fumo che
sorgeva lontano dal culmine della patria dimora. E se lo vide con gli occhi,
più di quanto fosse nei voti e nei desideri di Ulisse, egli è veramente
occhiuto. Ulisse cercò invano in tanti anni di vedere dalla spiaggia il fumo
che saliva dalla sua terra; Crasso, in pochi mesi di assenza, quel medesimo
fumo ha visto senza fatica, stando a sedere in una bettola. Se poi avvertì con
le narici quell'odore domestico, egli vince per finezza di fiuto i cani e gli
avvoltoi; infatti a qual cane, a quale avvoltoio del cielo alessandrino può
giungere l'odore di alcuna cosa che venga dalle terre di Oea? È veramente
codesto Crasso un sommo ghiottone, conoscitore di ogni fumo, ma in grazia della
sua passione per il vino, per cui soltanto è tenuto di conto, è più facile gli
sia giunto ad Alessandria l'odore del vino che quello del fumo. LVIII Ha capito anche lui che la cosa non sarebbe stata
credibile; infatti si dice abbia rilasciata per denaro codesta testimonianza,
prima della seconda ora del giorno, senza avere ancora mangiato né bevuto.
Scrisse dunque di avere in questo modo fatto la scoperta: ritornato in
Alessandria, filò diritto a casa sua che Quinziano aveva già lasciata; e qui,
nel vestibolo, trovò molte penne di uccelli e le pareti imbrattate di
fuliggine; ne chiese il motivo al servo rimasto in Oea, e quello gli rivelò i
sacrifici notturni fatti da me e Quinziano. Ecco davvero una favola bene ordita
ed una verosimile invenzione: io dunque, se avessi voluto fare una cosa di tal
genere, non avrei preferito la mia casa; e Quinziano, questo qui che mi assiste
e che io per la strettissima amicizia che ci lega, per la sua eccellente
cultura e la sua impeccabile eloquenza nomino a titolo di onore e di merito,
questo Quinziano, dunque, se avesse avuto degli uccelli a pranzo o se, come
dicono, li avesse uccisi per pratiche di magia, non aveva proprio nessun
garzone che potesse spazzare le penne e gettarle fuori di casa? E il fumo
avrebbe avuto tanta forza da annerire le pareti e Quinziano, finché vi abitò,
avrebbe tollerato nella sua camera quelle brutture di pareti affumicate? Tu non
dici nulla, Emiliano; e infatti non c'è nessuna verosimiglianza, a meno che
Crasso invece che in camera non sia andato difilato, secondo il suo costume, in
cucina. E da dove il servo di Crasso trasse il sospetto che le pareti erano
state affumicate precisamente di notte? Forse dal colore del fumo? Si vede che
il fumo notturno è più nero e differisce da quello diurno. E come mai questo
servo sospettoso e diligente permise che Quinziano lasciasse l'alloggio senza
ripulire la casa? Perché quelle piume, come fossero di piombo, attesero così a
lungo l'arrivo di Crasso? Non accusi Crasso il suo schiavo. Di queste cose qui,
fuliggine, penne, l'inventore è lui che neppure nel fare testimonianza riesce a
stare troppo lontano dalla cucina. LIX Ma perché (si rivolge agli avvocati avversati)
avete letto una deposizione scritta? Crasso in che paese si trova? Forse per
tedio della casa e tornato ad Alessandria? Forse ripulisce le sue pareti? O,
ciò che è più probabile, quel ghiottone è preso dalla sbornia? Perché,
Emiliano, io l'ho notato ieri qui, a Sabrata, nel mezzo del foro, mentre ti
ruttava in faccia. Domanda, Massimo, ai tuoi uscieri - sebbene egli sia più
noto ai tavernieri che agli uscieri - domanda se qui abbiano visto Giunio
Crasso di Oea. Non lo negheranno. Faccia venire Emiliano l'onorevolissimo
giovane, della cui testimonianza si fa forte. Tu vedi che ora è. Io dico che
Crasso russa ormai briaco da un pezzo: o che, preparandosi con un secondo
lavacro a una seconda ribotta, distilla nel bagno il vinolento sudore. Egli,
essendo qui a Sabrata, parla con te, Massimo, per mezzo di una denunzia
scritta: non perché lo tenga lontano il pudore, ché anche sotto i tuoi occhi
mentirebbe senza rossore alcuno: ma forse perché il nostro ubriacone non ha
potuto nemmeno per un tantino astenersi dal bicchiere ed aspettare sobriamente
questa ora; o piuttosto Emiliano lo ha fatto con intenzione, per non esporre
alla severità del tuo sguardo questo bruto dalle mascelle spelate, dall'aspetto
ripugnante, che tu avresti giudicato solo a vedere quella testa giovanile senza
più barba né capelli, gli occhi lacrimosi, le ciglia rigonfie, la bocca
semiaperta, le labbra bavose, la voce stonata, le mani tremanti, una taverna di
rutti. Il patrimonio se l'è bell'e mangiato da un pezzo, e dei beni paterni non
gli resta che una casa, a far bottega di calunnie: la quale tuttavia egli non
ha mai affittato a più alto prezzo che in occasione di questa testimonianza,
perché codesta briaca menzogna l'ha venduta a Emiliano per tremila sesterzi.
Nessuno lo ignora in Oea. LX Tutti conoscevano l'affare, prima che fosse concluso,
e denunziandolo avrei potuto impedire quel mendacio, se non sapevo che una
menzogna così stolta avrebbe nociuto a Emiliano che inutilmente la comperava e
non a me che meritamente la disprezzavo. Questo io volevo: che Emiliano
perdesse il suo denaro, e Crasso si prostituisse con la vergogna della sua
testimonianza. Ieri l'altro, senza il minimo segreto, la cosa fu negoziata in
casa di un certo Rufino, per le intercessioni e le insistenze dello stesso
Rufino e di Calpurniano. E Rufino lo faceva tanto più volentieri in quanto era
certo che buona parte del premio sarebbe toccata alla propria moglie, di cui,
benché avvertito, finge di ignorare gli adulteri. Ho visto, Massimo, che tu
sospettando nella tua chiaroveggenza l'intesa e la congiura loro contro di me,
appena presentato il libello, mostravi nel volto il disgusto per tutta quella
faccenda. E infine, nonostante la loro non comune audacia e la intollerabile
impudenza, neppure essi osarono leggere sino in fondo né validamente adoperare
quella testimonianza di cui sentivano il puzzo di feccia. Queste cose ho voluto
ricordare non perché dinanzi a un giudice come te temessi gli spauracchi delle
penne e le macchie di fuliggine, ma perché Crasso non avesse impunemente
venduto del fumo a quel rozzo campagnolo di Emiliano. LXI LO SCHELETRO MAGICO Un'altra imputazione mi hanno mosso, leggendo lettere
di Pudentilla. Si tratta di una certa statuetta che mi accusano di aver fatto
fabbricare clandestinamente, con un legno sceltissimo, per i miei magici
malefìci: una brutta e orribile figura di scheletro che io avrei il coraggio di
venerare intensamente invocandolo col nome greco di basiléus. Se non
m'inganno, vado seguendo passo passo i miei accusatori e, cogliendole una ad
una, ritesso tutto il tessuto delle loro calunnie. Come poté essere occulta,
secondo voi dite, la fabbricazione di una statuetta di cui non ignorate
l'artefice, tanto che gli avete intimato di presentarsi? Eccolo, l'artefice:
Cornelio Saturnino, uomo tra i suoi confratelli lodato per il talento e stimato
per i costumi; il quale, a te che poco fa, Massimo, diligentemente lo
interrogavi, ha esposto ordinatamente il fatto con somma fede e verità. Egli ha
dichiarato che io, dopo aver visto presso di lui molte figure geometriche di
bosso, lavorate con finezza e maestria, allettato dalla sua abilità, gli
commisi, insieme con alcuni congegni, la statua di una divinità, a sua scelta,
ch'io potessi, secondo il mio costume, supplicare; quanto alla materia, non mi
importava la qualità, purché fosse di legno. Egli tentò prima con il legno di
bosso. Poi, mentre ero in campagna, Sicinio Ponziano, mio figliastro, che
voleva farmi cosa gradita, ottenuto da Capitolina, rispettabilissima signora,
un cofano di ebano, lo portò a Saturnino, esortandolo a preferire per la
statuetta quel legno più pregiato e resistente: quel dono, diceva, mi sarebbe
stato particolarmente gradito. Seguendo i consigli di Ponziano egli lavorò
siccome il materiale permetteva: così a poco a poco, da quelle tavolette di
compatta spessezza, poté venir fuori un piccolo Mercurio. LXII Tutto questo hai sentito da Saturnino. Inoltre il
figlio di Capitolina, giovanetto di grande rettitudine, qui presente, a tua
domanda, ha detto che Ponziano aveva chiesto il cofano, e Ponziano lo aveva
portato all'artefice Saturnino. Anche quello è stato ammesso: che Ponziano
ricevette da Saturnino la statuetta, già bell'e pronta, e me la portò in dono. Chiaramente e apertamente dimostrato tutto questo,
c'è una sola cosa in cui resti qualche sospetto di magia? Anzi c'è una sola
cosa che non vi convinca di manifesto mendacio? Avete detto fabbricato
nascostamente un oggetto che Ponziano, distintissimo cavaliere, fece fare; che
Saturnino, uomo serio e fra i suoi compagni onorevolmente conosciuto, nella sua
bottega, sedendo avanti a tutti, scolpì; che una signora ragguardevolissima
favori con un suo dono; che quando si doveva fare e poi che fu fatto, fu noto a
tanti servi, a tanti amici che venivano a trovarmi. Che io abbia cercato il
legno per ogni quartiere della città, facendomi in quattro, non vi siete vergognati
di dire falsamente, mentre sapete che in quel tempo ero assente ed è provato
che avevo lasciato all'artefice la scelta del legname. LXIII Terza menzogna: ch'io mi sia fatto scolpire la figura
macilenta, anzi interamente scarnita, di un cadavere spaventoso, orribile e
spettrale. Ma se avevate trovato una prova così evidente di magia, perché non
mi avete intimato di esibirla? Forse per potere liberamente mentire in assenza
dell'oggetto? Ma questa possibilità di falso vi è tolta da una certa mia provvidenziale
consuetudine. È mio costume, dovunque io vada, portare con me, tra le mie
carte, l'immagine di un dio e nei giorni festivi supplicarla con offerta di
incenso, di vino e a volte con una vittima. Poco fa, sentendo che si continuava
a parlare con spudoratissima menzogna di uno scheletro, ordinai che si andasse
a prendere subito dal mio albergo il piccolo Mercurio che Saturnino, questo
qui, ha scolpito per me in Oea. (Si rivolge al domestico che ha portato
dall'albergo la statuetta.) Dai qua: lo guardino, lo tengano in mano, lo
scrutino. Eccovi ciò che quello scellerato chiamava uno scheletro. (Si
rivolge agli avversari.) Avete udito le proteste di tutti i presenti? Avete
udito la condanna della vostra menzogna? E non vi brucia la faccia per tante calunnie?
Questo è uno scheletro? Questo è uno spettro? Questo è quello che chiamavate un
demonio? È un simulacro magico, questo qui, o non è piuttosto una delle sacre e
comuni immagini? Prendilo, ti prego, Massimo, e osservalo bene. Alle tue mani
pure e pietose bene si consegna un oggetto consacrato. Vedi come la sua faccia
sia bella e piena del vigore della palestra, quanta gioia serena nel volto del
dio, con qual grazia la nascente lanugine gli serpeggia per le gote, come nel
capo i capelli ricciuti appariscono sotto l'orlo estremo del pileo, quanta
leggiadria in quelle alette che si drizzano uguali sulle tempie, quanta
piacevolezza nella veste che gli si annoda alle spalle. Chi osa chiamare questo
qui uno scheletro, per certo non ha visto alcuna delle immagini divine o le
disprezza tutte quante. Chi crede questa una larva, le fa lui le larve. LXIV A te, Emiliano, a compenso di codesta menzogna, il
dio viandante del cielo e dell'inferno, attiri la maledizione degli dèi celesti
e infernali, metta sempre sul tuo cammino i fantasmi dei morti e presenti in
folla ai tuoi sguardi quanti vi sono e lemuri e mani e larve e tutti gli
spettri notturni e gli spaventi dei roghi e i terrori delle tombe, dai quali
per la tua età e il tuo merito non sei lontano. Noi, platonica famiglia, non
conosciamo che gioia e letizia e ciò che è santo, eccelso, celeste. Per l'amore
del sublime, la nostra filosofia ha fissato lo sguardo anche più in su del
cielo e si è arrestata all'estrema superficie del mondo. Massimo sa che io dico
il vero, egli che nel Fedro legge con la dovuta attenzione «lo spazio
superceleste» e il «tergo del mondo». Quanto al nome, Massimo comprende bene
chi sia quello che non da me, per il primo, ma da Platone fu chiamato basiléus,
re: Al re di tutte le cose tutto si riferisce e tutte le
cose sono per opera sua. Chi sia quel re, causa, ragione, origine prima di
tutta quanta la natura, sommo creatore dell'anima, conservatore eterno degli
esseri animati, assiduo artigiano del suo mondo, ma certamente artefice senza
lavoro, conservatore senza sollecitudine, creatore senza generazione, non
compreso né dal tempo né dallo spazio, né a vicenda alcuna soggetto: e per ciò
conoscibile a pochi, ineffabile a tutti. Ecco: accresco da me stesso il
sospetto di magia: non ti dico, Emiliano, qual è il re da me venerato; e se
anche lo stesso proconsole me lo chiede, qual è il mio dio, taccio ugualmente. LXV Sul nome ho detto quel tanto che la circostanza
presente richiedeva. Resta, lo so bene, un particolare che eccita la curiosità
di alcuni tra i presenti: perché io abbia voluto una statua fatta non di
argento o di oro, ma di legno: e penso che essi vogliano saperlo non per
assolvermi da un peccato, ma per amore di conoscenza: affinché siano liberi
anche da questo scrupolo, quando vedano abbastanza confutato ogni sospetto di
colpabilità. Tu dunque che hai sollecitudine di conoscere, ascolta, ma con
l'animo quanto è possibile sollevato ed attento, come ti disponessi ad
ascoltare le parole stesse di Platone, già vecchio, nell'ultimo libro delle Leggi: È necessario che l'uomo misurato faccia misurati doni
agli dèi: il terreno e il focolare della casa sono sacri a tutti quanti gli dèi: nessuno
dunque consacri per la seconda volta cose già sacre agli dèi. Egli fa questo divieto: che
nessuno stabilisca santuari privati; bastano ai cittadini per immolare vittime
i pubblici templi. Quindi aggiunge: L'oro e l'argento sono nelle altre città, e in
privato e nei templi, occasione d'invidia; l'avorio estratto da un corpo senza più vita non è
offerta gradevole; ferro e bronzo sono strumenti di guerra. Ma un dono di legno, quale
che voglia, e di solo legno, ciascuno può farlo: e similmente di pietra. L'assenso unanime ha
dimostrato, o Massimo, e voi tutti signori del Consiglio, che ho molto
acconciamente preso sì a maestro di vita, sì a difensore dinanzi al tribunale,
Platone, alle cui leggi mi vedete obbediente. LXVI L'INCANTO AMATORIO DI
PUDENTILLA. IL MATRIMONIO DI APULEIO Ora è tempo di volgerci alle epistole di Pudentilla,
o piuttosto di riprendere un poco più da principio la serie dei fatti, perché a
tutti sia chiaramente manifesto che io, accusato di avere invaso per cupidità
di guadagno la casa di Pudentilla, avrei dovuto, se ad alcun guadagno avessi
pensato, fuggire per sempre da quella casa: e sia chiaro che il matrimonio,
svantaggioso per ogni altro rapporto, senza le virtù di mia moglie che hanno
compensato le molte disavventure, mi è stato nemico. Nessun altro motivo
infatti, fuor che una vana gelosia, ha potuto suscitare contro di me questo
processo e i molti anteriori pericoli di vita. Per quale altra ragione si
sarebbe dovuto commuovere Emiliano, se anche avesse scoperto la mia magia, egli
che non dico da nessun atto, ma neppure dalla minima mia parola è stato mai
offeso, si che potesse sentire il bisogno di vendicarsi? E neanche per la
gloria egli mi accusa, come fece Marco Antonio con Gneo Carbone, Gaio Mucio con
Aulo Albucio, Publio Sulpicio con Gneo Norbano, Gaio Furio con Manio Aquilio, Gaio
Curione con Quinto Metello. Giovani eruditissimi per amore di gloria esordivano
in tal modo nell'arringo forense, per farsi conoscere dai propri concittadini
con qualche processo famoso. Tale consuetudine permessa dagli antichi ai
giovani esordienti, perché rivelassero il fiore del loro ingegno, da gran tempo
è scomparsa. Ma se anche fosse valida ancora, non lo sarebbe per Emiliano.
Poiché né ostentazione di eloquenza si converrebbe a un rozzo ignorante, né
cupidigia di gloria a un barbaro villanzone, né un esordio forense a un vecchio
da cataletto: a meno che Emiliano per l'austerità dei suoi princìpi, non abbia
voluto dare un esempio e, nemico solamente del male, assumere codesta accusa
per soddisfare la sua intemerata coscienza. Ma io questa ipotesi l'ammetterei
appena per Emiliano, non per questo nativo dell'Africa, ma per quell'altro
Africano e Numantino e Censorio; tanto sono lontano dal credere che in questo
palo qui ci sia, non dico l'odio del male, ma neanche il senso del male. LXVII E allora? Ognuno vede luminosamente che la sola
invidia, nient'altro, ha mosso Emiliano ed Erennio Rufino, suo istigatore, di
cui dirò fra poco, e gli altri miei nemici a ordire questa trama calunniosa di
magia. Cinque punti io debbo trattare perché, se ben ricordo, rispetto a
Pudentilla, i capi di accusa sono questi: primo: Pudentilla non ha mai voluto
rimaritarsi dopo la morte del primo marito: lo ha fatto perché costretta dai
miei incantesimi; secondo: nelle sue lettere, siccome essi pretendono, è
confessata l'azione magica; terzo: a sessant'anni di età essa ha ripreso marito
per voglia di maschio; quarto: l'atto di matrimonio fu stipulato in campagna,
non in città. L'ultimo capo di accusa, e il più odioso, concerne la dote. Qui con ogni sforzo cercarono di spargere tutto il
loro veleno; ed era questa la cosa che più li tormentava: questa grossa dote
che io, al principio della nostra unione, in una villa di campagna, avrei
estorto a una moglie innamorata. Così hanno detto. E questo inconfutabilmente
dimostrerò così falso, così vano, così nullo, che temo davvero, Massimo, e voi
signori del consiglio, non abbiate da sospettare che io abbia sospinto e
subornato l'accusatore perché, trovata l'occasione, potessi smorzare
pubblicamente l'invidia che mi circondava. Credetemi, e lo constaterete: avrò
da faticare non poco per eliminare il vostro sospetto che una tanto frivola
accusa sia una mia astuta invenzione anziché una stolta impresa dei miei
avversari. LXVIII Ora, mentre riassumo ordinatamente i fatti e cerco di
costringere lo stesso Emiliano a confessare, quand'abbia conosciuto la realtà
delle cose, d'essersi pienamente ingannato, vogliate voi, come avete fatto fin
qui e più attentamente ancora, se è possibile, considerare proprio la fonte e
la base dell'attuale processo. Emilia Pudentilla, ora mia moglie, da un tale
Sicinio Amico, suo precedente marito, generò due figli, Ponziano e Pudente, e
ad essi, rimasti orfani, sotto la potestà dell'avo paterno - Amico era morto
essendo ancor vivo suo padre - durante quattordici anni dedicò tutte le sue
cure di tenerissima madre: ma non senza il rincrescimento di una così lunga
vedovanza proprio nel fiore dell'età. Il nonno dei ragazzi cercava di unirla,
contro sua volontà, all'altro figlio Sicinio Claro e perciò teneva lontani
tutti i pretendenti; inoltre minacciava, se avesse sposato un estraneo, che ai
figli non avrebbe lasciato nulla, per testamento, dei loro beni paterni. Visto
che era quella una irremovibile condizione, da saggia donna e da madre
affettuosa, per non recar danno ai figli, fece contratto di matrimonio con
l'uomo che le era imposto, con Sicinio Claro, ma con vari pretesti eluse le
nozze, fino a che il nonno mori e, rimasti eredi i figlioli, al maggiore di
essi, Ponziano, fu per conseguenza data la tutela del fratello. LXIX Liberata da questo scrupolo, richiesta in matrimonio
da uomini tra i più ragguardevoli, decise di non restare più a lungo in
vedovanza, perché, se anche poteva sopportare il tedio della solitudine, il
malessere del corpo sopportabile non era. Donna di irreprensibile pudicizia, in
tanti anni di vedovanza, senza colpe, senza dicerie, ormai languente per
disusanza del marito e afflitta dalla lunga astinenza, per il deperimento degli
organi sessuali, assalita dai dolori, si riduceva in fin di vita. I medici con
le levatrici consentivano che il morbo era prodotto dalla mancanza del marito e
che il male cresceva di giorno in giorno, e si aggravava il travaglio. Mentre
lo permetteva ancora l'età, la medicina sarebbe stata il matrimonio. Questo
consiglio fu dagli altri approvato, ma soprattutto da Emiliano, il quale, poco
fa, con spudoratissima menzogna, affermava che Pudentilla non aveva mai pensato
al matrimonio prima di essere costretta dai miei magici malefici, e che io solo
fui trovato capace di violare con filtri e incantesimi quella, dirò così,
verginità della vedovanza. Spesso - e non senza ragione - ho sentito dire che
il mentitore deve avere buona memoria. A te, Emiliano, non viene in mente che,
prima che io venissi in Oea, tu, perché lei sposasse, scrivesti anche una
lettera al figlio suo Ponziano, che allora, maggiorenne, viveva in Roma. (Al
segretario): Dai qua la lettera: anzi, consegnala a lui stesso ch'egli la
legga, e con la sua voce e con le sue stesse parole si smentisca. (La
lettera è presentata ad Emiliano.) Dunque, è tua questa lettera? Perché
quel pallore? Già, arrossire tu non puoi. È tua la firma? (Emiliano resta
impacciato e interdetto. Notata la confusione dell'avversario, Apuleio si
rivolge ad uno del tribunale perché dia lettura del documento.) Leggi più
forte, ti prego, perché tutti intendano quanto la lingua di quest'uomo discordi
dalla sua mano e quanto egli dissenta più da sé che da me. (Prosegue la
lettura.) LXX Hai scritto, Emiliano, ciò che è stato letto? «Che la
vedova voglia e debba sposare lo so; chi sia il preferito, lo ignoro». Hai
detto bene: lo ignoravi. Infatti Pudentilla, che conosceva bene la tua nemica
malignità, ti aveva comunicato soltanto la cosa senza fare il nome
dell'aspirante. Ma tu credevi ancora che lei avrebbe finito per sposare tuo
fratello Sicinio Claro, e indotto dalla fallace speranza, inducesti anche Ponziano
a dare il consenso. Se lei avesse sposato Claro, un contadinaccio decrepito,
diresti che essa di sua volontà, senza bisogno di fatture magiche, desiderava
un marito; ma poiché si scelse un giovane, tale quale voi dite, dici che fu
costretta a farlo e che essa aveva sempre sdegnato il matrimonio. Ignoravi,
pezzo di canaglia, che su questo argomento era nelle nostre mani una lettera
tua; ignoravi che ti avrebbe smentito la tua stessa testimonianza. E appunto
questa lettera, testimone e rivelatrice della sua volontà, Pudentilla, che ti
conosceva frivolo e mutevole non meno che mentitore e impudente, preferì
trattenere anziché spedire. Essa stessa tuttavia su quest'affare scrisse a Roma
al suo Ponziano, esponendo pienamente anche i motivi della sua decisione. Parlò
senza nasconder nulla, della sua malattia: disse che non c'era alcun motivo di
persistere ancora, che a scapito della sua salute aveva assicurato ai figli
l'eredità del nonno e che l'aveva anzi accresciuta con la massima diligenza;
aggiunse che ormai, col volere di Dio, egli stesso era giunto all'età del
matrimonio e il fratello stava per indossare la toga virile; dovevano
permettere una buona volta che anch'essa finalmente ponesse un rimedio alla
solitudine e all'infermità; quanto al resto della tenerezza e delle sue ultime
volontà non dovevano dubitare: qual era stata da vedova, tale sarebbe stata da
maritata. Farò leggere una copia della sua lettera al figlio. (Segue la
lettura del documento.) LXXI Dopo ciò, credo risulti limpidamente a chiunque che
Pudentilla non fu strappata alla ostinata sua vedovanza dai miei incantesimi,
ma che essa stessa da tempo, di sua volontà, non aliena dalle nozze, mi abbia
forse preferito agli altri. E non trovo che la preferenza di una donna cotanto
seria debba essermi attribuita a colpa anzi che ad onore; e mi stupisco che
Emiliano e Rufino abbiano mal sopportato la decisione della donna, una volta
che coloro i quali avevano chiesta Pudentilla in matrimonio, accettano con
buona grazia che io fossi a loro preferito. In questa decisione essa veramente
obbedì piuttosto al figlio che all'animo suo: ed Emiliano non potrebbe negarlo.
Ricevuta la lettera materna, Ponziano accorse volando da Roma, temendo che, se
si fosse imbattuta in un uomo avido di quattrini, tutta la sua sostanza sarebbe
passata, come spesso accade, in casa del marito. Era una preoccupazione
angosciosa. Tutte le speranze di ricchezza per lui e per il fratello erano
riposte nella sostanza della madre. Il nonno aveva lasciato poca cosa, la madre
possedeva quattro milioni di sesterzi, sui quali essa doveva pagare ai figli
una discreta somma non per obbligazione legale, ma - com'era giusto - per
semplice patto di buona fede. Questo timore Ponziano lo masticava fra i denti,
ma non osava fare un'aperta opposizione, per non sembrare diffidente. LXXII La cosa restava lì, fra i progetti matrimoniali della
madre e il timore del figlio. Intanto, fosse caso o destino, arrivo io, diretto
ad Alessandria. Direi: «questo non fosse mai avvenuto», se non mi trattenesse
il rispetto per mia moglie. Era l'inverno. Stanco del viaggio, mi fermo
nell'amica casa degli Appii, qui presenti, che nomino a titolo di onore e di
amore, e quivi mi riposo per parecchi giorni. Colà venne a visitarmi Ponziano:
egli mi era stato, pochi anni prima, presentato in Atene da comuni amici, e
poscia era vissuto con me in una stretta intimità. Egli è pieno di deferenza
per la mia persona, di sollecitudine per la mia salute e di astuzia per il mio
cuore; infatti gli pareva di aver trovato in me un marito adattissimo per la
madre, cui poteva senza rischio affidare tutta la fortuna della casa. E
dapprima, saggiando con giri di parole l'animo mio, giacché mi vedeva bramoso
di viaggi e per nulla incline a matrimonio, mi prega di trattenermi almeno
ancora un poco, dicendo che desiderava partire con me e che, a cagione della
mia infermità, non avendo potuto profittare di quell'inverno, mi toccava
aspettare l'altro inverno, per i calori della Sirte e per le bestie feroci. A
forza di preghiere strappa ai miei cari Appii il permesso di trasferirmi presso
di sé in casa della madre, abitazione più giovevole alla salute, da dove avrei
anche goduto più liberamente della vista del mare che mi è tanto gradita. LXXIII Insiste con tanto zelo ch'io consento a tutto. Mi
raccomanda la madre, il fratello, questo ragazzo qui: dò loro qualche aiuto per
i nostri studi comuni: cresce la nostra intimità. Frattanto mi tornano le
forze; faccio, a richiesta degli amici, una pubblica conferenza. Gli
intervenuti, numerosissimi, che gremivano la basilica, tutti a una sola voce mi
acclamano «bene, bravo»: mi pregano di restare e diventare cittadino di Oea.
Sciolta l'adunanza, Ponziano, pigliando quell'occasione per assalirmi,
interpreta il consenso della pubblica voce come un segno della divina volontà e
mi rivela che è suo proposito, se io non mi rifiuto, unirmi in matrimonio a sua
madre, alle cui nozze moltissimi aspirano; in me solo dice di riporre una fede
e una confidenza assolute; se io non volessi accogliere questo peso, perché mi
si offriva non già una bella fanciulla, ma una madre con figli e di mediocre
apparenza: se io per considerazione di bellezza o per amore di denari mi
serbassi ad altra più fortunata occasione, egli non mi stimerebbe più né come
amico né come filosofo. Il discorso non finirebbe più se volessi ricordare le
mie contrarie risposte, le nostre lunghe e frequenti schermaglie di parole, le
molti e pressanti preghiere ond'egli instancabilmente mi assalì finché non ebbe
il mio assenso. È vero altresì che un anno continuo di assidua convivenza mi
aveva messo in grado di apprezzare Pudentilla e di conoscere bene tutte le sue
doti morali: ma bramoso com'ero di andare per il mondo, respingevo intanto
l'impiccio di un matrimonio. Tuttavia, non tardai a desiderare quella donna
così vivamente come ne fossi innamorato. Ponziano aveva ugualmente persuaso la
madre a darmi la preferenza su tutti gli altri e smaniava di vedere la cosa
compiuta. A stento potemmo ottenere da lui una brevissima dilazione fino a che
egli stesso si fosse sposato e il fratello avesse per la prima volta indossato
la toga virile. Subito dopo si sarebbe celebrato il nostro matrimonio. LXXIV Magari io potessi trascurare senza gravissimo danno
della mia causa ciò che mi tocca dire: perché non sembri che io rimproveri oggi
Ponziano della sua incostanza, dopo aver sinceramente concesso alle sue
preghiere il perdono del fallo commesso. Ma io debbo riconoscere un fatto, di
cui si sono serviti contro di me. Ponziano, cioè, dopo il suo matrimonio, mancò
di fede ai patti convenuti e subito, mutato animo, ciò che prima aveva con
soverchio zelo affrettato, con pari ostinatezza voleva impedire, mostrandosi
deciso a sopportare qualunque cosa, a operare qualunque cosa perché il nostro
matrimonio non si compisse. So bene che questo sconcio rivolgimento dell'animo
suo, questa sua animosità contro la madre non è da attribuire a sua colpa, ma
al suocero suo, eccolo là, a quell'Erennio Rufino, uomo che non uno solo ha
lasciato sulla terra più vile, più malvagio, più sozzo di lui. Con poche parole
e con ogni possibile temperanza io dovrò rappresentarvi quest'uomo, perché non
voglio, qualora io taccia di lui, ch'egli non sia compensato della grave fatica
compiuta nel suscitarmi contro questo processo. RITRATTO DI ERENNIO RUFINO È lui infatti l'istigatore di questo ragazzo, è lui
l'autore dell'accusa, lui l'arrolatore degli avvocati, il compratore dei
testimoni, la fornacetta di tutta la calunnia; egli è la furia infernale di
questo Emiliano; e presso tutti si gloria sfrenatamente di avermi trascinato
con le sue macchinazioni in tribunale. Su questo campo ha davvero ragione di
battersi le mani. Egli è l'impresario titolato di tutte le liti, ideatore di
tutti i falsi, architetto di tutte le frodi, seminario di tutti i vizi,
ricettacolo di libidini e di crapule, bordello, lupanare; da bambino famoso per
le sue turpitudini; ragazzo, prima che fosse sfigurato da codesta calvizie,
condiscendente a tutte le voglie infami dei suoi smascolatori; nella gioventù
pantomimo senz'ossa e senza nervi, ma, come sento dire, di una mollezza
grossolana e sgarbata: e dell'istrione è noto ch'egli avesse soltanto
l'impudicizia. LXXV Adesso, nell'età in cui si trova - che gli dèi lo
maledicano: mi tocca parlare con buona licenza di chi ascolta - la sua casa è
tutta un antro da ruffiani, la sua famiglia è tutta una impurità, lui stesso
uno svergognato, la moglie una prostituta, i figli simili ai genitori. Notte e
giorno, per trastullo della gioventù, calci tirati alla porta, canzoni urlate
sotto le finestre, chiassi di bevitori nel triclinio, sfilata di adulteri nella
camera da letto: giacché, quando si è pagato lo scotto al marito, l'entrata è
libera. Così l'ignominia del suo letto è la sua rendita. Un tempo col suo
corpo, ora con quello della moglie sa bene fare i suoi pubblici guadagni. Con
lui dico, non mentisco, proprio con lui si patteggiano a prezzo le notti della
moglie, ed è ben conosciuto il segreto accordo tra moglie e marito. Quelli che
fanno alla signora il regalo più generoso, nessuno li vede, hanno libera
uscita; quelli venuti colla borsa poco piena, a un dato segno sono sorpresi
come adulteri, e quasi fossero venuti a scuola non escono prima di aver
lasciato qualche scritto. Del resto cosa poteva fare quel pover'uomo, rotolato
giù da una abbastanza cospicua fortuna, capitata inopinatamente grazie alla
frode paterna? Il padre suo, carico di obbligazioni, preferì il denaro
all'onore. Sollecitato da ogni parte a pagare i suoi debiti e trattenuto, come
fosse un pazzo, da chiunque lo incontrasse per la strada, «pace» disse: «io non
posso pagare»: e tolti gli anelli d'oro e tutti i distintivi del grado, si
accordò coi creditori. Frattanto, intesta al nome della moglie la maggior parte
dei suoi beni con astutissima frode: e così lui, povero, nudo, ormai protetto
dalla sua ignominia, lasciò a questo Rufino qui, non mentisco, tre milioni di
sesterzi da divorare. A questa somma, ereditata intatta dalla madre, egli ha
aggiunto i guadagni che ogni giorno gli ha portato in dote la moglie. Ma tutto
questo denaro in pochi anni con tanta cura codesto ghiottone ha riposto nel suo
ventre e sperperato in bagordi di ogni sorta, da far credere ch'egli volesse
sfuggire all'accusa di possedere qualche avanzo delle frodi paterne. Uomo giusto
e costumato si adoperò perché il male acquistato fosse malamente consumato e
niente gli avanzasse della sua grossa fortuna, fuorché il miserabile intrigo e
la insaziabile gola. LXXVI Ma la moglie, ormai vecchia ed esausta, destinò tutta
quanta la casa al disonore. E la figlia condotta in giro, per adescamento
materno, fra i giovani più ricchi e perfino abbandonata a qualche pretendente
perché ne facesse esperimento, se non si fosse imbattuta nella dabbenaggine di
Ponziano, forse, vedova prima del matrimonio, sarebbe rimasta ancora a sedere
nella casa paterna. Ponziano, malgrado le nostre insistenti riprovazioni, le
donò un fittizio e immaginario titolo di nozze, perché ben sapeva che poco
prima ch'egli la sposasse, un giovane di ottima famiglia, suo fidanzato,
l'aveva abbandonata dopo che ne fu sazio. Venne frattanto a lui questa novella
sposina, sicura e intrepida, spoglia di pudore, scolorito il velo nuziale,
rifatta vergine dopo il recente ripudio, portando piuttosto il nome che l'integrità
di fanciulla. Condotta su una lettiga a otto portatori, voi qui presenti avete
certamente veduto che sguardi procaci ella volgeva intorno sui giovani e come
ostentava le sue forme impudiche. Chi non riconosceva la scuola materna vedendo
nella figlia la bocca dipinta, le guance imbellettate, gli occhi adescatori?
Quanto alla dote, un creditore ne aveva il giorno prima sequestrato i tre
quarti: ed era una dote più elevata di quanto non comportasse una casa rovinata
e piena di figli. LXXVII Quest'uomo, dunque, limitato nelle sostanze e
illimitato nelle speranze, di una avidità pari alla povertà, senza far conti
con nessuno aveva già bell'e ingoiati tutti e quattro i milioni di Pudentilla;
e perciò ritenendo che bisognava sbarazzarsi di me, per insidiare più
facilmente la dabbenaggine di Ponziano e la solitudine di Pudentilla, comincia
col rimproverare il genero per avermi promessa la madre, lo persuade a ritrarsi
al più presto, mentre è tempo, da tanto pericolo e mantenere per sé la fortuna
materna, anziché trasferirla scientemente a un estraneo: e qui, il volpone,
getta uno scrupolo nel cuore innamorato di quel giovane minacciando che se non
facesse così egli riprenderebbe la figlia. Poche parole: il nostro giovane,
scioccherello, preso inoltre dalle lusinghe della nuova sposa, cascò, sviato,
in potere di quell'uomo. Se ne va dalla madre, portatore delle parole di
Rufino; tenta invano la sua fermezza e, dopo averne anzi ricevuto una solenne
sgridata per la sua leggerezza e incostanza, riferisce al suocero una ben dura
risposta: che la madre, contrariamente alla sua natura placidissima,
irremovibile, si era adirata per quella richiesta, e resa più ostinata
dall'ira, aveva risposto che ben sapeva ormai di dovere quelle richieste alle
istigazioni di Rufino: e per ciò tanto più sentiva il bisogno di procurarsi
l'aiuto di un marito, contro la disperata avidità di quell'uomo. LXXVIII Esacerbato per tale risposta codesto sciacquacosce
della propria moglie, talmente arse di collera che contro quella santissima e
pudicissima donna, in presenza del figlio, avventò parole degne della sua
alcova, chiamando lei una sgualdrina, me un mago e un avvelenatore, dinanzi a
molti che ascoltavano - i cui nomi potrò fare, se vorrai - e dicendo che di sua
mano mi avrebbe dato la morte. Ma io freno a stento la mia collera: non posso
più contenere lo sdegno dell'animo mio. Tu, tu, il più smascolinato degli
esseri, minacci un uomo di farlo morire di tua mano? Con quale mano? Di
Filomela, di Medea, di Clitemestra? Ma quando tu balli questi pantomimi, è
tanta la snervatezza del tuo animo, tanta la paura del ferro, che balli senza
il punteruolo. LA LETTERA DI PUDENTILLA Torniamo sui nostri passi. Pudentilla quando vide che
suo figlio, contro ogni aspettazione, si era rivoltato contro di lei, andata in
campagna, gli scrisse per rimproverarlo quella famosissima lettera nella quale
- come costoro affermavano - confessava che indotta in amore con le mie arti
magiche aveva smarrito la ragione. Di questa lettera, presente il segretario di
Ponziano e col controllo di Emiliano, l'altro ieri, per ordine tuo, Massimo,
abbiamo fatto trascrivere una copia con ogni legale garanzia. E in essa, contro
le asserzioni di costoro, tutto è in mio favore. LXXIX Ma voglio pure ammettere che Pudentilla senz'altro mi
abbia chiamato mago. Ciò potrebbe significare che essa, per giustificarsi
presso il figlio, abbia voluto addurre a pretesto il mio potere piuttosto che
la sua voglia. Forse la sola Fedra, in grazia del suo amore, ideò una letterina
bugiarda, o non è questo piuttosto un artificio di tutte le donne che, quando
han cominciato a esser prese dal desiderio amoroso, preferiscono sembrare di
aver ceduto alla forza? E se anche credette sinceramente che io fossi un mago,
per questo devo essere giudicato mago, perché lo scrisse Pudentilla? Voi con
tanti argomenti, con tanti testimoni, con tanti discorsi, non riuscite a
provare la mia magia: e quella con una sola parola, si? Una dichiarazione
sottoscritta in giudizio ha infine un peso assai maggiore che una lettera
privata. Perché non mi combatti con le mie stesse azioni, anzi che con le
parole altrui? Con questo sistema molti saranno accusati di un qualsiasi
maleficio, se si darà valore a ciò che un tale in una lettera avrà scritto o
per amore o per odio. «Pudentilla ha scritto che sei mago: dunque sei mago». E
se avesse scritto che sono console, sarei console? E se pittore, medico e
infine innocente, sarei tale per voi, perché essa l'ha detto? No, certamente. È
una vera iniquità prestar fede ad uno quando è contrario, e quando è
favorevole, no: dire che una lettera è valida se manda in rovina e non lo è se
può salvare. «Ma, dice, essa era troppo turbata allora: essa ti amava
perdutamente». Sia pure; tutte le persone amate, dunque, sono dei maghi, se
così ha scritto chi ama. Debbo ammettere ora che Pudentilla non mi amasse in
quel tempo, se davvero le scappò scritto ciò che pubblicamente mi avrebbe
nociuto. LXXX Insomma che cosa vuoi? Era sana o no, quando
scriveva? Era sana? E allora non era vittima di arti magiche. Era insana?
Allora, non sapeva per certo quello che scriveva, e le sue parole non meritano
fede; anzi, se fosse stata veramente insana avrebbe ignorato di esserlo. Come
opera assurdamente colui che dice di tacere, perché nel momento in cui dice di
tacere non tace, e con la stessa dichiarazione infirma ciò che dichiara: così è
più contraddittorio dire «sono pazzo», perché non è vero se non quello che si
dice scientemente; e sano è colui il quale sa che cosa sia la pazzia, perché la
pazzia non si può conoscere da sé come la cecità non può vedere se stessa.
Dunque Pudentilla era in possesso della sua ragione se credeva di non esserlo.
Potrei, se volessi, seguitare ancora, ma lascio la dialettica. Farò leggere la
lettera: essa proclama ben altro, e pare sia stata appositamente preparata e
adattata a questo processo. (Al cancelliere.) Ecco, tieni e leggi fino a
che ti interromperò (lettura del documento). Sospendi per un momento,
perché siamo giunti alla svolta. Fino a questo punto, Massimo, per quanto ho
notato, la donna non ha mai fatto cenno di magia; essa ha mantenuto lo stesso
ordine mio nel parlare della lunga vedovanza, delle cure occorrenti alla sua salute,
della sua volontà di sposare, dei meriti miei, quali aveva sentito da Ponziano,
e dei consigli dello stesso perché mi preferisse come marito. LXXXI Si è letto fin qui. Resta quella parte della lettera
che, similmente scritta in mio favore, rivolge le corna contro di me; mandata
appositamente per espellere da me l'imputazione di magia, mercé la memorabile
abilità di Rufino, sortì un effetto diverso ed anzi confermò la opinione di
taluni di Oea che mi avversavano come mago. Molte cose hai udite con la
conversazione, Massimo; di più ne hai apprese con la lettura; non poche hai
trovate con l'esperienza: ma una furberia così insidiosa, combinata con così
mirabile scelleraggine, non dirai di averla mai conosciuta. Quale Palamede,
quale Sisifo, quale Euribate o Frinonda, ne avrebbero escogitato una simile?
Tutti costoro che ho nominato e quanti altri sono stati memorandi per
trappolerie, al paragone di codesta unica falsità di Rufino appariranno dei
perfetti sciocconi da farsa, Oh mirabile trovata! Sottigliezza degna del
carcere duro. Chi crederebbe si possa convertire in accusa quella che era stata
una difesa, senza mutare una lettera sola? È incredibile: ma l'incredibile
dimostrerò com'è avvenuto. LXXXII Era un rimprovero della madre al figlio il quale,
dopo avermi lodato quale personaggio di gran merito, ora, in ossequio alla
volontà di Rufino, andava spacciando che ero un mago. Ecco le sue parole
testuali: «Apuleio è un mago: e mi ha stregata, e sono presa d'amore. Vieni
dunque da me, finché conservo ancora la ragione». Queste parole, che ho citato
in greco, staccate dal loro contesto e prese a sé, Rufino le portava in giro
quale confessione della donna, traendosi dietro per il foro Ponziano piangente,
e le mostrava a tutti e le dava a leggere fino al punto che ho detto,
occultando tutte le altre, prima e dopo, dicendo che eran troppo scandalose per
essere mostrate: e che rispetto alla magia era già abbastanza la confessione
della donna. In una parola: tutti credettero. Quelle stesse parole, appunto,
scritte in mio favore, presso gl'ignari sollevarono una violenta animosità.
Metteva scompiglio, questo immondo, nel mezzo della piazza, come invasato; e
aprendo spesso la lettera strillava: «Apuleio è mago! Lo dice lei stessa che lo
sente e lo patisce. Che volete di più?» E non c'era nessuno che si presentasse
per me e rispondesse: «Per favore, fammi vedere tutta la lettera; lascia ch'io
legga tutto, dal principio alla fine. Molte parole ci sono che, presentate
sole, potrebbero dare appiglio a calunnie. Quando alle conseguenze si tolgano
le premesse e si sopprimano ad arbitrio talune frasi e le cose dette per
finzione si leggano con accento di affermazione anzi che di rimprovero, allora
qualsivoglia discorso si può prestare all'accusa». Questo si poteva allora
giustamente osservare. Ecco il testo della lettera. LXXXIII Verifica, Emiliano, se anche qui la tua copia sia
stata scritta, come la mia, esattamente: Avevo deciso, per le ragioni che ho
detto, di rimaritarmi, e tu stesso mi avevi persuaso scegliere costui a preferenza di tutti, per
la stima che ne avevi e per il desiderio di farlo subito, per mio tramite, nostro
parente. Ma ora, poiché i nostri accusatori malvagi ti hanno fatto girare la testa,
ecco a un tratto Apuleio è un mago e m'ha stregata e sono presa d'amore. Vieni dunque da
me finché conservo ancora la ragione. Ti prego, Massimo; se le lettere, così come hanno in
parte il nome di vocali, possedessero anche una voce propria e se, munite di
ali, fossero solite volare, come dicono i poeti, quando Rufino estraeva in
malafede questa epistola e ne leggeva pochi passi, tacendo di proposito tutto
quanto mi era favorevole, non forse allora le altre lettere avrebbero
proclamato di essere state delittuosamente trattenute in arresto, e le parole
soppresse non sarebbero volate via dalle mani di Rufino riempiendo di
schiamazzo tutto il foro? Questo avrebbero detto: «Anche noi siamo state
inviate da Pudentilla e abbiamo da esporre il nostro mandato. Non si dia
ascolto a un uomo cattivo e scellerato che tenta di operare con le altre
lettere il falso: noi dobbiamo essere udite. Pudentilla non ha accusato Apuleio
di magia; Rufino l'ha accusato, e Pudentilla l'ha assolto». Non sono state dette queste cose: ma oggi, quando più
esse mi giovano, appariscono più chiare della luce. Sono scoperte le tue arti,
Rufino: le tue frodi spalancano la bocca, la tua menzogna è senza veli. La
verità un giorno rovesciata ora prorompe e la calunnia si inabissa. LXXXIV Vi siete appellati alla lettera di Pudentilla; la
lettera mi dà la vittoria. Se volete ascoltare anche le ultime parole della
chiusa, sarò ben contento. (Al segretario.) Di' tu con quali parole
finiva la sua lettera questa donna incantata, insensata, demente, amante: «Io
non sono né stregata, né innamorata: il destino...» (Si rivolge agli
avversari.) Ne volete ancora di più? Grida contro di voi Pudentilla e la
sua assennatezza rivendica solennemente contro le vostre calunnie; sia la
ragione, sia la necessità del matrimonio essa rivendica al destino, il quale
non ha rapporti con la magia, anzi, più esattamente, la sopprime. Infatti,
quale potenza rimane agli incantesimi e ai malefici se il destino di ogni cosa,
come impetuosissimo torrente, non può essere né fermato né sospinto? Con questa
frase Pudentilla negò non solo che io sia un mago, ma addirittura che esista la
magia. È bene che Ponziano abbia avuto l'abitudine di conservare intatte le
lettere materne: è bene che la fretta di questo processo vi abbia tolto il
tempo necessario per fare qualche mutazione in questa lettera qui. È beneficio
tuo, Massimo, e della tua previdenza se, subodorata fin da principio la
calunnia, perché col tempo non prendesse forza, la portasti subito in giudizio
e senza indugio l'hai stroncata. Ora supponi che la madre abbia confessato al figlio,
come suole avvenire in una lettera confidenziale, qualcosa intorno a un suo
amore. Sarebbe stato giusto, Rufino, sarebbe stato non dico rispettoso, ma
almeno umano, divulgare questa lettera e farne del figlio il banditore? Ma sono
davvero un ingenuo io che chiedo ti faccia custode dell'altrui pudore, tu che
hai perduto il tuo. LXXXV Ma perché lamentare il passato, quando non è meno
acerbo il presente? Fino a tal punto avete depravato codesto sciagurato
ragazzo, sino a tal punto che egli viene a leggere le lettere di sua madre -
ch'eglì crede lettere di amore - dinanzi al tribunale del proconsole, dinanzi a
un uomo venerabilissimo, Claudio Massimo: e qui, presenti le statue
dell'imperatore Pio, rimprovera alla madre vergognosi traviamenti e le getta in
faccia i suoi amori? Chi è tanto misericordioso da non esasperarsi? Tu, il più
spregevole di tutti, in mezzo a costoro osi scrutare l'animo della tua
genitrice, ne osservi gli sguardi, conti i suoi sospiri, esplori gli affetti,
intercetti gli scritti, ne comprovi gli amori? Tu ardisci spiare quel ch'essa
faccia nell'intimità dell'alcova, di guisa che alla madre tua non sia lecito
essere, non dico un'amante, ma neppure una donna? E credi che in tua madre non
ci debba essere altro vincolo che quello dei figli? Disgraziato fu il tuo seno,
Pudentilla: e desiderabile la sterilità e infausti i dieci mesi di gravidanza,
e mal compensati i quattordici anni di vedovanza. La vipera, si dice, divorato
il seno della madre, striscia fuori alla luce e così nasce mercé un parricidio.
Ma tu, Pudentilla, dal tuo figlio ormai cresciuto sei addentata mentre vivi e
mentre guardi, è fatto a pezzi il tuo silenzio, assalito il tuo pudore, scavato
il tuo cuore, tratti fuori i visceri più riposti. Questi sono i ringraziamenti
che il buon figlio porge alla madre in compenso della vita che gli è stata
data, dell'eredità salvata, del lungo mantenimento per quattordici anni? Sono
queste le lezioni con cui t'ha istruito tuo zio, tali, che se tu fossi certo di
avere figli simili a te, dovresti ben guardarti dal pigliar moglie? È noto quel
verso del poeta: «Odio i fanciulli di saggezza precoce»; ma, perdinci, anche
per un fanciullo di precoce cattiveria chi non ha avversione e odio, quando
vede un mostro più avanti nell'infamia che nella vita, delinquente prima che
capace a delinquere, di verde puerizia e di canuta malizia? tanto più nocivo in
quanto fa il male impunemente, e non ancora maturo per le pene, lo è per
l'ingiuria. Per l'ingiuria, ho detto? No, no, per il delitto verso la madre,
nefando, mostruoso, intollerabile. LXXXVI Caddero nelle mani degli Ateniesi alcune lettere di
Filippo, col quale erano in guerra: e furono lette in pubblico tutte quante,
tranne una, diretta alla moglie Olimpiade: di questa fu proibita la lettura in
forza di un comune diritto di umanità. Usarono riguardo al nemico piuttosto che
divulgare un segreto maritale, pensando che il diritto comune vale più della
propria vendetta. Tali i nemici col nemico; tu come ti sei comportato con la
madre? Vedi quanto siano simili i termini del mio confronto. Ma tu, figlio, le
lettere materne - lettere di amore, come dici - leggi in questa adunanza dove
se ti invitassero a leggere versi di qualche poeta un po' licenzioso, non
oseresti certamente, trattenuto da un resto di pudore. Dirò di più: se tu
avessi alcun gusto di lettere, non avresti mai toccato le lettere di tua madre.
Inoltre, hai avuto l'audacia di far leggere proprio la lettera tua, quella
lettera così irriverente, oltraggiosa, turpe nei riguardi di tua madre, scritta
quando eri ancora nutrito dalle sue cure, mandata di nascosto a tuo fratello
Ponziano, s'intende bene, per non limitarti a un solo peccato e perch'egli,
Ponziano, con un'occhiata potesse cogliere la tua magnifica azione. Miserabile,
non intendi che tuo zio lasciò che tu operassi in tal modo per potersi
giustificare con la gente, quando dalle tue lettere fosse apparso che ancor
prima di recarti presso di lui, mentre ancora facevi le carezze alla mamma, eri
fin da allora un volpone e un perverso. LXXXVII D'altra parte non posso immaginarmi Emiliano tanto
sciocco da credere possa danneggiarmi la lettera di un ragazzo che è inoltre
mio accusatore. LA FALSA LETTERA Ma c'è ancora una lettera, falsa, non scritta di mia
mano, messa insieme senza verosimiglianza, con la quale volevano far apparire
la donna sollecitata dalle mie blandizie. Perché dovevo ricorrere alle
biandizie, se potevo disporre della magia? E per quali vie poté giungere alle
mani di costoro una lettera mandata a Pudentilla, naturalmente per mezzo di
fidata persona, come si ha cura di fare in tali circostanze? E perché poi avrei
scritto con errori, in un linguaggio tanto barbaro, io che, siccome essi stessi
dicono, m'intendo un poco di lingua greca? E finalmente perché avrei dovuto
stuzzicare la donna con lusinghe così assurde e grossolane, mentre essi stessi
decantano il mio gusto nelle procaci galanterie poetiche? Così è certamente: la
cosa è manifesta a chiunque: costui, che non ha saputo leggere la lettera di
Pudentilla, scritta in miglior greco, ha potuto leggere con più scioltezza ed
efficacia questa lettera, in quanto era sua. Ma ora basta con le lettere. Mi si
consenta una sola osservazione. Pudentilla che aveva scritto ironicamente e per
beffa: «Vieni dunque da me, finché conservo la ragione», dopo questa lettera
chiamò a sé i figli e la nuora e convisse con loro circa due mesi. Dica questo
pietoso figliuolo se egli abbia visto allora la madre sua operare e ragionare
male per pazzia; neghi che lei abbia riveduto e sottoscritto con la massima
accortezza i conti degli affittuarî, dei pastori, degli stallieri; neghi che
suo fratello Ponziano sia stato da lei gravemente ammonito perché si guardasse
dalle insidie di Rufino; neghi ch'egli sia stato meritamente biasimato per aver
portato in giro e aver letto in malafede una lettera che la madre gli aveva
mandato: e dopo questo, neghi che la madre sua si è con me sposata in una casa
di campagna, come si era da un pezzo convenuto. MATRIMONIO IN CAMPAGNA Si era deciso così, di sposarci in una villa del
suburbio, per evitare che la gente accorresse di nuovo ai regali, dopo che
Pudentilla aveva gettato via al popolo cinquantamila sesterzi, il giorno in cui
Ponziano prese moglie e questo ragazzo vestì la toga; inoltre si era voluto
fare a meno dei tanti banchetti e fastidî che per lo più, secondo l'usanza, i
mariti novelli devono patire. LXXXVIII Eccoti, Emiliano, la sola ragione per cui l'atto
nuziale fra me e Pudentilla fu sottoscritto in campagna e non in città, per non
gettare di nuovo cinquantamila sesterzi e per non pranzare né con te né a casa
tua. Non ti pare motivo sufficiente? Mi stupisco tuttavia perché hai tanto in
orrore la campagna, tu che ci passi quasi tutta la vita. La legge Giulia sul
matrimonio degli ordini sociali, in nessuna parte interdice: «è vietato sposare
in campagna»; anzi, se vuoi saperlo, è molto più di buon auspicio per la prole
prender moglie in campagna che in città, in un terreno fertile anziché in un
luogo sterile, sulle zolle erbose dei campi anziché sopra il selciato di una
piazza. Quella che sarà madre sia sposa nel medesimo seno materno, tra le messi
cresciute, sulla gleba feconda, o si giaccia a piè dell'olmo maritale, sullo
stesso grembo della terra madre, fra la progenie delle erbe e le propaggini
delle viti e i germogli degli alberi. E qui torna benissimo quel verso tante
volte ripetuto nelle commedie: «per la generazione dei figli legittimi». Anche agli antichi Romani, ai Quinzii, ai Serrani, e
a molti altri non soltanto le mogli, ma anche i consolati e le dittature
venivano offerti in campagna. È bene che io mi arresti in un campo tanto
esteso, per non far piacere a te, a un campagnolo, se avrò fatto le lodi della
campagna. LXXXIX Quanto all'età di Pudentilla, tu hai sfacciatamente
mentito, asserendo che essa ha sposato a sessant'anni. Ti risponderò in poche
parole perché su una cosa tanto chiara non c'è da fare molti ragionamenti. Il
padre di Pudentilla dichiarò, secondo l'uso, la nascita della figlia: e i
documenti sono conservati parte nel pubblico archivio, parte in casa: e adesso,
eccoli qua. (Al segretario.) Presentali ad Emiliano: ne osservi il filo,
riconosca i sigilli, legga i nomi dei consoli e faccia il conto degli anni.
Gliene aveva assegnati sessanta. Ammesso che ne provi cinquantacinque, mentirebbe
per un lustro soltanto. È poco. Voglio essere più liberale ancora; poiché egli
ha elargito molti anni a Pudentilla, gli renderò in cambio dieci anni. Mezentio
ha errato con Ulisse. Che egli dia almeno la prova di questi cinquant'anni; per
finirla: giacché devo trattare con un quadruplicatore, moltiplico i cinque anni
per quattro e d'un sol colpo ne detraggo venti. Massimo, fai fare il computo
dei consoli: se non mi sbaglio, troverai che ora Pudentilla non ha passato di
molto i quarant'anni. Falsità audace! Menzogna meritevole di un esilio di venti
anni. Tu aggiungi di tuo la bagattella della metà; osi alterare i numeri di una
metà in più. Se tu avessi detto trent'anni invece di dieci, si potrebbe credere
che tu avessi sbagliato nelle mosse del calcolo, aprendo le dita che avresti
dovuto piegare in cerchio; ma quando il numero di quaranta che, più facilmente
degli altri, si indica colla palma protesa, quando il numero di quaranta tu
accresci della metà, l'errore non è più delle dita. Può essere tuttavia che tu,
credendo Pudentilla una giovane di trent'anni, abbia computato un anno per
ognuno dei due consoli. XC Ma di ciò basta. Vengo ora proprio alla base
dell'accusa, alla vera ragione del magico maleficio. Rispondano Emiliano e
Rufino, per quale emolumento - foss'io anche il più gran mago del mondo - avrei
con incantesimi e filtri costretto Pudentilla al matrimonio. So bene che molti
dei giudicabili, imputati di qualche misfatto, se anche potevasi dimostrare che
non eran mancate le ragioni del delitto, con questo solo argomento si sono
largamente difesi, dicendo che la loro vita era in contrasto con tal genere di
delitti, e che non doveva loro recar danno l'apparente interesse a delinquere.
Infatti non tutte le cose che potrebbero accadere sono da ritenersi accadute:
le vicende della vita non avvengono tutte d'un modo. Sicuro indizio è il
carattere di ciascuno. Una costante e naturale inclinazione al bene o al male,
è questo un saldo argomento per accogliere o respingere un'accusa. Queste cose
potrei a buon diritto giustamente ripetere: ma ve ne faccio grazia: io non mi
ritengo interamente purgato da tutte le vostre accuse sino a che possa rimanere
in qualche punto il più leggero sospetto di magia. Considerate bene con quanta
fiducia nella mia innocenza io agisca e con quanto disprezzo per voi. Si trovi
una causa, una minima causa di lucro che abbia potuto farmi appetire le nozze
di Pudentilla; si provi che io ne abbia ricevuto un qualsiasi modestissimo
vantaggio, ebbene, allora, io sia pure un Carmenda, un Damigerone, un Mosè, un
Ianne, un Apollobex, un Dardano e chiunque altro, dopo Zoroastro e Ostane, è
celebrato come mago. (Alla rievocazione dei più celebri maghi la parte
avversaria insorge protestando: e non è da escludere che anche parte del
pubblico abbia mostrato il suo malumore per questo che poteva sembrare un
appello alle potenze malefiche.) XCI Vedi, Massimo, quale schiamazzo hanno fatto perché ho
enunciato i nomi di alcuni maghi. Come comportarsi con gente così rozza, così
barbara? Dovrei loro ancora insegnare che questi nomi e molti altri ancora ho
letto nelle pubbliche biblioteche in opere di chiarissimi scrittori, oppure
dovrei sostenere che una cosa è conoscere i nomi delle persone, un'altra cosa è
praticarne le arti, e che lo studio e la cultura non devono essere considerati
come la confessione di una colpa? Oppure non sarà molto meglio che io mi affidi
alla tua scienza, Claudio Massimo, e alla tua compiuta erudizione, sdegnando di
rispondere a gente sciocca e incivile? Sì, sì: così è meglio. Pensino essi
quello che vogliono: non me ne importa nulla. Questo riprenderò a dimostrare:
che non ebbi nessun motivo per allettare Pudentilla al matrimonio con magiche
fatture. Dell'aspetto e dell'età della donna hanno parlato con
disprezzo, e mi hanno accusato di aver desiderato una donna né bella, né
giovane per avidità di denaro: e per ciò di averne estorto, appena uniti, una
grossa e proficua dote. Di fronte a tale accusa, Massimo, non intendo stancarti
con lunghi discorsi. Non c'è bisogno di parole, qui: il contratto nuziale parla
molto più eloquentemente; in esso tu trovi tutte le cose fatte e predisposte
con intenzioni contrarie a quelle che costoro, secondo la propria capacità,
attribuiscono anche a me; e dapprima trovi che l'assegnazione dotale è modesta,
sebbene sia ricchissima la moglie, e che non vi è costituzione reale, ma
soltanto obbligatoria della dote; inoltre c'è questa condizione matrimoniale,
che se Pudentilla passi di vita senza avermi dato figlioli, la dote intera
rimane ai due figli Ponziano e Pudente; se essa, prima del suo ultimo giorno,
lasci un figlio o una figlia, metà della dote viene al figlio del secondo
letto, il resto gli altri due. XCII Questo, dico, dimostrerò con gli atti alla mano.
Forse Emiliano neppure così crederà che soli trecentomila sesterzi siano stati
messi in contratto con il patto di riversibilità in favore dei figli di Pudentilla.
Prendilo tu stesso in mano, quest'atto, e passalo al tuo consigliere, a Rufino;
legga, si vergogni delle sue furie e della sua ambiziosa mendicità: lui,
povero, nudo, ha preso in prestito quattrocentomila sesterzi per dotare la
figlia; la ricca Pudentilla si contentò di una dote di trecentomila sesterzi ed
ha un marito che, dopo avere rifiutato in tante occasioni molte e ricche doti,
si è contentato di un meschino e illusorio titolo dotale. Perché egli,
all'infuori della moglie, non fa conto di altra cosa: e ogni corredo e ogni
ricchezza ripone nella concordia e nella pienezza dell'amore coniugale. D'altra
parte, quale uomo, che abbia un poco di esperienza, oserebbe incolpare una
vedova scarsa di bellezza ma non scarsa di anni che, volendosi rimaritare,
cercasse con la sua ampia dote e la sua vantaggiosa condizione di allettare un
giovane non sgradevole né di aspetto né di animo né di fortuna? Una vergine bella, se anche poverissima, è
copiosamente dotata: essa porta al marito la freschezza dell'anima, la grazia
della bellezza, la primizia del suo fiore. Giustamente, a ragione, a tutti i
mariti è graditissimo il pregio della verginità, perché qualunque altro bene tu
abbia ricevuto in dono, puoi, quando ti piaccia, per non sentirti obbligato,
restituire intero come l'hai ricevuto: rimborsare i denari, riconsegnare gli
schiavi, lasciare la casa, abbandonare i poderi; la sola verginità una volta
ricevuta, non si può rendere più; dei beni dotali essa sola resta al marito. La
vedova quale giunge nella casa del marito tale per divorzio se ne allontana.
Nulla porta che non si possa ridomandare. Essa viene, posseduta da un altro,
per nulla pieghevole ai tuoi voleri, sospettosa della nuova casa, siccome
sospettata è anche lei a cagione della sua prima separazione coniugale: perché
se essa ha perduto il marito, come donna di malaugurio e d'infausto connubio è
tutt'altro che desiderabile; se c'è stato ripudio, allora la colpa è della
donna tanto intollerabile da essere ripudiata o tanto insolente da ripudiare. Per
queste e per altre ragioni le vedove sollecitano i loro pretendenti con doti
più ricche. Pudentilla anch'essa l'avrebbe fatto con un altro marito, se non
avesse trovato un filosofo spregiatore di doti. XCIII Ebbene, se io avessi desiderato la donna per avidità
di denaro, non sarebbe stato più vantaggioso per me, allo scopo di impadronirmi
della sua casa, seminare discordia tra madre e figli, alienare dal suo animo
l'amore per le sue creature affinché io solo possedessi quella donna, così
isolata, con più libertà e intimità? Non sarebbe stata questa l'opera degna di
un predone, come voi immaginate che io sia? Invece, no. Della quiete, della
concordia, della tenerezza, io sono stato promotore, conciliatore, fautore e
invece che seminarne di nuovi, ho estirpato dalle radici i vecchi odî. Io
esortai mia moglie - della quale, come dicono costoro, avevo tranghiottito
tutte le sostanze - la esortai, dico, e finalmente la persuasi, a rendere ai
figli senza indugio il denaro ch'essi reclamavano - come sopra ho detto - : e
renderglielo in poderi, stimati a basso prezzo, quanto essi volevano; inoltre
la persuasi a donare del patrimonio suo fruttuosissimi campi e una grande casa
riccamente provveduta e una gran quantità di grano, di vino, di orzo, di olio e
di altri prodotti, e non meno di quattrocento servi e ancora mandrie numerose e
di non poco valore: perché fossero intanto con quell'assegno rassicurati ed
invitati con buona speranza al resto della successione. Pudentilla non voleva -
essa permetterà ch'io dica come avvenne la cosa - , io ottenni a fatica il suo
consenso, lo strappai, con grandi preghiere, alle sue riluttanze e alla sua
collera, riconciliai la madre con i figli, e per primo beneficio di patrigno,
ho arricchito di una considerevole somma i miei figliastri. XCIV Tutta la città conosce queste cose. Rufino esecrato
da tutti, io portato alle stelle. Prima che la donazione fosse legalmente
perfetta era venuto a trovarmi Ponziano, con codesto suo fratello, tanto
diverso da lui: e caduto ai miei piedi aveva chiesto perdono e dimenticanza di
tutto il passato: e piangeva e mi baciava le mani, tutto pentito di aver dato
ascolto a Rufino e ai suoi pari. Mi supplicò poi di farlo rientrare in grazia
dell'illustrissimo Lolliano Avito, a cui l'avevo da poco raccomandato, durante
il suo tirocinio oratorio: giacché aveva saputo ch'io lo avevo informato per
iscritto di tutto quanto era avvenuto. Lo contentai anche in questo. Pertanto,
avuta la lettera, se ne va a Cartagine, dove, quasi alla fine del suo proconsolato,
Lolliano Avito aspettava il tuo arrivo, Massimo. Lolliano legge la mia lettera
e, conforme alla sua esimia umanità, si congratula con Ponziano per l'errore
sollecitamente riparato e lo incarica di portarmi una lettera: ma che lettera,
buon Dio, e con quale dottrina, con quale grazia e amabilità e piacevolezza di
espressione! Insomma «il buon cittadino esperto della parola». So, Massimo, che
ascolterai volentieri quella lettera; e se potrò, voglio leggerla io stesso. (Al
segretario.) Dammi la lettera di Avito: essa mi fu sempre un titolo di
onore; adesso mi sia anche di salvezza. (Al custode della clepsidra.) E
tu lascia pure che l'acqua scorra. Questa lettera di quell'uomo eccellente io
voglio rileggerla, tre, quattro volte, con qualsiasi dispendio di tempo. (Lettura
della lettera.) XCV So bene che dopo questa lettera di Avito dovrei porre
termine al mio discorso. Quale più ricco lodatore, quale più illibato testimone
della mia vita, io potrei produrre, quale avvocato più eloquente? Molti oratori
di romana nominanza ho bene conosciuto nella mia vita, ma per nessuno ho avuto
pari ammirazione. Nessuno è oggi, siccome io penso, nel campo dell'eloquenza,
oggetto di lode e di speranza, che non preferisca di gran lunga essere Avito,
se con lui, senza ombra di gelosia, voglia compararsi: perché tutte le varie e
presso che opposte virtù dell'oratoria si accordano in quell'uomo. Qualunque
orazione Avito abbia composta, sarà essa in ogni sua parte così perfettamente
compiuta che né Catone sentirebbe mancanza di gravità, né Lelio di
scorrevolezza, né Gracco di impeto, né Cesare di calore, né Ortensio di ordine,
né Calvo di arguzie, né Sallustio di sobrietà, né Cicerone di abbondanza.
Insomma, per non nominarli tutti, quando si ascolta un discorso di Avito, non
si desidera aggiungere né togliere né mutare alcuna cosa. Vedo, Massimo, con quanta benignità tu ascolti queste
lodi che riconoscerai nel tuo amico Avito. La tua benignità mi ha invogliato a
dire di lui qualche cosa: ma io non voglio secondare la tua indulgenza fino a
permettermi, stanco come sono e ormai alla fine della causa, l'elogio delle sue
rare virtù, che preferisco riserbare a quando avrò più di forze e di tempo. XCVI Perché ora, mio malgrado, dal ricordo di tanto uomo
dovrò passare a questa peste. Tu vuoi dunque, Emiliano, opporti ad Avito? Quel
tale che Avito chiama buon cittadino, il cui carattere loda senza riserva
alcuna nella sua lettera, tu accuserai di magico maleficio? E ammesso che io
abbia invaso la casa di Pudentilla e la stia spogliando dei suoi beni, proprio
tu dovresti dolertene più di quanto non abbia fatto Ponziano, il quale, per un
disaccordo durato pochi giorni, eccitato naturalmente da voi, mi diede, in mia
assenza, soddisfazione presso Avito, e dinanzi a tanto uomo ebbe per me parole
di grazie? Supponi che io abbia letto il racconto di ciò che accadde in
presenza di Avito e non la sua lettera: che cosa potresti tu o quali cose
potrebbe un altro biasimare in questa faccenda? Ponziano stesso riconosceva che
quanto gli era stato donato dalla madre lo doveva a mia generosità: Ponziano
nel fondo del suo cuore si rallegrava di aver trovato in me un tale patrigno.
Magari egli fosse tornato incolume da Cartagine! Magari - poiché era questo il
suo destino - tu, Rufino, non gli avessi impedito di esprimere le sue ultime
volontà! Quali grazie non mi avrebbe egli reso o in persona o nel testamento!
Ma le lettere che egli mi indirizzò da Cartagine, lungo la via del ritorno,
quelle che ancora valido, quelle che ormai malato mi scrisse, piene di onore,
piene di amore, lascia, Massimo, che siano lette per un istante, affinché il
fratello suo, mio accusatore, sappia quanto poco egli sia compagno al fratello,
uomo di virtuosissima memoria, nel seguire il corso di Minerva. (Si leggono
le lettere di Ponziano.) XCVII Hai sentito le parole con le quali Ponziano, tuo
fratello, mi chiamava: suo padre, suo signore, suo maestro: tante volte fino
all'estrema ora della sua vita. Dopo di che potrei anche produrre alcune tue
lettere dello stesso tono, se le credessi degne del benché minimo indugio.
Piuttosto avrei tanta voglia di presentare il recente testamento di tuo
fratello, sebbene incompiuto, dove egli mi ricordò coi termini più riguardosi e
onorevoli. Ma quel testamento Rufino non permise che fosse redatto e compiuto,
per la mortificazione della perduta eredità, da lui valutata siccome compenso,
veramente assai salato, per le notti di quei pochi mesi in cui la sua figliola
fu moglie di Ponziano. Inoltre egli aveva consultato alcuni Caldei sui guadagni
che gli sarebbero venuti collocando la figlia: e risposero (così non fosse
stato vero!) che il suo primo marito in poco tempo sarebbe morto; gli altri
responsi intorno all'eredità, combinarono, com'è loro costume, secondo il desiderio
del consulente. Ma, grazie al cielo, a guisa di cieca bestia, rimase a gola
aperta inutilmente. Infatti Ponziano, conosciuta, per quel che valeva, la
figlia di Rufino, non solo non la lasciò erede, ma le fece un legato infamante,
un tessuto di lino di circa duecento denari, perché si capisse ch'egli l'aveva
rinnegata per disprezzo e non trascurata per dimenticanza. In questo
testamento, come nel primo, di cui si è data lettura, lasciò eredi la madre e
il fratello, contro il quale, come vedi, ancora ragazzo, Rufino fa avanzare
quella medesima catapulta della sua figliola, e mostra ed espone nel letto a
questo povero giovincello una donna, di molto più anziana, che poco fa era sua
cognata. XCVIII E il ragazzo si è lasciato accalappiare dalle carezze
cortigianesche della donna e dalle manovre ruffianesche del padre. Appena
spirato suo fratello, lasciata la madre, egli si trasferì in casa dello zio,
dove, senza di noi, i disegni di quella gente potevano avere più facile
successo. Emiliano è compare di Rufino; e desidera il buon affare. (Qualcuno
del pubblico assente: Apuleio raccoglie la interruzione.) Sì, è giusto: mi
ci fate pensare: quel bravo zio nella persona del nipote ripone e nutrisce le
proprie speranze, giacché egli sa che se il ragazzo muore intestato, egli ne
sarà l'erede, secondo la legge se non secondo giustizia. Sarebbe stato meglio
che questo rilievo non fosse venuto da me; non è conforme alla mia consueta
riservatezza svelare i taciti sospetti del pubblico: la colpa è di voi che avete
suggerito. Il fatto è che molti, Emiliano, si stupiscono per codesta tua
improvvisa amorevolezza verso questo ragazzo, dopo la morte del fratello
Ponziano, mentre prima gli eri talmente ignoto che neppure quando lo incontravi
eri capace di riconoscerne il volto. Ma ora sei così condiscendente con lui,
indulgi tanto ai suoi vizi, talmente lo assecondi in ogni cosa, da accreditare
ogni sospetto. Lo hai ricevuto da noi che era un bambino, ne hai fatto subito
un uomo malizioso; quando era sotto la nostra disciplina, frequentava le
scuole; ora ne scappa via per andare nei luoghi malfamati; schiva gli amici
seri; coi giovinastri della peggiore risma tra sgualdrine e bicchieri egli, un
fanciullo di quell'età, celebra i suoi festini. Lui rettore della tua casa; lui
padrone dei tuoi schiavi, lui re del convito; frequentatore assiduo della
scuola gladiatoria, si fa insegnare dallo stesso lanista il nome dei
gladiatori, i loro scontri, i loro colpi, assolutamente come un bravo ragazzo;
non parla mai che in punicio, se anche ritiene ancora dalla madre qualche
parola greca: parlare in latino non vuole né può. Hai sentito, Massimo, poco fa
- che vergogna! - il mio figliastro, il fratello di Ponziano, giovane facondo,
l'hai sentito che a mala pena chioccolava ad una ad una le sillabe, quando gli
domandavi se la madre avesse loro fatto quelle donazioni, che io dicevo dovute
al mio intervento. XCIX Vi prendo a testimoni, Claudio Massimo e voi signori
del Consiglio, e anche voi che siete con me presenti in tribunale, che di
queste rovine e vergogne morali responsabili sono lo zio e il candidato
suocero. Quanto a me sarò contento che un tale figliastro abbia scosso dal
collo il giogo della mia custodia e che non avrò più da intercedere per lui
presso la madre. Perché - me n'ero quasi quasi scordato - pochissimo tempo
addietro, dopo la morte di Ponziano, suo figlio. Pudentilla, malata, fece
testamento: ed io dovetti sostenere una lotta perché lei non diseredasse
l'autore di tanti clamorosi oltraggi e di tante ingiurie. Essa aveva già
scritto, ve lo assicuro, il motivo gravissimo della diseredazione; io la pregai
con insistenti preghiere che lo cancellasse: e per ultimo minacciai, se non
avesse consentito, che mi sarei separato da lei: supplicandola di accordarmi
questa grazia, di vincere col beneficio il cattivo figlio, di liberarmi da ogni
sospetto di ostilità. E così non desistei prima ch'ella avesse consentito. Mi
dolgo di aver tolto questa sollecitudine ad Emiliano e di avergli fatto questa
inattesa rivelazione. Guardalo, Massimo, te ne prego: vedi come a un tratto,
udite queste cose, è rimasto stupito, come tiene gli occhi a terra. Ben altro
egli si aspettava, e non a torto: ché sapeva la donna avvelenata dalle
contumelie del figlio e attaccata alla mia devozione. Egli aveva ragione di
temere anche di me. Chiunque, anche se noncurante - come sono io - di eredità,
non avrebbe rinunciato a vendicarsi di un figliastro così poco rispettoso. Una
sollecitudine principalmente li stimolò ad accusarmi: ch'io fossi istituito
erede universale. Non era così: ma essi lo pensavano, conforme alla loro
avarizia. Vi libero per il passato da questo timore. Nessuna occasione, né
quella della eredità né quella della vendetta, ha potuto smuovere l'animo mio.
Ho combattuto con una madre incollerita a favore del figliastro, io, patrigno,
come farebbe un padre a favore di un ottimo figlio contro la matrigna: né fui
contento finché non riuscii a trattenere, più di quanto l'equità non esigesse,
la generosa liberalità di una buona moglie nei miei riguardi. C (A un segretario.) Dammi il testamento fatto
dalla madre in favore del figlio che le si era già dichiarato nemico, fatto per
preghiera e sotto dettatura mia: cioè di questo predone, com'essi dicono.
Massimo fa' rompere i sigilli; troverai che il figlio è istituito erede; a me è
lasciata non so che piccola cosa, per semplice convenienza, acciocché, se le
fosse toccato qualche male, non mi mancasse il titolo di marito nel testamento
della moglie. (A Sicinio Pudente.) Prendilo, prendilo questo testamento
di tua madre, questo testamento davvero «inofficioso». Come no? È un testamento
dove il più devoto dei mariti è diseredato e si istituisce erede un figlio
inimicissimo. Ma che dico figlio? Eredi sono le speranze di Emiliano, le
vagheggiate nozze di Rufino, tutta un'associazione di briachi parassiti.
Prendilo, dico, tu, la perla dei figliuoli, e messe per un poco da parte le
lettere amatorie della madre, leggi piuttosto il suo testamento; se qualcosa
essa vi ha scritto con la mente traviata, la troverai qui: e per l'appunto
subito, alle prime parole: «Sicinio Pudente, figlio mio, è mio erede». Lo
confesso: chi leggerà questo, dirà che l'ha scritto un pazzo. Erede è questo
figlio che proprio durante i funerali del fratello, chiamata una banda di
giovinastri teppisti, volle cacciarti da quella casa che tu stessa gli avevi
donato; quel figlio che considerò grave ed acerba offesa che il fratello ti
abbia lasciata coerede con lui; che subito ti abbandonò nel lutto e nel dolore,
per correre dalle tue braccia materne a Rufino e ad Emiliano; che moltissime
volte poi ti oltraggiò di presenza con le parole e, aiutato dallo zio, coi
fatti; che portò in giro per i tribunali il tuo nome, che tentò di svergognare
pubblicamente il tuo pudore con le tue lettere, che accusò di un delitto
capitale il marito tuo, quello che tu avevi scelto, quello che, come lui stesso
ti rimproverava, tu amavi appassionatamente. Suvvia, apri, bravo figliuolo,
apri il testamento: così più agevolmente dimostrerai la pazzia della madre. CI Rifiuti, non vuoi? E già: ormai ti sei liberato da
ogni preoccupazione sulla materna eredità. Ma io, Massimo, questo testamento,
lo getto dinanzi ai tuoi piedi e attesto che d'ora innanzi non mi curerò di ciò
che Pudentilla scriverà nel suo testamento. Ci pensi lui per l'avvenire, come
gli piace, a scongiurare sua madre; a me non ha lasciato più possibilità di
intervenire in suo favore. Egli, ormai padrone di sé e uomo, siccome scrive
alla madre amarissime lettere, così cerchi lui stesso di placarne la collera:
chi è stato buono a incolpare, sarà buono a scolparsi. A me basta di avere
pienamente confutato le accuse mosse contro di me, non solo: ma di avere anche
estirpato dal fondo la radice di questo processo, cioè l'odioso sospetto di una
captata eredità. Ma, perché nulla sia trascurato, prima di finire, voglio
ribattere un'altra calunnia. Avete detto che io, con una forte somma
appartenente a mia moglie, ho comprato a mio nome un bellissimo podere. Dico
che si tratta di un poderetto di sessantamila sesterzi, che non io, ma
Pudentilla acquistò a suo nome: e il nome di Pudentilla è nel contratto e a
nome di Pudentilla si pagano le imposte. È qui il questore pubblico, cui è
stata pagata la somma, Corvinio Celere, rispettabile uomo; è presente anche il
tutore autorizzante di Pudentilla, uomo serio e scrupolosissimo, da nominare
con ogni riguardo, Cassio Longino. Chiedi, Massimo, quale acquisto egli abbia
autorizzato e con quale piccola somma, quella ricca donna, abbia comperato
questo piccolo campo. (Testimonianza di Cassio Longino e di Corvinio Celere.)
È così come ho detto? Il mio nome apparisce in qualche parte dell'atto di
compera? O forse ha destato sospetto il prezzo del poderetto o forse questo,
almeno, mi è stato trasmesso in proprietà? CII C'è qualcosa, ancora, Emiliano, che a tuo giudizio io
non abbia confutato? Della mia magia quale premio hai trovato? Perché avrei
piegato con incantesimi l'animo di Pudentilla? Per cavarne quale vantaggio?
Perché mi assegnasse una piccola anziché una ricca dote? Che splendidi
incantesimi! O perché stipulasse la riversibilità della dote in favore dei
figli invece che lasciarla in mio potere? Che c'è di più perfetto di una simile
magia? O perché dietro mia esortazione lasciasse ai figli quasi tutta la sua
sostanza, mentre, prima di sposarmi, nessuna largizione aveva loro fatto: e a
me lasciasse una piccolezza? Che grave veneficio, dovrei dire: o non piuttosto,
che ingrato beneficio? Oppure perché nel testamento che ella redasse adirata
contro il figlio, lasciasse erede il figlio che l'aveva offesa, anzi che me,
cui era obbligata? Certamente occorrevano di molti incantesimi per ottenere con
fatica questo bel risultato. Supponete che la causa non si tratti dinanzi a
Claudio Massimo, uomo giusto e pertinace nella giustizia, ma al suo posto
mettete qualche altro giudice perverso e crudele, che si compiaccia di accuse,
bramoso di condanne: dategli una pista da seguire, somministrategli un
piccolissimo pretesto per decidere secondo le vostre richieste, inventate
almeno qualche cosa, immaginare una risposta da dare alle sue domande. Poiché
ogni tentativo è necessario che muova da qualche causa, voi che accusate
Apuleio di aver assalito l'animo di Pudentilla con magiche seduzioni,
rispondete, spiegate per che cosa egli l'avrebbe fatto, che cosa voleva da lei.
La sua bellezza? Dite di no. Era avido delle sue ricchezze? Lo nega il contratto
di nozze, lo nega l'atto di donazione, lo nega il testamento, il quale dimostra
ch'egli non soltanto non ha cupidamente desiderato, ma che anzi ha rigidamente
respinto la liberalità della moglie. Quale altra causa c'è dunque? Perché
ammutolite, perché tacete? Dov'è quell'atroce esordio del vostro atto di accusa
formulato a nome del mio figliastro: «Io mi costituisco, o massimo, davanti a
te accusatore di quest'uomo...»? CIII Perché non aggiungi: accusatore del mio maestro, del
mio patrigno, del mio intercessore? E poi continuando: «... di quest'uomo reo
di moltissimi e manifestissimi malefîci». Dimmene uno solo di questi
moltissimi, di questi manifestissimi, dimmene uno solo, che lasci alcun dubbio
o per lo meno una certa oscurità. Quanto al resto delle vostre accuse, fai bene
il conto se non rispondo con due parole. «Ti lustri i denti». È pulizia.
«Guardi gli specchi»: un filosofo deve. «Componi versi». È lecito. «Esamini i
pesci»: Aristotele insegna. «Consacri un legno»: Platone consiglia. «Prendi
moglie»: la legge vuole. «È più anziana di te»: suole accadere. «L'hai fatto
per lucro». Prendi il contratto, ricorda la donazione, leggi il testamento. (Si
rivolge concludendo al proconsole.) Se tutte queste cose ho abbastanza
rintuzzato, se io ho messo la mia innocenza al riparo non solo di ogni accusa,
ma anche di ogni ingiuria, se l'onore della filosofia, che mi è più caro della
vita, non ho mai menomato, anzi al contrario se l'ho dovunque, come un invitto
gladiatore, mantenuto: se questo è così come dico, io posso con rispettosa
fiducia attendere la espressione della tua stima anziché temere la tua potestà;
perché la condanna del proconsole sarebbe per me cosa meno grave e temibile che
il biasimo di un uomo tanto degno e illibato. Ho detto. | |
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