Jacob Böhme (1575-1624)
di Francesco Ieiaiel
Ho ritenuto utile, con la pubblicazione di questa breve biografia, richiamare all’attenzione delle Sorelle e dei Fratelli del N.V.O. la figura del grande mistico Jacob Böhme, definito il “Filosofo Teutonico” il cui pensiero ebbe grande influenza nella formazione spirituale del N.V.M. Louis Claude de Saint Martin.
Ma come Saint Martin scoprì Jacob Böhme?
Nel 1778 il N.V.M. si recò a Strasburgo, ove conobbe la contessa Charlotte de Boecklin che divenne per lui, così come ebbe a dire, «un’amica impareggiabile».
Fu appunto questa amica impareggiabile che gli fece conoscere le opere del “Filosofo Teutonico”e lo aiutò anche a tradurle in francese.
Lo studio attento e meticoloso delle opere di Böhme avrà per Saint Martin un’importanza basilare per comparare, accostare e trovare la sintesi tra gli insegnamenti di Martines de Pasqually, suo primo Maestro, che utilizzavano l’operatività magico-cerimoniale, è quelli di questo grande mistico, insegnamenti che più si avvicinavano alla sua personale visione del sistema divinista.
E ciò a conferma, come invece alcuni storici del martinismo asseriscono, che Saint Martin mai rinnegò gli insegnamenti e l’operatività della scuola martinezista.
Louis Claude de Saint Martin pubblica la sua opera “L’uomo di desiderio” proprio in questo periodo (1790), ma l’influenza dello studio delle opere di Böhme lo porterà a riesaminarla periodicamente.
L’ultima stesura dell’ “Uomo di desiderio” sarà pubblicata ne 1802, cioè un anno prima della sua morte.
Pare che lo stesso Saint Martin abbia ammesso che se al tempo in cui scrisse quest’opera avesse conosciuto pienamente il pensiero di Böhme forse l’avrebbe scritta completamente differente.
Questo ci rende la misura dell’importanza che Saint Martin ascrisse alla filosofia di Böhme quale mezzo utile per la ricerca dei rapporti tra l’Uno e il Manifesto.
Jacob Böhme nacque nel 1575 nella borgata di Alt-Seidenberg, nei pressi di Gorlitz in Ober-Lausitz. Il padre Jacob e la madre Ursula erano dei poveri contadini.
Fin dalla sua giovinezza fu incaricato, insieme ad altri ragazzi del villaggio, di sorvegliare le greggi.
Un giorno, mentre si trovava al pascolo, si allontanò dai suo compagni. Arrampicandosi su di una collina chiamata “Landes-Cronc”, scorse una specie di porta formata da grandi pietre rosse; vi entrò e si inoltrò in un sotterraneo, al termine del quale si trovò dinanzi ad una grande quantità di denaro. Sentì allora un vento di terrore penetrare nel suo essere e non osò toccare niente; ritornò sui suoi passi e ridiscese precipitosamente la collina.
Quando ritornò sul luogo con i sui compagni, non riuscì a ritrovare l’entrata. Questa storia, da lui stesso raccontata, rappresenta forse simbolicamente la sua futura iniziazione ai segreti della magia naturale e divina.
I suoi genitori, avendo notato l’intelligenza del figlio e la sua natura dolce e spirituale, lo iscrissero a scuola, dove imparò a leggere e a scrivere.
Terminata la scuola lo mandarono da un amico ad apprendere il mestiere di calzolaio.
Nel 1594 si sposò con Catharina Kunschmanns, figlia di un beccaio di Gorlitz. Dal matrimonio nacquero quattro figli: il primo, divenne un orefice, il secondo, un calzolaio, e gli altri due furono operai.
Fin dalla sua fanciullezza, Jacob Böhme meditava spesso su un versetto del vangelo:
“Il Padre che è nei cieli darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiederanno” (Luca XI, 13).
Quel poco che Böhme aveva appreso di questioni teologiche, gli faceva desiderare ardentemente la conoscenza della verità, verso la quale egli aspirava incessantemente.
Dopo essere entrato in uno stato estatico, che durò una settimana, Jacob Böhme iniziò a studiare gli scritti dei santi patriarchi, dei profeti e degli apostoli, cercando di comprendere i misteri del regno di Dio.
L’estasi non fu né la prima né l’ultima esperienza “paranormale” vissuta da Jacob.
Tra queste c’è n’è una particolarmente interessante: un giorno, mentre stava lavorando in bottega, uno straniero un po’ malandato, anche se di bella presenza, venne a chiedere un paio di scarpe.
Jacob gliene offrì un paio ad un prezzo un poco più elevato di quello del suo valore reale. Lo sconosciuto pagò senza esitare, e se ne andò.
Quando giunse nel mezzo della strada, si fermò e gridò:
“Jacob! Vieni qui!”.
Il giovane apprendista, sebbene fosse spaventato dall'udire uno sconosciuto che lo chiamava per nome, uscì dalla bottega e lo raggiunse in mezzo di strada.
L’uomo gli prese la mano destra, e, fissandolo con occhi penetranti, gli disse con tono profondo:
"Jacob, tu sei umile, ma diverrai grande; diverrai un tutt'altro uomo; sicché il mondo stupirà di te. Sii dunque pio, temi Dio e onorane la parola; leggi sempre la Sacra Scrittura; vi troverai conforto ed istruzione, poiché occorrerà che tu soffra molto; ti troverai nel bisogno, nella povertà e sarai perseguitato.
Ma consolati e sii costante, in quanto tu sei amato da Dio ed Egli ti è favorevole!"
Ciò detto, lo straniero, lanciatogli ancora uno sguardo penetrante, gli strinse la mano e se ne andò.
Quella figura si scolpì profondamente nella memoria di Jacob, come pure le parole udite.
Da allora si applicò con rinnovato ardore nei suoi studi e nel perfezionare la sua condotta di vita.
Dopo questa esperienza seguì un nuovo periodo di estasi.
Quando Jacob ne uscì, abbandonò quasi completamente la vita comune; frequentava soltanto le chiese e le biblioteche, approfondendo lo studio dei testi sacri.
Tuttavia l'austerità della sua vita e la purezza dei suoi costumi mal si adattavano alla vita sociale e non fecero che suscitare odio e invidia da parte di coloro che lo circondavano; il suo padrone arrivò fino a licenziarlo.
Nel 1600, a venticinque anni di età, visse una nuova e intensa esperienza estatica.
Jacob era tormentato dal dubbio che le esperienze da lui vissute non fossero reali, ma frutto della sua fantasia.
Un giorno si recò a meditare nei campi chiedendo conferma a Dio delle esperienze mistiche che aveva vissuto.
Fu così che gli fu rivelata la segnatura degli esseri ed egli potette da allora decifrarne la natura interiore (come lo spiega nel suo libro De Signatura Rerum). Jacob fu preso da una grande gioia, ringraziò Dio dal profondo del cuore e non fece parola con nessuno dell’accaduto.
Dieci anni dopo i suoi sforzi furono nuovamente ricompensati: un nuovo stato di estasi donò a Jacob ulteriore conoscenza e saggezza.
Nel 1612 affidò ad un editore locale il manoscritto della sua prima opera, "L’Aurora nascente".
L’opera suscitò grande interesse ma anche molte polemiche, soprattutto da parte del curato di Corlitz, Cregorius Richter, il quale si scagliò così violentemente contro l’autore, da indurre lo scabino a citare Böhme dinanzi al suo tribunale: era venerdì 26 luglio 1613.
Alle imprecazioni bibliche con cui il curato di Gorlitz voleva fulminare Jacob Bohme, quest’ultimo rispondeva dichiarandosi pronto a far penitenza nel caso lo avesse offeso.
Gli scabini, impressionati da tutti questi anatemi, finirono per intimare al povero ciabattino l'ordine di lasciare la città all’istante, senza dargli neanche il tempo di salutare la famiglia.
Böhme accettò con serenità la sentenza; ma il giorno seguente, al mattino, lo andarono a cercare nelle campagne e lo ricondussero a casa sua.
Nel 1620, Jacob strinse amicizia con il Dr. Balthazar Walter di Gros-Glokau (Silesia). Il Dottore si stabili per più di tre mesi a casa di Jacob, periodo durante il quale gli impartì insegnamenti ampi e segretissimi. Questo dottore, che morì più tardi a Parigi, aveva viaggiato per anni in Arabia, in Siria ed in Egitto, dove era stato iniziato alla Scienza dei Magi.
Egli fece conoscere a Böhme le opere di Retchlin, di Riccius, di Pico della Mirandola, d'Angelo di Borgo-Nuovo; discussero insieme la filosofia dello Zohar e si lasciarono pieni di stima reciproca.
Nel frattempo il fragore suscitato dalla pubblicazione della sua prima opera si era diffuso in Sassonia e, il 9 maggio 1624, Jacob dovette recarsi a Dresda per sostenere un processo davanti ad una assemblea d'illustri scienziati, tra cui teologi, matematici e astrologi.
La profondità delle sue spiegazioni, la sua sincerità e la profonda saggezza delle sue parole, lasciarono tutti allibiti.
Il kurfurst stesso, che assisteva alla controversia, gli accordò da allora la sua protezione.
I1 manoscritto de “L'Aurora nascente” restò negli incartamenti del Consiglio fino al 26 novembre 1641, giorno in cui il borgomastro di Gorlitz, Dr. Paolo Scipio, seguendo il consiglio del ciambellano Georg von Pfluger, lo inviò ad Amsterdam, ad Abraham Villems von Beyerland.
Dopo aver scritto la sua prima opera, Jacob dovette attraversare un lungo e doloroso periodo di sette anni, durante i quali, come lui sostenne, la luce si era ritirata da lui.
I frutti di questo periodo tormentato li ritroviamo nei “Tre Principii” e nelle sue “Lettere”.
Jacob era un uomo di piccola statura e di aspetto poco gradevole; la fronte bassa, il cranio rialzato, il naso un poco ricurvo, occhi brillanti d'un grigio quasi azzurro; poca barba, voce debole, ma cordiale; i suoi atteggiamenti erano nobili, le sue parole sobrie, il suo contegno modesto.
Il sigillo che si era scelto rappresentava una mano elevante verso il cielo una verga con tre gigli.
Il suo motto era: "Unser Heil Im Beben Jesu Christi In Uns"; cioè: "La nostra salvezza in Gesù Cristo (che è) in noi".
Abbiamo visto che, nell'estate del 1624, Böhme era stato chiamato a Dresda dinanzi ad un areopago di sapienti.
Al suo ritorno a casa si ammalò gravemente di febbre.
Dovette mettersi a letto a partire da giovedì 7 novembre 1624; aveva dolori lancinanti al fianco sinistro enfiagione del ventre e dei piedi, affanno e alterazione delle urine; tutto faceva prevedere una fine imminente.
Il venerdì mattina del 15 novembre, fu chiamato il prete per somministrargli gli ultimi sacramenti.
La domenica, verso mezzanotte, sembrò svegliarsi e chiese al figlio Tobia se sentisse una bella musica, e, nonostante avesse ottenuto risposta negativa, fece aprire la porta per ascoltarla meglio.
Dopo poco cominciò a gridare: “O potentissimo Tzebaoth! Salvami secondo la tua volontà!”, ed ancora: “O Signore Gesù Cristo crocifisso! Abbi pietà di me e tienimi nel tuo regno!”.
Dopo di che espresse qualche preoccupazione sul futuro di sua moglie e disse che essa non gli sarebbe sopravvissuta per molto tempo (infatti morì nel 1626 curando gli appestati dell’ospedale del Dr. Kober).
Verso le sei benedisse la moglie ed i figli, poi, dicendo:
“Vado ora in Paradiso”esalò dolcemente l'ultimo respiro.
Articolo pubblicato nella rivista
LexAurea28,
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