Julius Evola

Vita e Morte delle Civiltà

 

Ove la tradizione mantenne tutta la sua forza, la dinastia o la successione dei re sacrali costituì un’asse di luce e di eternità nel tempo e la presenza vittoriosa del sovramondo nel mondo, la componente <<olimpica>>, che trasfigura l’elemento demoniaco del demos e dà un significato superiore a tutto ciò che è Stato, nazione e razza. E anche negli strati più bassi, il legame gerarchico creato da una dedizione cosciente e virile valeva come mezzo per una approssimazione e una partecipazione.

Infatti anche la semplice legge, dall’alto, rivestita di una autorità, era, per coloro che non potevano accendere a se stessi il fuoco sovrannaturale, un riferimento ed un sostegno di là dalla semplice individualità umana. In realtà, l’aderenza intima, libera e effettiva, di tutta una vita alle norme tradizionali, anche quando non era presente, a giusificarla, una piena comprensione della loro dimensione interna, faceva si che tale vita acquistasse oggettivamente un significato superiore: attraverso l’obbedienza e la fedeltà, attraverso l’azione conforme ai principi e ai limiti tradizionali, una forza invisibile le dava forma e la disponeva sulla stessa direzione di quell’asse sovrannaturale, che negli altri – nei pochi al vertice – viveva allo stato di verità, di realizzazione, di luce. Così si formava un organismo stabile ed animato, costantemente orientato verso il sovramondo, santficato in potenza e in atto secondo i suoi gradi gerarchici, in tutti i domini del pensare, del sentire, dell’agire, del lottare. In tale clima viveva il mondo della Tradizione. <<Tutta la vita esteriore era un rito, cioè una aprossimazione, in sede più o meno efficace, a seconda degli individui e dei gruppi, ad una verità che la vita esterna in sé non può dare ma che, se vissuta santamente, permette di realizzare in parte o integralmente. Questi popoli vivevano la stessa vita che essi avevano vissuto da secoli; essi facevano di questo mondo una scala per raggiungere la liberazione dal mondo. Questi popoli pensavano santamente, agivano santamente, amavano santamente, odiavano santamente, si uccidevano santamente – essi avevano scolpito un tempio unico in una foresta di templi, attraverso cui il torrente delle acque scrosciava, e questo tempio era il letto del fiume, la verità tradizionale, la sillaba santa nel cuore del mondo>>*1

         A tale livello, uscire dalla Tradizione significava uscire dalla vera vita; abbandonare i riti, alterare o violare le leggi, confondere le caste, significava retrocedere dal cosmos nel caos, ricadere sotto il potere degli elementi e dei <<totem>> - prender la <<via degli inferni>>>, dove la morte è una realtà, dove un destino di contingenza e di dissoluzione sovrasta ogni cosa.

         E ciò valeva sia pei singoli, sia pei popoli.

         Ad ogni considerazione storica appare che, come l’uomo, così pure le civiltà hanno, dopo un’aurora e uno sviluppo, un destino di decadenza e di fine. Vi è chi ha cercato di scoprire la legge che presiede ad un tale destino, la causa del tramonto della civiltà. Questa causa non potrà mai venir ricondotta a fattori puramente storici e naturalistici.

         Fra i vari scrittori, De Gobineau e colui che forse meglio ha saputo mostrare l’insufficienza della maggior parte delle cause empiriche addotte a spiegare il tramonto delle grandi cività. Così egli ha fatto vedere che per esempio una civiltà non crolla pel sol fatto che la sua potenza politica è stata spezzata o travolta. <<La stessa specie di civiltà talvolta persiste persino sotto una dominazione starniera, sfida gli avvenimenti più calamitosi, mentre altre volte in presenza di sventure mediocri, scompare>>. Non è nemmeno la qualità dei governi in senso empirico – cioè amministartivo-organizzatorio – ad avere molta influenza sulla longevità delle civiltà: come gli organismi, queste – nota sempre De Gobineau – possono anche resistere a lungo recando a sè infezione disorganizzatrici – e l’India, e ancor più, l’Europa fedale mostrano precisamente l’assenza di una organizzazione unica, un deciso pluralismo, nessuna economia o legislazione unitaria condizione di sempre risorgenti antagonismi – eppure una unità spirituale, la vita di un’unica tradizione. Nemmeno può considerarsi causa della rovina delle civiltà la cosidetta corruzione dei costumi, nel senso profano, moralistico-borghese. La corruzione dei costumi, al più, può essere un effetto, un segno, mai la causa stessa.. E quasi sempre va riconosciuto, con Nietzsche, che dovunque sorge la preoccupazione per una <<morale>>, là vi è già una decadenza*2 – il mos delle vichiane <<età eroiche>> mai ha avuto a che fare con limitazioni moralistiche. Specie la tradizione estremo-orientale ha messo ben in rilievo l’idea, che la morale e la legge in genere (in senso conformistico e sociale) sorgono là dove la <<virtù>> e la <<Via>> non sono iù conosciute: <<Perduta la Via, resta la virtù; perduta la virtù resta l’etica; perduta l’etica resta il diritto; perduto il diritto resta il costume. Il costume è solo l’esteriorità dell’etica e segna il principio della decadenza>>*3. Quanto poi alle leggi tradizionali, esse, nel loro carattere sacro e nella loro finalità trascendente, come avevano una validità, non-umana, così in nessun modo si potevano riportare al piano di una morale nel senso corrente. Nè l’antagonismo dei popoli, lo stato di guerra è da per sè causa della rovina di una civiltà: l’idea del pericolo, come quella della conquista, può ivece rinsaldare anche materialmente le maglie di una struttura unitaria, rinfocolare un’unità di spirito nelle manifestazioni esterne – mentre la pace ed il benessere possono condurre ad uno stato di tensione ridotta, il quale facilita l’azione delle cause più profonde di un possibile disfacimento*4.

         L’idea talvolta affermata dinanzi all’insufficienza di tali elementi esplicativi è quella della razza. L’unità e la purità del sangue sarebbero alla base della vita e della forza di una civiltà; la mescolanza del sangue sarebbe la causa iniziale della sua decadenza. Ma anche questa è una illusione: una illusione, che inoltre abbassa l’dea di civiltà al piano naturalistico e biologico, poiché questo è il piano su cui oggi più o meno si concepisce la razza. Razza, sangue, purità ereditaria di sangue sono semplice <<materia>>. Sorge una civiltà in senso vero, cioè trdizionale, solo quando su questa materia agisce una forza d’ordine superiore, sovrannaturale e non più naturale: quella forza, cui corrisponde appunto un funzione <<pontificale>>, la comprensione del rito, il principio della spiritualità come base della differenziazione gerarchica. All’origine di ogni vera civiltà sta un fatto <<divino>> (ogni grande civiltà ha avuto in proprio il mito di fondatori divini): onde nessun fattore umano o naturalistico potrà render veramente conto di essa. Ad un fatto dello stesso ordine, ma in senso opposto, degenerescente, si deve l’alternarsi e il tramnontare delle civiltà. Quando una razza ha perduto il contatto con ciò che solo ha e può fornire stabilità – col mondo dell’<<essere>> -; quando, dunque, in essa è decaduto anche quel che ne è l’elemento più sottile ma, in pari tempo, più essenziale, cioè la razza interiore, la razza dello sprito, di fronte alla quale la razza del corpo e dell’anima sono solo manifestazioni e mezzi di espressione*5 – gli organismi collettivi che essa ha formato, quale pur sia la loro grandezza e potenza, scendono fatalmente nel mondo della contingenza: sono alla mercè dell’irrazionale, del mutevole, dello <<storico>>, di ciò che riceve dal basso e dall’esterno le sue condizioni.

         Il sangue, la purità etnica, sono elementi che anche nelle civiltà tradizionali hanno il loro valore: valore, che però non è tale da permettere di usare per gli uomini i criteri per cui il carattere del <<puro sangue>> decide perentoriamente per le qualità di un cane o di un cavallo – come ad un dipresso hanno fatto alcune ideologie razziste moderne. Il fattore <<sangue>> o <<razza>> ha la sua importanza, perchè non è <<psicologicamente>> - nel cervello e nelle opinioni del singolo – ma nelle stesse forze più profonde di vita che le tradizioni vivono ed agiscono quali energie tipiche formatrici. Il sangue registra gli effetti di questa azione, epperò offre, attraverso l’eredità, una materia già affinata e preformata, tale che lungo le generazioni, realizzazioni simili, a quelle originarie siano preparate e possano svilupparsi in modo naturale e quasi spontaneo. E’ su questa base – su questa soltanto – che, come si vedrà, il mondo tradizionale spesso conobbe l’ereditarietà delle caste e volle la legge endogamica. Ma, per prendere la tradizone appunto là dove il regime delle caste fu più rigoroso, nella stessa società indo-aria il semplice fatto della nascita, benchè necessario, non appariva sufficiente: occorreva che la qualità conferita virtualmente dalla nascita venisse attualizzata dall’iniziazione, e si è già acennato che nel Manavadharmacastra si arriva ad affermare che, fino a quando non sia passato attraverso l’iniziazione o <<seconda nascita>>, lo stesso arya non è superiore al cudra; che tre speciali differenziazioni del fuoco divino facevano da anima ai tre pishtra irànici gerarchicamente più alti, l’appartenenza definitiva ai quali era parimenti controsegnata dell’iniziazione; e via dicendo. Così anche in questi casi non bisogna perder di vista la duplicità dei fattori, non bisogna mai confondere l’elemento formatore con l’elemento formato, la condizione col condizionato. Sia le caste superiori e le aristocrazie tradizionali, sia – più in generale -  le civiltà e le razze superiori (quelle che rispetto alle altre hanno la stessa posizione che le caste aventi una consacrazione hanno di fronte a quelle plebee, dei <<figli della Terra>>) non si spiegano col sangue ma, attraverso il sangue, con qualcosa che va di là del sangue stesso ed ha carattere metabiologico.

         E quando questo <<qualcosa>> ha veramente potenza, quando esso costituisce il nucleo più profondo e saldo di una società tradizionale, allora una società può mantenersi e riaffermarsi anche di fronte a mescolanze ed alterazioni etniche che non abbiano addirittura un carattere distruttivo, reagendo anzi sugli elementi eterogenei, fermandoli, riducendoli a poco a poco al proprio tipo o ritrapiantandosi al titolo, per così dire, di una nuova unità esplosiva. Anche in tempi storici non mancano esempi del genere: Cina, Grecia, Roma, Islam. Solo quando in una società la sua radice generatrice dall’alto non è più viva, e la sua <<razza dello spirito>> è prostrata o spezzata, solo allora – paralleleamente alla sua secolarizzazione ed umanizzazione – si inizia il suo tramonto*6. Ridottosi a tanto, le uniche forze su cui allora si può ancora contare sono quelle di un sangue che ancora porta con se atavicamente, per razza ed istinto, l’eco e l’impronta dell’elemento superirore dipartitosi: e solo a tale stregue la tesi <<razzista>> della difesa della purità del sangue può aver ragione d’essere – se non per impedire, almeno per ritardare l’esito fatale del processo di degenerescenza. Ma pervenire veramente questo esito non si può, senza un risveglio iterno.

         Considerazioni analoghe possono essere svolte per il valore e per la forza delle forme, dei principi e delle leggi tradizionali. In un ordine sociale tradizionale occorre che vi sia qualcuno nel quale il principio su cui poggiano, per gradi, i vari ordinamenti, le varie legislazioni e instituzioni dell’ethos e nel rito, sia veramente in atto, non sia un simulacro, ma realizzazione spirituale oggettiva: occorre cioè l’adeguazione di un individuo, o di una élite, alla funzione <<pontificale>> dei signori e dei mediatori delle forze dall’alto. Allora anche coloro che possono solo obbedire, che non possono assumere la legge se non attraverso l’autorità e la tradizione esteriore, intuiscono perchè debbono obbedire e la loro obbedienza – come si disse – non è sterile, essa permette loro una partecipazione effettiva alla forza e alla luce. Al modo intesso che quando una corrente magnetica è presente in un circuito principale si producono correnti indotte in altri circuiti distinti, se disposti sintonicamente – così pure in coloro che seguono la sola forma, il solo rito, con purità di cuore e con fedeltà, passa invisibilmente qualcosa della grandezza, della stabilità e della <<fortuna>> raccolte e vive nell’apice gerarchico. Ed allora la tradizione è salda, il corpo è uno, connesso in tutte le sue parti da un occulto vincolo più forte, di massima, delle contingenze esteriori.

         Ma quando al centro non vi è più che una funzione che sopravvive a se stessa, quando le attribuzioni dei rappresentanti dell’autorità spirituale e regale non sono più che nominali, allora il vertice si dissolve, il sostegno viene meno*7. Estremamente espressiva è la leggenda, secondo la quale le genti di Gog e Magog – che, come si è detto*8 possono simbolizzare forze caotiche e demoniache frenate dalle strutture tradizionali – insorgono nel punto in cui si accorgono che non vi è più nessuno che suona le trombe sulla muraglia con cui un tipo imperiale aveva loro sbarrato la via, che è solo il vento a produrre quel suono. Riti, istituzioni, leggi e costumi possono ancora sussistere per un certo tempo, ma il loro significato è perduto, la loro virtù è paralizzata. Sono cose abbandonate a sé stesse, abbandonate a sé stesse, secolarizzate, si sgretolano come argilla disseccata ad onta di ogni sforzo per mantenere dall’esterno, quindi per violenza, l’unità perduta; si sfigurano e si alterano sempre di più. Ma finchè ne resta un’ombra, e finchè nel sangue sussiste un’eco dell’azione dell’elemento superiore, l’edificio si sostiene, il corpo sembra avere ancora un’anima, il cadavere – secondo l’immagine usata dal De Gobineau – cammina e può ancora abbattere ciò che esso trovi sul proprio cammino. Quando l’ultimo residuo della forza dall’alto e della razza dello spirito è esaurito nelle generazioni, nulla più resta: nessun alveo dirige più la corrente, che si disperde in ogni direzione. Sopravviene l’individualismo, il caos, l’anarchia, l’hybris umanistica, la degenerazione, in tutti i domini. La diga è infranta. Resti pur l’apparenza di una grandezza antica – basta un minimo urto per far crollare uno Stato o un Impero. Ciò che può prenderne il posto sarà ala sua inversione arimanica, il Leviathan moderno onnipotente, un sistema collettivo meccanizzato e <<totalitario>>.

         Dai tempi della preantichità sino ad oggi – altra non è l’<<evoluzione>> che avremo da contrastare. Come vedremo: dal lontano mito della regalità divina, scendendo di casta in casta, si giungerà sino alle forme senza volto dell’attuale civiltà,, ove si ridesta rapidamente e paurosamente, in strutture meccanizzate, il demonismo del puro demos e del mondo delle masse.

 

*1 Espressioni di G. De Giorgio (Azione e contemplazione, in <<La Torre>>, n. 2, 1930)

*2 De Gobineau (Essai sur l’inégalité des races, tr. It., Roma, 1912, p. 24) scrive giustamente: <<Lungi dal poter scoprire nelle civiltà giovani una superiorità morale, io non dubito che le società, invecchiandosi, e per conseguenza avvicinandosi alla loro caduta, non presentino agli occhi del censore uno stato molto più soddisfacente>>.

 

*3 Lao-tze, Tao-te-ching, XXXVIII.

 

*4 Per le critica a queste presunte cause del tramonto delle civiltà: De Gobineau, Op. Cit., pp. 16-30, 37

 

*5 Per l’idea completa di razza e le relazioni fra razza e corpo, dell’anima e dello spirito cfr. La nostra opera: Sintesi di dottrina della razza, Milano, 1941

 

*6 Qui può essere presa in considerazione la tesi di A. J. Toynbee (A study of history, London, 1941), secondo cui, salvo poche eccezioni, non ci sono casi di civiltà che sono state uccise, difficoltà, pericoli, ambiente avverso, attacchi e perfino invasioni si risolvono in uno stimolo, in na sfida che costringe quella forza ad una reazione creativa. Nel che anzi il Toynbee vede, in genere, la condizione per l’affermarsi e lo svilupparsi delle civiltà,

 

*7 Secondo la tradizione indù (Manavadharmacastra, IX, 301-302), dallo stato dei re dipendo le quattro grandoi età del mondo, o yuga; e l’età oscura, kali-yuga, corrisponde a quella, in cui la funzione regale <<dorme>>; l’età aurea, a quella in cui il re riproduce ancora le azioni simboliche degli dèi ari.

 

*8 La leggenda secondo la quale l’imperatore Alessandro avrebbe sbarrato, con una muraglia di ferro, la via alle genti di Gog e Magog, le quali qui possono rappresentare l’elemento <<demoniaco>> soggiogato nelle gerarchie tradizionali: tali genti proromperanno un giorno alla conquista delle potenze della terra, ma saranno definitivamente affrontate da figure in cui, secondo le saghe medievali, si rimanifestrerà il tipo dei capi del Sacro Romano Impero. Nella tradizine nordica, i baluardi che proteggono <<la sede di mezzo>> - il Mitgard – dalle potenze elementari e che saranno travolti all’<<oscurità degli dèi>> - ragna rokkr – non esprimono diversa idea.

   

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