Julius Evola La Razza Iperborea e le sue Ramificazioni |
Il limite che si può dare alla nostra dottrina della razza in
fatto di esplorazione delle origini cade nel punto, in cui la razza iperborea
dovette abbandonare, ad ondate successive, seguenti itinerari diversi, la sede
artica, per via del congelamento che la rese inabitabile – nelle opere già
citate si è già accennato a quel che rende fondata l’idea, che la regione artica
sia diventata quella dei ghiacci eterni solo a partire da un determinato
periodo: i ricordi di quella sede, conservati nelle tradizioni di tutti i popoli
nella forma di miti varii, ove essa appare sempre come una “terra del sole”,
come un continente insulare dello splendore, come la terra sacra del Dio della
luce, e così via, sono già, nel riguardo, abbastanza eloquenti. Ora, nel punto
in cui si iniziarono le emigrazioni iperboree perisotiche, la razza iperborea
poteva considerarsi, fra tutte, quella superiore, la superrazza, la razza
olimpica riflettente nella sua estrema purità la razza stessa dello spirito.
Tutti gli altri ceppi umani esistenti sulla terra in quel periodo, nel
complesso, sembra che si presentassero o come “razze di natura”, cioè razze
animalesche, o come razze divenute, per involuzione di cicli razziali
precedenti, “razze di natura”. Gli insegnamenti tradizionali parlano in realtà
di una civiltà o di una razza antartica già decaduta al periodo delle prime
emigrazioni e colonizzazioni iperboree, i cui residui lemurici erano
rappresentati da importanti gruppi di razze negridi e malesiche. Un altro ceppo
razziale, distinto sia da quello iperboreo che da quello antartico-lemurico, era
quello che come razza bruno-gialla occupò originariamente il continente
eurasiatico (razza finnico-mongoloide) e che come razza rosso-bruna ed anche,
nuovamente, bruno-gialla occupò sia una parte delle Americhe che terre
atlantiche oggi scomparse.
Sarebbe evidentemente assurdo tentare una precisa tipologia di queste razze
preistoriche e delle loro combinazioni primordiali secondo caratteristiche
esterne. Ad esse ci si deve riferire solo per prevenire degli equivoci e potersi
orientare fra le formazioni etniche dei periodi successivi. Anche l’indagine dei
crani fossili può dirci ben poco, sia perché non dal solo cranio è
caratterizzata la razza, perfino la semplice razza del corpo, sia perché vi sono
ragioni per affermare fondatamente, che per alcune di tali razze dei residui
fossili non potettero conservarsi fino a noi. Il cranio dolicocefalo, cioè
allungato, unito ad un’alta statura e ad una slanciata figura, al colorito
biondo dei capelli, chiaro della pelle, azzurro degli occhi, è, come è noto,
caratteristico per gli ultimi discendenti delle razze nordiche direttamente
calate dalle regioni artiche. Ma tutto ciò non può costituire l’ultima parola;
anche a volersi limitare all’ordine positivo, bisogna far intervenire, per
orientarsi, le considerazioni proprie al razzismo di secondo grado. Infatti già
si è detto che per la razza l’elemento essenziale non è dato dalle semplici
caratteristiche corporee e antropologiche, ma dalla FUNZIONE e dal SIGNIFICATO
che esse hanno nell’insieme di un dato tipo umano. Dolicocefali di alta statura
e slanciata figura si trovano infatti anche fra le razze negridi, e colorito
bianco e occhi quasi azzurri si trovano fra gli Aino dell’Estremo Oriente e le
razze malesi, stando naturalmente, in tali razze, a significare tutt’altro; né
qui si deve pensare solo a delle anomalie o a scherzi della natura, in certi
casi potendosi trattare di sopravvivenze somatiche spente di tipi procedenti da
razze le quali, nel loro remotissimo periodo zenitale, potevano avere caratteri
simili a quelli che, nell’epoca da noi considerata, si trovarono invece
concentrati nell’elemento nordico-iperboreo e, qui, accompagnati, fino ad
un’epoca relativamente recente, dal significato e dalla razza interna
corrispondente.
Quanto alle emigrazioni delle razze di origine iperborea, avendo anche di esse
parlato nei libri già citati, limitiamoci ad accennare a tre correnti
principali. La prima ha presa la DIREZIONE NORD-OVEST SUD-EST raggiungendo
l’India e avendo come suoi ultimi echi la razza indica, indo-afgana e
indo-brachimorfa della classificazione del Peters. In Europa, contrariamente a
quel che si può credere, le tracce di tale grande corrente sono meno visibili o,
almeno, più confuse, perché si è avuta una sovrapposizione di ondate e quindi
una composizione di strati etnici successivi. Infatti, dopo questa corrente
della direzione nord-ovest sud-est (corrente nordico-aria trasversale), una
seconda corrente ha seguito la DIREZIONE OCCIDENTE-ORIENTE, in molti suoi rami
attraverso le vie del Mediterraneo, creando centri che talvolta debbonsi
considerare anche più antichi di quelli derivati dalla precedente ondata
trasversale, per il fatto che qui non sempre si trattò di una emigrazione
forzata, ma anche di una colonizzazione operata prima della distruzione o della
sopravvenuta inabitabilità dei centri originari della civiltà d’origine
iperborea. Questa seconda corrente, col relativo tronco di razze, possiamo
chiamarla ario-atlantica, o nordico-atlantica o, infine, atlantico-occidentale.
Essa proviene in realtà da una terra atlantica, in cui si era costituito un
centro che, in origine, era una specie di immagine di quello iperboreo. Questa
terra fu distrutta da una catastrofe, di cui parimenti si ritrova il ricordo
mitologizzato nelle tradizioni di quasi tutti i popoli, ed allora ale ondate dei
colonizzatori si aggiunsero quelle di una vera e propria emigrazione.
Si è detto che la terra atlantidea conobbe in origine una specie di fac-simile
del centro iperboreo, perché i dati fino a noi per giunti ci inducono a pensare
ad una involuzione sopravvenuta sia dal punto di vista della razza, sia dal
punto di vista della spiritualità, in questi ceppi nordici scesi già in epoche
antichissime verso il sud. Le mescolanze con gli aborigeni rosso-bruni sembrano,
nel riguardo, aver avuta una parte non indifferente e distruttiva, e se ne trova
un ricordo preciso nel racconto di Platone, ove l’unione dei “figli degli dèi” –
degli Iperborei – con gli indigeni è data come una colpa, in termini, che
ricordano quel che in altri ricordi mitici, viene descritto come “caduta” della
razza celeste – degli “angeli” o, di nuovo, dei figli degli dèi, ben elohim – la
quale si congiunse, ad un dato momento, con le figlie degli uomini (delle razze
inferiori) commettendo una contaminazione significativamente assimilata, da
alcuni testi, al peccato di sodomia, di commercio carnale con gli animali.
Il gruppo delle razze “arie”
Più recente di tutte è l’emigrazione della terza andata, che ha seguito la
DIREZIONE NORD-SUD. Alcuni ceppi nordici precorsero questa direzione già in
epoche preistoriche – sono quelli, per esempio, che dettero luogo alla civiltà
dorico-ahcea e che portarono in Grecia il culto dell’Apollo iperboreo. Le ultime
ondate sono quelle della cosiddetta “migrazione dei popoli” avvenuta al decadere
dell’Impero romano e corrispondono alle razze di tipo propriamente
nordico-germanico. A questo riguardo, devesi fare una osservazione molto
importante. Tali razze diffusesi nella direzione nord-sud discendono più
direttamente da ceppi iperborei che per ultimi lasciarono le regioni artiche.
Per tale ragione, essi spesso presentano, dal punto di vista della razza del
corpo, una maggiore purità e conformità al tipo originario, avendo avuto minori
possibilità di incontrare razze diverse. Lo stesso non può però dirsi dal punto
di vista della loro razza interna e delle loro tradizioni. Il mantenersi più a
lungo delle razze sorelle nelle condizioni di un clima divenuto particolarmente
aspro e sfavorevole non poté non provocare in loro una certa materializzazione,
uno sviluppo unilaterale di certe qualità fisiche ed altresì di carattere, di
coraggio, di resistenza, costanza e inventività, avente però come sua
controparte una atrofia del lato propriamente spirituale. Ciò si vede già presso
gli Spartani; in maggior misura, però, nei popoli germanici delle invasioni, che
noi possiamo continuare a chiamare “barbariche”; “barbariche”, però, non di
fronte alla civiltà romana degenerescente, in cui quei popoli apparvero, ma di
fronte ad un superiore stadio, da cui quelle razze erano ormai decadute. Fra le
prove di una tale interiore degerescenza, o oscuramento spirituale, sta la
relativa facilità con cui tali razze si convertirono al cristianesimo e poi al
protestantesimo; per questa ragione, i popoli germanici nei primi secoli dopo il
crollo dell’impero romano d’Occidente, fino a Carlomagno, non seppero opporre
nulla d’importante, nel dominio spirituale, alle forme crepuscolari della
romanità. Essi furono fascinati dallo splendore esteriore di tali forme, caddero
facilmente vittime del bizantinismo, non seppero rianimare quanto di
nordico-ario sussisteva, malgrado tutto, nel mondo mediterraneo, che per il
tramite di una fede inficiata, in più di un aspetto, da influenze razziali
semitico-meridionali, allorché esse, più tardi, dettero forma al Sacro Romano
Impero sotto segno cattolico. E’ così che anche dei razzisti tedeschi, come il
Günther, hanno dovuto riconoscere che, volendo ricostruire la visione del mondo
e il tipo di spiritualità proprio alla razza nordica, ci si deve meno riferire
alle testimonianze contenute dalle tradizioni die popoli germanici del periodo
delle invasioni – testimonianze frammentarie, spesso alterate da influssi
estranei o decadute nella forma di superstizioni popolari o di folklore – quanto
alle forme superiori spirituali proprie all’antica Roma, all’antica Ellade, alla
Persia e all’India, cioé di civiltà derivate dalle due prime ondate.
All’insieme delle razze e delle tradizioni generate da queste tre correnti,
trasversale l’una (ceppo degli ario-nordici), orizzontale l’altra (cepo degli
ario-germanici) si può applicare, non tanto per vera conformità, ma piuttosto in
base ad un uso divenuto corrente, il termine “ario” o “ariano”. Volendo prendere
in considerazione le razze definite dagli studiosi più noti e riconosciuti di
razzismo di primo grado, possiamo dire, che il tronco della razza aria, avente
alla sua radice quella iperborea primordiale, si differenzia nel modo seguente.
Vi è anzitutto, come razza bionda, il ramo chiamato in senso stretto “NORDICO”,
che alcuni differenziano in sottoramo TEUTONORDIDE, DALICO-FALICO,
FINNO-NORDICO; lo stesso ceppo nel suo miscuglio con le popolazioni aborigene
sarmate ha dato poi luogo al cosiddetto tipo EST-EUROPIDE e EST-BALTICO. Tutti
questi gruppi umani, dal punto di vista della razza del corpo, come si è
accennato, conservano una maggiore fedeltà o purità rispetto a ciò che si può
presumere esser stato il tipo nordico primordiale, vale a dire iperboreo.
In secondo luogo, debbonsi considerare delle razze già più differenziate
rispetto al tipo originario, sia nel senso di fenotipi di esso, vale a dire di
forme, a cui le stesse disposizioni e gli stessi geni ereditari han dato luogo
sotto l’azione di un ambiente diverso, sia di misto-variazioni, cioè, prodotte
da più accentuata mescolanza; si tratta di tipi, in prevalenza, bruni, di
statura più piccola, in cui al dolicocefalia non è di regola o non è troppo
pronunciata. Menzioniamo, utilizzando le terminologie più in voga, la cosiddetta
RAZZA DELL’UOMO DELL’OVEST (westisch), la RAZZA ATLANTICA che, come l’ha
definita il Fischer, è già da essa diversa, la RAZZA MEDITERRANEA, da cui, a sua
volta, si distingue, secondo il Peters, la varietà dell’uomo euroafricano, o
AFRICO-MEDITERRANEO, ove la componente oscura ha maggior risalto. La
classificazione del Sergi, secondo la quale queste due ultime varietà, più o
meno, coincidono, è senz’altro da rigettarsi e, dal punto di vista del razzismo
pratico, soprattutto di quello italiano, è fra le più pericolose. Parimenti
equivoco è il chiamare, col Peters, PELASGICA la razza mediterranea: in
conformità col senso che tale parola ebbe nella civiltà greca, bisogna
considerare il tipo pelagico, in un certo modo, a sé, soprattutto nei termini
del risultato di una degenerazione di alcuni antichissimi ceppi atlantico-ari
stabilitisi nel Mediterraneo prima dell’apparire degli Elleni. Specie dal punto
di vista della razza dell’anima si conferma questo significato dei “pelasgi”,
fra i quali rientra anche l’antica gente etrusca (Cfr. Bachofen, “La razza
solare” - studi sulla storia segreta dell’antico mondo mediterraneo, Roma 1940).
In un certo modo a sé sta la RAZZA DINARIDE, perché, mentre essa, in certi suoi
aspetti, è maggiormente vicina al tipo nordico, in altri mostra caratteri comuni
con la razza armenoide e desertica, e, come quella che alcuni razzisti
definiscono propriamente razza alpina o dei Vosgi, si mostra prevalentemente
brachicefala: segno di incroci avvenuti secondo altre direzioni. La RAZZA ARIA
DELL’EST (ostisch) ha, di nuovo, caratteri distinti, sia fisici che psichici,
per cui si allontana sensibilmente dal tipo nordico.
Non vi è nulla in contrario, dal punto di vista tradizionale, assumere nella
dottrina della razza di primo grado le precisazioni che i varii autori fanno nei
riguardi delle caratteristiche fisiche e, in parte, anche psichiche, di tutti
questi rami dell’umanità aria. Solo che sulla portata di tutto ciò non bisogna
farsi troppe illusioni, nel senso di stabilire rigidi limiti. Così, benché non
bianche né bionde, le razze superiori dell’Iran e dell’India, e benché non
bianchi, molti antichi tipi egizi possono rientrare senz’altro nella famiglia
aria. Non solo: autori come il Wirth e il Kadner, che hanno cercato di
utilizzare i recenti studi sui gruppi sanguigni per la ricerca razziale, sono
stati indotti a ritenere più vicini al tipo nordico primordiale alcuni ceppi
nord-amerricani pellirosse e alcuni tipi esquimesi, che non la maggior parte
delle razze arie indoeuropee ora accennate; e in quest’ordine di indagini, ad
esempio, risulta altresì, che il sangue nordico primordiale in Italia ha un
percento vicino a quello dell’Inghilterra, e decisamente superiore a quello dei
popoli ari germanici. Bisogna dunque non fissarsi su degli schemi rigidi, e
pensare che, salvo casi abbastanza rari, la “forma” della superrazza originaria,
più o meno latente, impedita o sopraffatta, o estenuata, sussiste nel profondo
di tutte queste varietà umane e, date certe condizioni, può tornare ad esser
predominante e ad informar di sé un dato tipo, che le si dimostri
corrispondente, anche là dove meno si potrebbe sospettare, cioè là dove gli
antecedenti, secondo la concezione schematica e statica della razza, avrebbero
invece fatto sembrar probabile l’apparizione di un tipo di razza, mettiamo,
mediterranea, o indo-afgana, o baltico-orientale. […]
Che cosa voleva dire “ario”
Veniamo ora al termine “ario”. Secondo la concezione oggi divenuta corrente, ha
diritto di dirsi “ario” chiunque non sia ebreo o di razza di colore, né abbia
avi di tali razze – in Germania, fino alla terza generazione. Per gli scopi più
immediati della politica razziale, questa veduta può avere una certa
giustificazione, nel senso di punto di riferimento per una prima
discriminazione. Su di un piano più alto, ed anche in sede storica, essa appare
invece insufficiente, già per il fatto, che essa si esaurisce in una definizione
negativa, indicante quel che non si deve essere, non ciò che si deve essere; per
cui, soddisfatta la condizione generica di non essere né negro, né Ebreo, né di
colore, egual diritto a dirsi ario avrebbe sia il più “iperboreo” degli Svedesi
che un tipo seminegroide delle regioni meridionali. D’altra parte, se si
confronta questo significato ridotto dell’arianità con quello che la parola ebbe
originariamente, vien quasi da pensare ad una profanazione, perché la qualità
aria, in origine, coincideva essenzialmente con quella che, come si è accennato,
la ricerca di terzo grado può attribuire a schiere della razza restauratrice,
della “razza eroica”. Quindi il termine “ario” nella sua concezione corrente
odierna non può accettarsi che ai fini della circoscrizione e separazione di una
zona generale, all’interno della quale dovrebbe però aver luogo tutta una serie
di ulteriori differenziazioni, qualora ci si voglia avvicinare, sia pure
approssimativamente, al livello spirituale corrispondente al significato
autentico e originario del termine in questione.
Il razzismo – è vero – nelle sue propaggini filologiche si è dato ad una ricerca
comparativa di parole, che nell’insieme delle lingue indoeuropee contengono la
radice ar di “ario” ed esprimono più o meno qualità di un tipo umano superiore.
Herus in latino e Herr in tedesco significano “signore”, in greco aristos vuol
dire eccellente e areté virtù; in irlandese air significa onorare e nell’antico
tedesco la parola era vuol dire gloria – come in quello moderno Ehre vuol dire
onore, ecc., e tutte queste espressioni, come varie altre, sembrano appunto
trarsi dalla radice ar di ario. Inoltre questa stessa radice il razzismo ha
creduto di ritrovarla anche in Eran, antico nome per la Persia, in Erin e Erenn,
antichi nomi dell’Irlanda, oltre che in molti nomi propri che ricorrono
frequentissimi nelle antiche stirpi germaniche. Tuttavia, da un punto di vista
rigoroso, il termine “ario” – da arya – con certezza può solo esser riferito
alla civiltà dei conquistatori preistorici dell’India e dell’Iran. Nello
Zend-Avesta, testo dell’antica tradizione iranica, la patria originaria delle
stirpi, a cui tale tradizione fu propria, è chiamata airyanem-vaejo,
significante “seme della gente aria” e dalle descrizioni che se ne danno risulta
chiaramente, che essa fa tutt’uno con la sede artica iperborea. Nella
inscrizione di Behistun (520 a.C.) il gran Re Dario parla così di sé stesso:
“Io, re dei re, di razza aria” e gli “arii”, a loro volta, nei testi
s’identificano alla milizia terrestre del “Dio di Luce”: cosa che ci fa già
apparire la razza aria in un significato metafisico, come quella che, senza
tregua, in uno dei varii piani della realtà cosmica, lotta incessantemente
contro le forze oscure dell’anti-dio, di Arimane.
Questo concetto spirituale dell’arianità si precisa nella civiltà indù. Nella
lingua sanscrita ar significa “superiore, nobile, ben fatto” ed evoca anche
l’idea di muovere come ascendere, portarsi in alto. Con riferimento alla
dottrina indù dei tre duna, una tale idea propizia ravvicinamenti interessanti.
La qualità “ar” va cioè a corrispondere a rajas, che è la qualità delle forze
ascendenti, superiore e opposta a tamas, che è la qualità, invece, di tutto ciò
che cade, che va verso il basso, mentre qualità superiore a rajas è sattva, la
qualità propria a “ciò che è” (sat) in senso eminente – si potrebbe dire, al
principio solare nella sua olimpicità. Ciò può dunque dare un senso del “luogo”
metafisico proprio alla qualità aria. Da questa radice ar, arya come aggettivo
indica poi le qualità di esser superiore, fedele, ottimo, stimato, di buona
nascita; e come sostantivo designa “chi è signore, di nobile stirpe, maestro,
degno di onore”: sono deduzioni in sede di carattere, in sede sociale e, infine,
di “razza dell’anima”.
Ciò dal punto di vista generico. In senso specifico arya però era essenzialmente
una designazione di casta: si riferiva collettivamente all’insieme delle tre
caste superiori (capi spirituali, aristocrazia guerriera e “padri di famiglia”
quali proprietari legittimi, con autorità su di un certo gruppo di consanguinei)
nella loro opposizione alla quarta casta, alla casta servile degli sudra – oggi
forse si dovrebbe dire: alla massa proletaria.
Ora, due condizioni definivano la qualità aria: la nascita e l’iniziazione. Ari
si nasce – tale è la prima condizione. L’arianità, su tale base, è una proprietà
condizionata dalla razza, dalla casta e dall’eredità, essa si trasmette col
sangue da padre a figlio e da nulla può esser sostituita, così come il
privilegio che, fino ad ieri, in Occidente aveva il sangue patrizio. Un codice
particolarmente complicato, sviluppante una casistica fin nei più minuti
dettagli, conteneva tutte le misure necessarie per preservare e mantenere pura
questa eredità preziosa e insostituibile, considerando non solo l’aspetto
biologico (razza del corpo) ma anche quello etico e sociale, il contegno, un
dato stile di vita, diritti e doveri, quindi tutta una tradizione di “razza
dell’anima”, differenziata poi per ciascuna delle tre caste arie.
Ma se la nascita è la condizione necessaria per essere ari, essa non è anche
sufficiente. La qualità innata va confermata per mezzo dell’iniziazione,
upanayana. Come il battesimo è la condizione indispensabile per far parte della
comunità cristiana, così l’iniziazione rappresentava la porta attraverso la
quale si entrava a far parte effettiva della grande famiglia aria. L’iniziazione
determina la “seconda nascita”, essa crea il dvija, “colui che è nato due
volte”. Nei testi, arya appare sempre come sinonimo di dvija, rinato, o nato due
volte. Per cui, già con questo si entra in un dominio metafisico, nel campo di
una razza dello spirito. La razza oscura, proletaria – sudra-varna – detta anche
nemica – dasa – non-divina o demonica – asurya-varna – ha solo una nascita,
quella del corpo. Due nascite, l’una naturale, l’altra sovrannaturale, urànica,
ha invece l’arya, il nobile. Come in varie occasioni l’abbiamo ricordato, il più
antico codice di leggi arie, il Manavadharmasastra, va fino al punto di
dichiarare, che chi è nato ario non è veramente superiore allo sudra, al servo,
prima di esser passato attraverso la seconda nascita o quando la sua gente abbia
metodicamente trascurato il rito determinante questa nascita, cioè
l’iniziazione, l’upanayana (*).
Ma vi è anche la controparte. Atto e qualificato a ricevere legittimamente
l’iniziazione, in via di principio, non è chiunque, ma solo chi è nato ario.
Impartirla ad altri è delitto. Ci troviamo dunque di fronte ad una concezione
superiore e completa della razza. Essa si distingue dalla concezione cattolica,
perché ignora un sacramento atto a somministrarsi a chiunque, senza condizioni
di sangue, razza e casta, tanto da condurre ad una democrazia dello spirito. In
pari tempo, essa supera anche il razzismo materialistico, perché, mentre si
soddisfa alle esigenze di esso ed anzi si porta il concetto della purità
biologica e della non-mescolanza fino alla forma estrema relativa alla casta
chiusa, l’antica civiltà aria riteneva insufficiente la sola nascita fisica:
aveva in vista una razza dello spirito, da raggiungere – partendo dalla salda
base e dall’aristocrazia di un dato sangue e di una data eredità naturale – per
mezzo della ri-nascita, definita dal sacramento ario. Ancor più in alto, la
TERZA NASCITA, o, per usare la designazione corrispondente delle tradizioni
classiche, la resurrezione attraverso la “morte trionfale”. Come supremo ideale,
l’antico ario considerava infatti la “via degli dèi” – deva-yana – detta anche
“solare” o “nordica”, lungo la quale si ascende e “non si ritorna”, non la “via
meridionale” del dissolversi nel ceppo collettivo di una data stirpe, nella
sostanza confusa di nuove nascite (pitr-yana): cosa che già basta per
immaginarsi in che conto l’uomo ario poteva avere la cosiddetta rincarnazione,
concezione, questa, che, come si è detto, fu propria a razze estranee,
prevalentemente “telluriche” o “dionisiache”.
L’elemento solare ed eroico della antica razza aria
La doppia condizione della qualità aria fa capire, che queste antiche civiltà
presupponevano una specie di eredità sovrannaturale latente nella razza aria del
sangue, eredità, che però doveva esser ridestata e portata dalla potenza all’atoo
caso per caso, affinché il singolo potesse farla davvero cosa sua. Questo era il
significato generale del sacramento ario nelle sue forme più alte. Considerando
però l’àpice della gerarchia aria, si può vedere facilmente che la qualità
primordiale latente da ridestare corrisponde essenzialmente a quella della
“razza solare” e che, quindi, l’ario, come colui che a tale razza appartiene
potenzialmente, ma che tuttavia deve riconquistarla o restaurarla quale singolo,
presenta esattamente i tratti della razza da noi tecnicamente definita “eroica”.
Come si è accennato, la casta aria si ripartiva in altre tre e la più alta
l’abbiamo detta dei “capi spirituali”, giacché questa espressione previene molti
equivoci e ci permette anche di evitare il problema alquanto complesso dei
rapporti che nelle antiche società arie d’origine iperborea esistevano fra la
casta sacerdotale – brahman – e quella guerriera – kshatram. La maggior parte
degli orientalisti, nel riferirsi alla prima là dove essa effettivamente
rappresentò il vertice della gerarchia aria, credono di vedervi una specie di
supremazia sacerdotale, cosa effettivamente errata. Anzitutto sembra risultare
dalle più antiche testimonianze che la casta sacerdotale in origine faceva
tutt’uno con quella guerriero-regale, in piena corrispondenza con l’ufficio
originario della “razza solare”. In secondo luogo, anche a prescindere da ciò e
a limitarsi al soli brahmana (ai componenti della casta dei brahman) come capi
ari, non si può pensare ad una società retta da “sacerdoti” e asservita ad isee
“religiose”, come gli uni e le altre vengono concepiti nella religione europea.
Ciò, per due ragioni.
Anzitutto perché vi era l’anzidetta condizione del sangue. Peer ragioni varie,
la Chiesa dovette imporre al clero il celibato, col che si rese impossibile una
base razziale e ereditaria per la dignità sacerdotale. Secondo la veduta
cattolica – e ancor più secondo quella protestante – per divenire sacerdote
basta la “vocazione” (concetto, qui, piuttosto vago), certi studi affini alla
filosofia e l’ossequio a certi precetti morali: non è richiesto esser di razza
di sacerdoti per esser ordinati sacerdoti. Questo è il primo punto.
In secondo luogo, l’antica élite aria come “razza solare” ignorava la distanza
metafisica fra un Creatore e la creatura. I suoi rappresentanti non apparivano
come mediatori del divino (cioè nella funzione che ha il sacerdote nelle civiltà
lunari), bensì come essi stessi nature divine. La tradizione li descrive come
dominatori non solo di uomini, ma anche di potenze invisibili, di “dèi”. Fra i
molti testi riprodotti nel nostro libro già spesso ricordato, a tale riguardo,
vi è p. es. questo: “Noi siamo dèi, voi [soltanto] uomini”. Essi sono nature
luminose e vengono paragonati al sole.Sono costituiti “da una sostanza ignea
radiante”, costituiscono l’ “apice” dell’universo e “sono oggetto di venerazione
da parte delle stesse divinità”. Non sono gli amministratori di una fede, ma i
possessori di una scienza sacra. Questa conoscenza è potenza e forza
trasfigurante. Agisce come un fuoco, che consuma e che distrugge tutto ciò che
per altri nele azioni potrebbe significare colpa, peccato, costrizione – è
qualcosa di simile al nietzschiano “al di là del bene e del male”, ma su di un
piano trascendente, non da superuomo “bionda bestia” ma da superuomo “olimpico”.
Poiché essi “sanno” e “possono”, questi capi arii non hanno bisogno di
“credere”, non conoscono dogmi, nel dominio delle conoscenze tradizionali essi
sono infallibili.
E come non hanno dogmi, essi nemmeno costituiscono una “chiesa”; esercitano
direttamente, di persona, la loro autorità; non hanno pontefici da venerare,
perché, in un certo modo, ogni esponente legittimo della loro casta è un
“pontefice”, nel senso originario della parola. Pontefice è colui che fa i
ponti, che stabilisce i contatti fra due rive, fra due mondi – fra l’umano e il
superumano. Esattamente perché questa era la funzione propria al brahman; e
poiché in una civiltà orientata in senso eminentemente eroico e metafisico, come
era il caso di quella dell’antica arianità, una tale funzione appariva di
suprema utilità ed efficacia – per questo il capo spirituale, o brahmana,
incarnava agli occhi delle altre caste arie, per tacere di quelle servili
non-arie, una autorità illimitata e supremamente legittima.
Lo strumento “pontificale” – cioè di “collegamento” – per eccellenza (in
origine, prerogativa regale), era il RITO. Anche circa il rito dovremmo, qui,
ripetere cose da noi già dette in più di una occasione. Il rito per l’uomo
antico non era una vuota e superstiziosa cerimonia. Vi si esprimeva invece una
attitudine virile e dominatrice di fronte al supersensibile, giacché, mentre la
preghiera è un chiedere, il rito, secondo questa veduta, è un comandare e un
determinare. Il rito è una specie di “tecnica divina”, che si distingue da
quella moderna, pel fatto che non agiva in base alle leggi esterne dei fenomeni
naturali ma influiva sulle cause supersensibili di essi; in secondo luogo,
perché la sua efficacia era condizionata da una forza speciale e oggettiva,
supposta in chi doveva eseguire il rito. La mentalità moderna, che vede tutto al
rovescio, inclina notoriamente a riportare i riti alle pratiche superstiziose
dei selvaggi. La verità è invece, che le pratiche dei selvaggi non sono che le
forme degenerescenti dei veri riti, i quali sono da spiegarsi e da capirsi su
tutt’altra base.
Ora, se già nel modo di apparire come brahmana dela suprema casta aria sono
presenti tutti questi tratti, abbiamo ragioni sufficienti per ammettere che
nelle origini, ove il brahman e lo kshatram – l’elemento sacerdotale e quello
guerriero o regale – facevano tutt’uno, la civiltà degli Iperborei scesi verso
il Sud aveva al proprio centro esattamente ciò che noi abbiamo definito
spiritualità olimpica o solare e che questa tradizione permase nelle fasi
successive, di parziale oscuramento di tale civiltà, per mezzo di restaurazioni
di tipo “eroico” in una élite o casta di capi spirituali. Una indagine delle
testimonianze corrispondenti della più antica civiltà greca e romana condurrebbe
agli stessi risultati. L’elemento solare e regale, il senso della comunità di
origine e di vita con gli enti divini sono tratti in essa parimenti presenti.
Perciò, riassumendo, se lo si vuole spiegare con le vedute e le tradizioni
proprie alle civiltà, alle quali appartenne in via rigorosa e provata, il
termine “ario” si riferisce anzitutto, in generale, ad una “razza dello spirito”
di origine iperborea impegnata in una specie di lotta metafisica e avente in
proprio uno speciale ideale dell’Imperium – il capo, come “re dei re” (Iran);
più in particolare, nella sua estrema purezza, esso comprende in primo luogo
l’ideale di un’alta purità biologica e di una nobiltà della razza del corpo; in
secondo luogo l’idea di una razza dello spirito, di tipo “solare”, con tratti
sacrali e simultaneamente regali e dominatori: razza di veri superuomini, di
fronte a tutto ciò che di materialistico, di evoluzionistico e di “prometeico”
si trova invece nelle concezioni moderne del superuomo – anche a prescindere,
che queste altro non sono che “filosofia”, che teorie e imaginazioni formulate
da persone la cui razza, quasi sempre, è tutt’altro che in ordine.
Se l’indagine relativa all’aristocrazia aria dei tempi primordiali ci porta a
tali altezze, venir, da esse, alle esigenze pratiche del problema attuale della
razza non è certo agevole. Il mondo spirituale che la considerazione di terzo
grado riporta alla luce mediante un esame adeguato delle tradizioni e dei
simboli antichi e vede essenzialmente congiunto al più altpo retaggio
ario-iperboreo, per molti “ari” di oggi può sembrare inusitato e fantastico, per
altri addirittura incomprensibile. Richiamare in vita significati, che millenni
di storia han sepolto nei più profondi strati della subcoscienza, a che essi
destino forme nuove di sensibilità, non può accadere dall’oggi al domani e, in
ogni caso, è un’opera che va associata ai compiti del razzismo pratico di primo
e di secondo grado, essendo necessario rimuovere in pari tempo ostacoli e
deformazioni che paralizzano, per così dire, perfino fisicamente, la possibilità
di ogni ritorno all’antico spirito ario.
Come pur stiano le cose, è esenziale che l’espressione “ario” oggi non decada in
una vuota parola d’ordine e sia la semplice designazione di chiunque non sia
proprio negro, ebreo o mongolo. Occorre tener sempre presenti i supremi punti di
riferimento, i concetti-limite, le linee di vetta, perché è da esse che dipende
il senso di tutoo lo sviluppo, a partir dai primi gradi di esso. Ed anche a tale
riguardo può avvenire una scleta delle vocazioni: il senso di qualcosa che,
oggi, appare come una vetta lucente in mitiche irraggiungibili lontananze,
mentre può paralizzare gli uni e indurli a “non perder tempo” in fantasticherie
anacronistiche, può destere negli altri una tensione creatrice, suscitatrice di
superiori possibilità.
(*) R. Guénon, in Etudes traditionelles, n. Marzo del 1940 ha giustamente
rilevato che l’iniziazione delle caste ariane non va confusa con l’iniziazione
in senso assoluto – diksha: ma la prima si può dire che già contiene la
potenzialità della seconda, la quale peraltro può realizzarsi, nella gran parte
dei casi, al momento della morte concepita come “terza nascita” (vedi qui e pag.
139 [nell’ediz. del 1994. Ndc.]). L’iniziazione di casta è così paragonabile al
sacramento cristiano del battesimo, cui si attribuisce un certo potere
trasformativi, ma che viene distinto dalla “seconda nascita” in senso mistico.
Resta così, in ogni caso, il valore di un “sacramento” – e inoltre è possibile
che ad esso, in tempi più antichi, corrispondesse proprio un rito iniziatico
vero e proprio.