Julius Evola La Dottrina delle Quattro Età |
Se l'uomo moderno fino a ieri aveva concepito e esaltato come
una evoluzione il senso della storia a lui nota, la verità conosciuta dall'uomo
tradizionale è stata l'opposta. In tutte le antiche testimonianze dell'umanità
tradizionale si può sempre ritrovare, nell'una o nell'altra forma, l'idea di un
regresso, di una caduta: da stati superiori originari gli esseri sarebbero scesi
in stati sempre più condizionati dall'elemento umano, mortale e contingente. Un
tale processo involutivo avrebbe preso inizio in tempi lontanis-simi e il
termine èddico ragna-ròkkr, "oscuramento degli dèi", è quello che meglio lo
caratterizza. Né si tratta di un insegnamento che nel mondo tradizionale sia
restato in una forma vaga e generica: esso si definì invece in una dottrina
organica, ritrovabile essa stessa con un largo margine di uniformità, nella
dottrina delle quattro età. Un processo di decadenza graduale lungo quattro
cicli o "generazioni" - tale è, tradizionalmente, il senso effettivo della
storia, epperò anche quello della genesi di ciò che, in universale, abbiamo
chiamato "mondo moderno". Questa dottrina potrà dunque servire da base a quel
che segue.
La forma più nota nella dottrina delle quattro età è quella propria alla
tradizione greco-romana. Esiodo parla appunto di quattro ere, controsegnate dai
metalli oro, argento, bronzo e ferro, inserendo poi fra le due ultime una quinta
èra, l'èra degli "eroi", che però si vedrà aver solo il significato di una
parziale e speciale restaurazione dello stato primordiale (1). La tradizione
indù ha la stessa dottrina nella forma di quattro cicli chiamati rispettivamente
satyà-yuga (o krtà-yuga), tretà-yuga, dvdpara-yuga e kali-yuga (cioè "età
oscura") (2), insieme all'imagine del venir meno, in ciascuna di esse, di
ciascuno dei quattro piedi o sostegni del toro simboleggiante il dharma, la
legge tradizionale. La redazione irànica è affine a quella ellenica: le quattro
età sono conosciute e controsegnate da oro, argento, acciaio e "mescolanza di
ferro" (3). L'insegnamento caldaico riprende tale veduta quasi negli stessi
termini.
In particolare, più recentemente s'incontra l'imagine del carro dell'universo
come una quadriga che. condotta dal dio supremo, è trasportata in una corsa
circolare da quattro cavalli raffiguranti gli elementi: le quattro età
corrispondono al successivo prevalere di ciascuno di tali cavalli, che allora
trascina con sé gli altri, secondo la natura simbolica, più o meno luminosa e
rapida, dell'elemento di cui esso è la figurazione (4). Per quanto in una
trasposizione speciale, la stessa concezione riappare nella tradizione ebraica,
nel profetismo parlandosi di una statua splendente, la cui testa è d'oro, il cui
petto e le cui braccia sono d'argento, il ventre e le cosce di rame, e le gambe
e i piedi di ferro e argilla: statua, che rappresenta, nelle varie parti così
divise, quattro "regni" che si succedono a partir da quello aureo del "re dei
re" che ha ricevuto "dal dio del cielo potenza, forza e gloria" (5). Se per
l'Egitto si sa già della tradizione riferita da Eusebio circa tre distinte
dinastie, formate rispettivamente da dèi, semidei e mani (6), in ciò può aversi
l'equivalente delle tre prime età - da quella dell'oro a quella del bronzo - di
cui sopra. Così pure, se le antiche tradizioni azteche parlano di cinque soli o
cicli solari, di cui i primi quattro corrispondono agli elementi e nei quali,
come nelle tradizioni euroasiatiche, figurano le catastrofi del fuoco e
dell'acqua (diluvio) e quelle lotte contro i giganti, che vedremo caratterizzare
il ciclo degli "eroi" aggiunto da Esiodo agli altri quattro (7), in ciò si può
egualmente riconoscere una variante dello stesso insegnamento di cui, peraltro,
in altre forme, più o meno frammentariamente, si può ritrovare anche fra altri
popoli il ricordo.
All'esame del senso dei singoli periodi è opportuno premettere qualche
considerazione generale, in quanto la concezione in quistione sta in aperto
contrasto con le vedute moderne circa la preistoria e il mondo delle origini.
Sostenere, come tradizionalmente si deve sostenere, che alle origini sia
esistito non l'uomo animalesco delle caverne, ma un "più-che-uomo", e che già la
più alta preistoria abbia veduto non pure una "civiltà", ma anzi un'"èra degli
dèi" (8) - per molti, che in un modo o nell'altro credono alla buona novella del
darwinismo, significa fare pura "mitologia". Tuttavia, siccome questa mitologia
non siamo noi ad inventarla ora, così resterebbe da spiegare il fatto della sua
esistenza, il fatto cioè che nelle testimonianze più remote dei miti e degli
scritti dell'antichità non si trovi nessun ricordo che conforti
l'"evoluzionismo" e si trovi - invece ed appunto - l'opposto, la costante idea
di un passato migliore, più luminoso, super-umano ("divino"); che si sappia
dunque così poco di "origini animali", che anzi si parli uniformemente di una
originaria parentela fra uomini e numi e che permanga il ricordo di uno stadio
primordiale di immortalità, unitamente all'idea, che la legge della morte è
intervenuta in un momento determinato e, a dir vero, quasi al titolo di un fatto
contro-natura o di un anatema. In due testimonianze caratteristiche, come causa
della "caduta" è indicato il mescolarsi della razza "divina" con la razza umana
in senso stretto, concepita come razza inferiore, tanto che in certi testi la
"colpa" è paragonata alla sodomia, al congiungimento carnale con le bestie. Da
una parte, vi è il mito dei Ben-Elohim, o "figli degli dèi", che si unirono alle
"figlie degli uomini" facendo sì che alla fine "ogni carne abbia corrotta la sua
via sulla terra" (9); dall'altra, vi è il mito platonico degli Atlantidi,
concepiti parimenti come discendenti e discepoli degli dèi, che per il loro
ripetuto unirsi agli umani perdono l'elemento divino e finiscono col lasciar
predominare in loro la natura umana (10). Per epoche relativamente più recenti
la tradizione, nei suoi miti, è ricca di riferimenti a razze civilizzatrici e a
lotte fra razze divine e razze animalesche, ciclopiche o demoniche. Sono gli
Asen in lotta contro gli Elemen-tarwesen; sono gli Olimpici e gli "Eroi" in
lotta contro giganti e mostri della notte, della terra o dell'acqua; sono i Deva
ari sorti contro gli Asura, "nemici degli eroi divini"; sono gli Inca, i
dominatori che impongono la loro legge solare agli aborigeni della "Madre
Terra"; sono i Tuatha de Danann che secondo la storia leggendaria dell'Irlanda
si affermarono contro le razze mostruose dei Fomori, e così via. Su tale base,
si può anche dire che se l'insegnamento tradizionale ricorda - come substrato
anteriore alle civiltà create da razze superiori - ceppi, che potrebbero anche
corrispondere ai tipi animaleschi e inferiori dell'evoluzionismo,
l'evoluzionismo è però caratterizzato dall'errore di considerare tali ceppi
animaleschi come originari in assoluto, mentre essi lo sono solo relativamente,
e di concepire come forme di "evoluzione" forme di incrocio presupponenti
l'apparire di altre razze, superiori biologicamente e come civiltà, venute da
sedi loro proprie, razze che sia per la remota antichità (come è il caso per
quella "iperborea" o per quella "atlantide"), sia per fattori geofisici, non
lasciarono che tracce ardue a ritrovarsi da parte di chi si basi sulle sole
testimonianze archeologiche e paleontologiche accessibili alla ricerca profana.
D'altra parte, è molto significativo il fatto che le popolazioni sussistenti ove
ancora vigerebbe il presunto stato originario primitivistico e barbaro, poco
confortano l'ipotesi evoluzionistica. Sono ceppi che, invece di evolversi,
tendono ad estinguersi, col che dimostrano di essere appunto residui
degenerescenti di cicli, le cui possibilità vitali erano esaurite, ovvero
elementi eterogenei, tronchi lasciati indietro dalla corrente centrale
dell'umanità. Ciò vale già per l'uomo di Neanderthal, che nella sua estrema
brutalità morfologica sembra avvicinarsi all'"uomo-scimmia". L'uomo di
Neanderthal è scomparso misteriosamente in un dato periodo e le razze che sono
apparse dopo di esso - l'uomo Aurignac e soprattutto l'uomo Cro-Magnon - e che
presentano un tipo superiore, tanto che vi si può riconoscere già il ceppo di
molte delle presenti razze umane, non possono esser considerate come "forme
evolutive" dell'uomo di Neanderthal. Lo stesso vale per la razza di Grimaldi,
anch'essa estintasi. Lo stesso può dirsi per molti popoli "selvaggi" ancora
viventi: essi non si "evolvono", essi si estinguono. Il loro "civilizzarsi" non
è una "evoluzione", ma quasi sempre una brusca mutazione che colpisce le loro
possibilità vitali. Infatti, per la possibilità di evolvere o di decadere
esistono dati limiti. Vi sono specie che conservano le loro caratteristiche
anche presso a condizioni relativamente diverse da quelle a loro naturali;
altre, invece, in tal caso si estinguono; oppure subentrano mescolanze con altri
elementi, nelle quali, in fondo, non si ha assimilazione né vera evoluzione. Per
il risultato di queste mescolanze vale piuttosto qualcosa di simile ai processi
considerati dalle leggi di Mendel sull'ereditarietà: scomparso nel fenotipo,
l'elemento primitivistico si mantiene come una eredità latente separata capace
di ripullulare in apparizioni sporadiche, però sempre con carattere di
eterogeneità rispetto al tipo superiore.
Gli evoluzionisti credono di tenersi "positivamente" ai fatti. Essi non dubitano
che i fatti, in sé stessi, sono muti; che stessi fatti, interpretati variamente,
danno testimonianza per le tesi più varie. Così è accaduto che qualcuno, pur
avendo in vista tutti i dati addotti come prove dalla teoria dell'evoluzione, ha
mostrato che essi, in ultima analisi, potrebbero confortare anche la tesi
contraria - la quale, sotto più di un riguardo, corrisponde all'insegnamento
tradizionale: la tesi, cioè, che, lungi dall'esser l'uomo un prodotto di
"evoluzione" delle specie animali, molte specie animali vanno considerate come
tronchi laterali in cui ha abortito un impulso primordiale, avente solo nelle
razze umane superiori la sua manifestazione diretta e adeguata (11). Vi sono
antichi miti di stirpi divine in lotta contro entità mostruose o dèmoni
animaleschi prima dello stabilirsi della razza dei mortali (cioè dell'umanità
nella sua forma più recente), i quali, fra l'altro, potrebbero riferirsi appunto
alla lotta del principio umano primordiale contro le potenzialità animali che
esso recava in sé; potenzialità le quali, per così dire, furono separate e
lasciate indietro sotto le specie di certi ceppi animali. Quanto ai presunti
"progenitori" dell'uomo (quali l'antropoide e l'uomo glaciale), essi
rappresenterebbero i primi vinti nella lotta di cui sopra: parti mescolatesi a
certe potenzialità animali, o da queste travolte. Se nel totemismo, che si
riferisce a società inferiori, la nozione dell'avo mitico collettivo del clan si
confonde spesso con quella del dèmone di una data specie animale, in ciò si
riflette appunto il ricordo di un consimile stadio di promiscuità.
Senza voler entrare nei problemi, in una certa misura trascendenti,
dell'antropogenesi, questa non essendone la sede, la stessa assenza di fossili
umani, la sola presenza di fossili animali nella più alta preistoria, potrebbe
esser interpretata nel senso che l'uomo primordiale (se pure è lecito chiamar
uomo un tipo assai diverso dall'umanità storica) sia entrato per ultimo in quel
processo di materializzazione, che ha conferito - dopo che agli animali - ai
suoi primi tronchi già degenerescenti, deviati, mescolati con l'animalità, un
organismo suscettibile a conservarsi sotto specie di fossile. Va riferito a ciò
il ricordo, che in certe tradizioni si ha, di una razza primordiale "dalle ossa
deboli" o "molli". Ad esempio, Liezi (cap. V), parlando della regione iperborea,
ove prese inizio, come si dirà, il presente ciclo, accenna appunto che "gli
abitanti di essa (assimilati a "uomini trascendenti") hanno le ossa deboli". Per
un periodo più recente, il fatto che le razze superiori, venute dal Nord, non
praticavano l'inumazione ma l'arsione dei cadaveri, è un altro degli elementi da
tener presente nel problema dell'assenza di avanzi di ossa.
Si dirà: Ma per questa favolosa umanità manca anche ogni traccia di altro
genere! Ora, a parte che vi è della ingenuità nel pensare che esseri superiori
non abbiano potuto esistere senza lasciar tracce come rovine, strumenti
lavorati, armi e simili, va rilevato che per epoche abbastanza remote esistono
residui di opere ciclopiche, per quanto non tutte di tipo civilizzato (il
circolo di Stonehenge, le enormi pietre poste in equilibrio miracoloso, la "pedra
cansada" nel Perù, i colossi di Tiuhuanac, e simili) che lasciano perplessi gli
archeologi circa i mezzi usati anche soltanto per raccogliere e trasportare il
materiale necessario. Andando più lontano nei tempi, oltreché si dimentica quel
che d'altra parte si ammette o, almeno, non si esclude - antiche terre
scomparse, terre di nuova formazione v'è da chiedere se una razza in rapporto
spirituale diretto con forze cosmiche, quale la tradizione l'ammette per le
origini, risulti inconcepibile, quando non si fosse data a lavorar pezzi di
materia, di pietra o di metallo, come fanno coloro che non hanno più nessun
altro mezzo per agire sulle potenze delle cose e sugli esseri. Che l'"uomo delle
caverne" sia esso che sa di leggenda, sembra del resto risultare di già: si
sospetta ormai che nelle caverne preistoriche (molte delle quali tradiscono un
orientamento sacrale) l'uomo "primitivo" non aveva le sue abitazioni belluine,
ma i luoghi di un culto, rimasto in tale forma anche in epoche indubbiamente
"civilizzate" (ad esempio, il culto greco-minoico delle caverne, le cerimonie e
i ritiri iniziatici sull'Ida); e che è naturale trovar solo là, per la
protezione naturale del luogo, tracce, che altrove il tempo, gli uomini e gli
elementi non potevano lasciar parimenti giungere fino ai nostri contemporanei.
In genere, è una idea tradizionale basale che lo stato di conoscenza e di
civiltà fu lo stato naturale, se non dell'uomo in genere, almeno di determinate
élites delle origini; che il sapere fu così poco "costruito" ed acquisito quanto
poco la vera sovranità ebbe origine dal basso. Joseph de Maistre, dopo aver
messo in luce che quel che un Rousseau e i suoi simili avevano presunto essere
lo stato di natura (con riferimento ai selvaggi) è solo l'ultimo grado di
abbrutimento di alcuni ceppi dispersi o presi dalle conseguenze dì qualche
degradazione o prevaricazione che ne colpì la sostanza più profonda (12), assai
giustamente dice: "Circa il cammino della scienza noi siamo accecati da un
sofisma grossolano, che ha stregato ogni sguardo: è il giudicare dei tempi, in
cui gli uomini vedevano gli effetti nelle cause, sulla base dei tempi, in cui
essi risalgono faticosamente dagli effetti alle cause, in cui anzi non ci si
occupa che degli effetti, in cui si dice che è inutile occuparsi delle cause, in
cui non si sa più che cosa una causa significhi" (13). All'inizio non solo si
possedette una scienza, ma "una scienza differente dalla nostra, che prendeva
inizio in alto, il che la rendeva perfino pericolosissima. Ciò spiega perché la
scienza agli inizi fu sempre misteriosa e racchiusa nei templi, ove essa si
spense alla fine, quando questa fiamma non potè servir più se non a bruciare"
(14). Ed è allora che, a poco a poco, come surrogato, cominciò a formarsi
l'altra scienza, quella puramente umana e empirica, di cui i moderni sono così
fieri e con la quale essi hanno pensato di misurare tutto ciò che, per loro, è
civiltà. Quest'ultima, su tale base, non ha che il significato di un vano
tentativo di risollevarsi, mediante surrogati, da uno stato innaturale, per
nulla originario, di degradazione, non più nemmeno avvertito come tale. Ad ogni
modo, bisogna rendersi conto che queste e consimili indicazioni poco possono
valere per chi non sia disposto a cambiare la propria mentalità. Ogni epoca ha
il suo "mito", il quale riflette un determinato clima collettivo. Che, in
generale, all'idea aristocratica del venir dall'alto, dell'aver un passato di
luce e di spirito, oggi si sia sostituita l'idea democratica dell'evoluzionismo,
la quale fa derivare il superiore dall'inferiore, l'uomo dall'animale, la
civiltà dalla barbarie - in ciò si ha assai meno il risultato "obiettivo" di una
indagine scientifica cosciente e libera, che non uno dei tanti riflessi che
pervie sotterranee l'avvento del mondo moderno degli strati inferiori, dell'uomo
senza tradizione, ha prodotto necessariamente sul piano intellettuale e
culturale. Così non vi è da illudersi; alcune superstizioni "positive" avranno
sempre modo di crearsi degli alibi per difendersi. Non tanto dei nuovi "fatti"
potranno portare al riconoscimento di diversi orizzonti, quanto un nuovo
atteggiamento dinanzi ad essi. Ed ogni tentativo di valorizzare anche dal punto
di vista scientifico quel che qui s'intende esporre soprattutto dal punto di
vista dogmatico tradizionale, potrà avere dei risultati soltanto fra coloro che
siano già predisposti spiritualmente ad accogliere conoscenze del genere.
Note
(1) Esiodo, Opera et Dies, vv. 109 sgg. [tr. it. in: Esiodo, Opere, Einaudi,
Torino, 1998]
(2) Cfr. per esempio Mànavadharmashàstra, I, 81 sgg.
(3) Cfr. F. Cumont, La fin du monde selon les Mages occidentaux, in Revue d'Histoire
des Religions, 1931, nn. 1-2-3, pp. 50 sgg.
(4) Cfr. Dione Crisostomo, Orationes, XXXVI, 39 sgg.
(5) Daniele, II, 31-45.
(6) Cfr. E. A. Wallis-Budge, Egypt in thè Neolithic and Arcale Periods, London,
1902, vol.. I, pp. 164, sgg.
(7) Cfr. A. Réville, Les religions du Mexique, cit., pp. 196-198.
(8) Cfr. Cicerone, De Legibus, II, 11 [tr. it: Delle leggi, Zanichelli, Bologna,
1979]: " Antiquitasproxime accedit ad deos" ["L'antichità si avvicina moltissimo
agli dèi"].
(9) Genesi, VI, 4 sgg.
(10) Piatone, Crizia, 1 lOc; 120d-e; 121a-b. "La loro partecipazione alla natura
divina per via della molteplice e frequente mescolanza coi mortali cominciò a
diminuire e la natura umana prevalse". Si aggiunge che le opere di questa razza,
oltre che al suo seguire la legge, erano dovute "al continuar dell'agire, in
essa, della natura divina".
(11) Cfr. E. Dacqué, Die Erdzeitalter, Miinchen, 1929; Urwelt, Sage und
Menschheit, Miinchen, 1928; Leben als Symbol, Miinchen, 1929. E. Marconi,
Histoire de l'involution naturelle, Lugano 1915; e anche D. Dewar, The
Transformist Illusion, Tennessee, 1957.
(12) J. de Maistre, Les Soirées de St. Pétersbourg, Paris- Lyon, 1924, voi. I,
pp. 63, 82 [tr. it.: Le serate di Pietroburgo, Rusconi, Milano, 1986].
(13) J. de Maistre, Les Soirées, cit., p. 73.
(13) J. de Maistre, Les Soirées, cit., p. 73. (13) J. de Maistre, Les Soirées,
cit., p. 73.
(14) J. de Maistre, Les Soirées, cit., p. 75. Uno dei fatti che il de Maistre
(pp. 96-97, e il entretien, passim) mette in rilievo, è che le lingue antiche
presentano un ben più alto grado di essenzialità, di organicità e di logicità di
quelle moderne, facendo presentire un principio formativo nascosto non
semplicemente umano, specie quando nelle stesse lingue antiche o "selvagge"
figurano frammenti evidenti di lingue ancor più remote distrutte o dimenticate.
Si sa che già Piatone accennò ad una idea del genere.
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