Julius EvolaIl Problema Ebraico nel Mondo Spirituale |
Esiste, in genere, una visione del mondo, della vita e del
«sacro» specificamente semitica? Questo è il punto fondamentale. La parola
«semitico», come tutti sanno, implica un concetto più vasto che non il semplice
«ebraico», ed è con intenzione che qui noi l'usiamo. Noi infatti crediamo che
l'elemento ebraico non si possa separare nettamente dal tipo generale della
civiltà diffusasi anticamente nell'intero bacino orientale del Mediterraneo,
dall'Asia Minore fino al limite dell'Arabia: per notevoli che possano pur essere
le differenze fra i singoli popoli semitici. Senza un esame complessivo
dello spirito semita, vari aspetti essenziali dello stesso spirito ebraico in
azione in tempi più recenti sono condannati a sfuggirci. Alcuni autori, i quali
hanno trasceso un razzismo puramente biologico e si sono messi a considerare la
razza anche in sede di tipo di civiltà - p. es. il Giinther più recente e il
Clausson venuti più o meno a questo punto, trattando, in genere, di ciò che essi
hanno chiamato «cultura dell'anima levantina» (der vorderasiatischen Seele).
I popoli partecipanti a tale anima sono più o meno i popoli semitici.
Che elementi abbiamo per poter considerare come inferiori la spiritualità e le
forme religiose corrispondenti ai Semiti? Qui le i dee degli antisemiti sono
tutt'altro che chiare e concordi. Infatti, per poter dire ciò che lo spirito
semita ha di negativo, bisognerebbe cominciare col definire quel che invece si
pensa esser positivo in fatto di spirito. Gli antisemiti si curano invece assai
più della polemica che dell'affermazione, e ciò in nome di cui negano e
condannano è, sotto questo riguardo, assai spesso contraddittorio e incerto.
Così gli uni si rifanno al cattolicesimo (p. es. Moller van den Bruck), gli
altri al protestantesimo nordico (Chamberlain, Wolf), altri ancora ad un
sospetto paganesimo (Rosenberg, Reventlow) o ad ideali laico-nazionali (Ludendorff).
La debolezza di simili posizioni risulta già dal fatto che tutti questi punti di
riferimento costituiscono idee storiche cronologicamente posteriori alle prime
civiltà semitiche e in parte influenzate da elementi derivati da quest'ultime:
invece di condurci ad un polo spirituale originario e veramente allo stato puro.
L'opposizione fra spirito semitico e spirito ariano sta naturalmente a
base di ogni antisemitismo. Ma per venire a qualcosa di serio non ci si può
limitare a dare all'«ariano» un vago fondamento razzistico ovvero un contenuto
soltanto negativo e polemico, comprendente tutto quel che, in genere, non è
«ebraico». Bisognerebbe invece poter definire l'«arianità» come una idea
positiva e universale, da contrapporsi, in fatto di tipo di divinità, di culto,
di sentimento religioso e di visione del mondo a tutto quel che si riferisce
alle civiltà semitiche e poi, in particolare, agli Ebrei. Bisognerebbe riprender
dunque su di un altro piano, che non quello piuttosto naturalistico che ad esse
corrispose, le idee dei filologi e degli storici del secolo scorso, e
soprattutto della scuola di Max Miiller, circa una fondamentale unità delle
civiltà, delle religioni, dei simboli e dei miti delle civiltà di ceppo
indogermanico; bisognerebbe veder di connettere tali idee con quanto più
recentemente il Wirth, sebbene spesso con gravi confusioni, ha cercato di
precisare nei riguardi di una civiltà primordiale unitaria pre-nordica (noi
diremmo: iperborea) come ceppo originario delle varie civiltà indogermaniche più
recenti; non trascurando, alla fine, le geniali intuizioni di un Bachofen
sull'antagonismo fra civiltà «solari» (uraniche) e civiltà «lunari» (o
telluriche), fra società rette dal principio virile e società rette dal
principio feminile-materno (ginecocrazia).
È evidente che qui non possiamo inoltrarci in una indagine del genere, del resto
da noi già intrapresa in una delle nostre opere (Rivolta contro il mondo
moderno, Milano, 1935), Ci limiteremo a riprodurre le conclusioni delineando
il tipo di quella spiritualità - che possiamo patimenti chiamare «ariana» o
«solare» o «virile» - che, per via di antitesi, deve farci risultare quel che è
veramente proprio allo spirito semita.
Proprio agli àrya (termine sanscrito che designa i «nobili», intesi come
razza non solo del sangue, ma altresì e essenzialmente, dello spirito) fu una
attitudine affermativa di fronte al divino. Dietro ai loro simboli
mitologici tratti dal cielo splendente si celava il senso della «virilità
incorporea della luce» e della «gloria solare», cioè di una virilità spirituale
vittoriosa: per cui quelle razze non solo credevano nell'esistenza reale di una
superumanità, di una stirpe di uomini nonmortali e di eroi divini, ma spesso a
tale stirpe attribuivano una superiorità e un potere irresistibile rispetto alle
stesse forze sovrannaturali. In relazione a ciò, gli àrya ebbero per
ideale caratteristico più quello regale che non quello sacerdotale, più quello
guerriero dell'affermazione trasfigurante che non quello religioso
dell'abbandono devoto, più quello dell'ethos che non quello del
pathos. Originariamente, i re ne erano i sacerdoti, nel senso che si
riconosceva eminentemente ad essi, e non ad altri, il possesso di quella forza
mistica, cui si lega non solo la «fortuna» della loro razza, ma altresì
l'efficacia dei riti, concepiti come operazioni reali e oggettive sulle forze
sovrannaturali. Su questa base, l'idea del regnum aveva un carattere
sacrale, epperò, più o meno potenzialmente, universale. Dall'enigmatica
concezione indoariana del cakravartì o «signore universale» passando per
l'idea ario-iranica del regno universale dei «fedeli» del «dio di luce» fino a
giungere ai presupposti «solari» della romana aeternitas imperi e infine
all'idea ghibellina medievale appunto del Sacrum Imperium - sempre si è
affacciato nelle civiltà ariane o di tipo ariano l'impulso a fornire un corpo
universale alla forza dall'alto di cui gli àrya si sentivano
eminentemente i portatori.
In secondo luogo, allo stesso modo che invece del servilismo devoto e orante si
aveva il rito, concepito, ripetiamolo, come secca operazione necessitante
rispetto al divino, così pure, più che non ai Santi, agli Eroi erano dischiuse,
fra gli àrya, le sedi più alte e privilegiate di immortalità: la Walhalla
nordica, l'Isola dei Beati dorico-achea, il cielo di Indra fra gli Indogermani
d'India. La conquista dell'immortalità o del sapere conservò tratti virili; là
dove Adamo, nel mito semita, è un maledetto, per aver tentato di prender
dall'albero divino, il mito ariano ci figura per consimili avventure un esito
vittorioso e immortalante nella persona di eroi, quali p. es. Eracle,
Giasone, Mithra, Siegurt. Se, più in alto ancora del mondo «eroico», il supremo
ideale ariano è quello «olimpico» di essenze immutabili, compiute, staccate dal
mondo inferiore del divenire, luminose in sé stesse come il sole e le nature
siderali - gli dèi semitici sono essenzialmente degli dèi che mutano, che hanno
nascita e passione, sono gli «dèi-anno» che, come la vegetazione,
subiscono la legge del morire e rinascere. Il simbolo ariano è solare,
nel senso di una purità che è forza e di una forza che è purità, di una natura
radiante che - ripetiamo - ha luce in sé, in opposto al simbolo lunare (feminile),
che è quello di una natura in tanto luminosa, in quanto riflette e assorbe luce
promanante da un centro che cade fuori di essa. Infine, per quanto riguarda i
corrispondenti principi etici, sono caratteristicamente ariani il principio
della libertà e della personalità da una parte, della fedeltà e dell'onore
dall'altra. L'Ariano ha il piacere dell'indipendenza e della differenza, ha
ripugnanza per ogni promiscuità: ma ciò non gli impedisce di obbedire
virilmente, di riconoscere un capo, di aver l'orgoglio di servirlo secondo un
legame liberamente stabilito, guerriero, irreducibile all'interesse, a tutto ciò
che si può vendere e comprare, e, in genere, volgere in termini d'oro. Bhakti
- dicevano gli Ariani d'India; fìdes - dicevano i Romani; fides -
si ripeteva nel Medioevo; Trust, Treue - saranno le parole d'ordine
del regime feudale. Se nelle stesse comunità religiose mithriache il principio
della fraternità risentiva soprattutto della solidarietà virile di soldati
impegnati in un'unica impresa (miles era il nome di un grado
dell'iniziazione mithriaca), già gli Ariani dell'antica Persia fino all'epoca di
Alessandro conoscevano la facoltà di consacrare non pure le loro persone e le
loro azioni, ma i loro stessi pensieri ai loro Capi, concepiti come esseri
trascendenti. Non una violenza, ma patimenti una fedeltà spirituale - dharma
e bhakti - fondava fra gli Ariani d'India lo stesso regime delle
caste nella sua gerarchia. Il contegno grave e austero, scevro di misticismo,
diffidente verso ogni abbandono dell'anima, che fu proprio ai rapporti fra il
civis e il pater romano e le sue divinità, ha gli stessi tratti
dell'antico rituale dorico-acheo e della tenuta «regale» e dominatrice dei
brahmano o «casta solare» del primo periodo vèdico o degli atharvan
mazdei. Nel complesso, è un classicismo del dominio e dell'azione, un amore per
la chiarezza, per la differenza e per la personalità, un ideale «olimpico» della
divinità e della superumanità eroica, insieme ad un ethos della fedeltà e
dell'onore, a caratterizzare lo spirito ariano.
Con ciò, seppure sommariamente, il punto fondamentale di riferimento è dato. Si
tratta di tener presente i lineamenti di una antitesi ideale, da servire come
filo conduttore fra tutto ciò che la realtà storica e lo stato complessivo delle
civiltà ci mostra spesso allo stato di mescolanza: giacché sarebbe assurdo, per
tempi che non siano assolutamente primordiali, voler ritrovare in qualche luogo
l'elemento ariano o quello semitico allo stato assolutamente puro.
Che cosa caratterizza la spiritualità delle civiltà semitiche in genere? La
distruzione della sintesi ariana di spiritualità e virilità. Fra i Semiti
abbiamo da una parte una affermazione Grassamente materiale e sensualistica,
ovvero rozzamente e ferocemente guerriera (Assiria) del principio virile;
dall'altra, una spiritualità devirilizzata, un rapporto «lunare» e
prevalentemente sacerdotale rispetto al divino, il pathos della
colpa e dell'espiazione, tutto un romanticismo impuro e incomposto, e, a lato,
quasi come una evasione, un contemplativismo a base naturalistico-matematica.
Precisiamo qualche punto. Anche nella antichità più remota, mentre gli Ariani
(come gli stessi Egiziani, la cui prima civiltà deve considerarsi di origine
«occidentale») avevano dei loro re il concetto di «pari degli dèi», già in
Caldea il re non valeva che come un vicario -palési - degli dèi,
concepiti come enti da lui distinti (Maspero). Vi è qualcosa di più
caratteristico per questa deviazione semitica del livello di una spiritualità
virile: l'umiliazione annuale dei re a Babilonia. Il re, vestito da schiavo
o da prigioniero, confessava le sue colpe e solo quando, battuto da
un sacerdote rappresentante il dio, le lacrime gli sgorgavano dagli
occhi, veniva confermato nella sua carica e poteva rivestire le insegne regali.
In realtà, come il sentimento della «colpa» e del «peccato» (quasi del tutto
sconosciuto fra gli Ariani) è connaturato nei Semiti e si riflette in modo
caratteristico nell'Antico Testamento, così altrettanto caratteristico per i
popoli semiti in genere, strettamente legato a tipi di civiltà matriarcale (Pettazzoni)
e invece estraneo alle società ariane rette dal principio paterno, è il
pathos della «confessione dei peccati» e della redenzione da essi. È già il
«complesso» (in senso psicanalitico) della «cattiva coscienza», il quale usurpa
valore «religioso» e altera la calma purità e la superiorità «olimpica»
dell'ideale aristocratico ariano.
Nelle civiltà semitico-siriache e in quella assira è caratteristica la
predominanza di divinità feminili, di dèe, lunari o telluriche, della
Vita, spesso date nei tratti impuri di etère. Gli dèi, per contro, con cui esse
si accompagnano quali amanti, non hanno nessuno dei tratti sovrannaturali delle
grandi divinità ariane della luce e del giorno. Spesso sono nature subordinate,
di fronte all'imagine della Donna o Madre divina. Essi o sono dèi «in passione»
che soffrono e che muoiono e risorgono, o sono divinità feroci e guerriere,
ipòstasi della forza muscolare selvaggia o della virilità fàllica. Nell'antica
Caldea le scienze sacerdotali, specie astronomiche, son poi appunto l'esponente
di uno spirito lunare-matematico, di un contemplativismo astratto e, in fondo,
fatalistico, scisso da ogni interesse per l'affermazione eroica e sovrannaturale
della personalità. Un residuo di questa componente dello spirito semita,
secolarizzato e intellettualizzato, agirà fra gli stessi Ebrei di epoche più
recenti: da un Maimonide e da uno Spinoza fino a matematici moderni ebrei (p.
es. Einstein, fra noi Levi-Civita e Enriques), noi troviamo una "passione
caratteristica per il pensiero astratto e per la legge naturale data in sede di
numeri senza vita. E questa, in fondo, può considerarsi come la parte migliore
dell'antica eredità semitica.
Naturalmente, qui, per non apparire unilaterali, dovremmo svolgere
considerazioni ben più vaste di quel che lo spazio ci consente. Accenneremo solo
che gli elementi negativi ora accennati si possono ritrovare, oltre che fra i
Semiti, anche in altre grandi civiltà originariamente indogermaniche. Senonché
in tali civiltà, fino ad un certo periodo, essi rispetto ad un tipo diverso
predominante di spiritualità, appaiono come elementi secondari e subordinati, i
quali quasi sempre ci riportano a forme di decadenza e ad influssi del substrato
di razze inferiori soggiogate o infiltratesi. È fra l'VIII e il VI secolo a.C.
che noi assistiamo quasi contemporaneamentenelle più grandi civiltà
antiche ad una specie di crisi o climaterium e ad una insorgenza di
quegli elementi inferiori. Può dirsi che in Oriente - dalla Cina all'India e
all'Iran - tale crisi fu superata da una serie di congrue reazioni o di riforme
(Laotze, Confucio, Buddha, Zoroastro). In Occidente, la diga sembra essersi
rotta, l'ondata sembra non aver trovato nessun ostacolo importante per la sua
emergenza progressiva. In Egitto, è il prorompere del culto popolare di Iside e
di divinità affini, con il loro incomposto misticismo popolare, di contro
all'antico culto regale, virile e solare, delle prime dinastie. In Grecia, è il
tramonto della civiltà acheo-dorica con i suoi ideali eroici e olimpici, è
l'avvento del pensiero laico, antitradizionalistico e naturalistico da una
parte, del misticismo orfico e orfico-pitagorico dall'altra. Ma il centro da cui
il fermento di decomposizione si è soprattutto irradiato sembra esser costituito
appunto dal gruppo dei popoli semitici mediterraneo-orientali e, in ultimo, dal
popolo ebraico.
Nei riguardi della civiltà di quest'ultimo popolo, per esser oggettivi, bisogna
distinguere due periodi, che si differenziano definitivamente l'uno dall'altro
proprio in quel momento storico di crisi, cui abbiamo accennato. Se vi è una
accusa da fare positivamente agli Ebrei, essa è quella di non aver avuto
veramente in proprio nessuna tradizione, di dover ad altri popoli, semiti o
non-semiti, sia gli elementi positivi, sia gli altri, negativi, che essi seppero
poi più particolarmente sviluppare. Così se noi consideriamo la religione
ebraica più antica, l'antico culto filisteo di Jeohva (i Filistei, d'altronde,
sembra esser stato un gruppo non-ebraico di conquistatori), la stirpe dei re
sacerdoti cui appartennero un Salomone e un David, ci troviamo non di rado di
fronte a forme aventi caratteri di purezza e di grandezza. Il presunto
«formalismo» dei riti in quella religione aveva con grande probabilità lo stesso
spirito antisentimentale, attivo, determinativo, da noi indicato come
caratteristica del rituale virile ariano primordiale e anche romano. La stessa
idea di un «popolo eletto», chiamato a dominare il mondo per mandato divino - a
parte le sue ingenue esagerazioni e il discutibile diritto degli Ebrei di
riferirla alla loro razza - è, come abbiamo accennato, una idea che si ritrova
in tradizioni ariane, soprattutto fra gli Iràni: così come fra gli Iràni si
ritrova anche, benché con tratti virili e non passivamente messianici, il tipo
del futuro «signore universale» Caoshianf, Re di re. Fu un punto di crisi,
connesso al crollo politico del popolo ebraico, a travolgere questi elementi di
spiritualità positiva, che con grande probabilità derivano meno dal popolo
ebraico in sé stesso, che dagli Amoriti, popolo di cui alcuni sostengono
l'origine nordica e non-semitica. Il profetismo rappresenta già la
decomposizione dell'antica civiltà ebraica e la via di ogni successiva
decadenza. Al tipo del «veggente» - ròeh - si sostituisce appunto quello
del «profeta» - nabi -, dell'inspirato o ossesso di Dio, tipo che
precedentemente veniva considerato quasi come un malato. Il centro spirituale si
sposta su di lui e sulle sue apocalissi - non cade più sul grande sacerdote o
sul re sacerdotale governante in nome del «Dio degli Eserciti», Jeohva Cebaot.
Qui la rivolta contro l'antico ritualismo sacrale in nome di una informe,
romantica e incomposta spiritualità «interiore» si associa ad un sempre
crescente servilismo dell'uomo di fronte al Dio, ad un sempre maggior piacere
per l'autoumiliazione e ad una sempre maggiore menomazione del principio
eroico, fino all'abbassamento del tipo del Messia a quello dell'«espiatore»,
della «vittima» predestinata sullo sfondo terroristico delle apocalissi - e,
sopra un altro piano, fino a quello stile di inganno, di ipocrisia servile e,
insieme, di subdola tenace infiltrazione disgregatrice, che resterà
caraneristico per l'istinto ebraico in genere. Scalando, attraverso le forme
prime, precattoliche, del Cristianesimo, l'impero romano già animato da ogni
sorta di culti spurii asiatico-semitici, lo spirito ebraico si pose
effettivamente alla testa di una grande insurrezione dell'Oriente contro
l'Occidente, dei guarà contro gli àrya, della spiritualità
promiscua del Sud pelasgico e preellenico contro la spiritualità olimpica e
uranica di razze superiori conquistatrici: scontro di forze, che ripete quello
già verificatosi in un periodo più antico nella prima colonizzazione del
Mediterraneo.
Con il che, si è giunti ad un punto, che ci permette di discernere ciò a cui,
sotto questo riguardo, si riducono le ragioni degli antisemiti. Diciamo subito
che non ve ne è quasi nessuno che dimostri la capacità di elevarsi fino ad
orizzonti del genere. L'unico, forse, a tale riguardo, è Alfred Rosenberg: il
quale però, nei suoi ultimi atteggiamenti, è andato a pregiudicare quasi
irreparabilmente la sua posizione con confusioni di ogni genere e soprattutto
con ideologie di marca schiettamente illuministica e razzistico-nazionalista.
Nell'ambito religioso, è davvero ingenuo pensar di giustificare l'avversione per
la religione ebraica con una scelta di passi biblici, dai quali risulterebbe che
il Dio ebraico è un «falso Dio», un Dio «umanizzato», «suscettibile di errore»,
«mutevole», «crudele», «ingiusto», «sleale» e via dicendo (è il Fritsch che si è
soprattutto specializzato in un tale j'accuse) e nello stigmatizzare
questo o quell'episodio dubbio della morale dell'«Antico Testamento» (il
Rosenberg giunge a definire la Bibbia «una raccolta di storiette per mercanti di
cavalli e lenoni»). Certo, con un Ebreo - con lo Spinoza - si può riconoscere
una prevalente corpulenza e materialità nell'immaginazione mitologica ebraica.
Tuttavia, questo a parte, sarebbe da chiedersi se, quando le religioni dovessero
venir giudicate alla stregua di tali elementi contingenti, le stesse mitologie
di puro ceppo nordico-ariano avrebbero modo di salvarsi. Poiché gli accusatori
son dei Tedeschi, portandoci alla loro stessa mitologia, che cosa dovremmo
allora dire, per esempio, della slealtà di Odino-Wotan rispetto ai patti
stabiliti con i «giganti» ricostruttori dell'Asgard - e della «moralità» del re
Gunther che fa di Siegfried il noto uso per riuscire a stuprare Brunhild? Non si
può scendere a questo piano di bassi espedienti polemici. E tutto ciò che, sulla
base del già detto, si deve riconoscere di negativo nella religiosità ebraica,
non deve portarci a disconoscere che, quando anche presi da altrove, nell'Antico
Testamento sono presenti elementi e simboli di valore metafìsico e, quindi,
universale.
Quando il Gunther, l'Oldenberg e il Clauss dicono che lo spirito
semitico-orientale ha per caratteristica «l'oscillare fra il sensuale e lo
spirituale, la mescolanza fra sacrila e bordello», la gioia per la carnalità e
simultaneamente per la mortificazione della carnalità, l'opposizione fra spirito
e corpo (la quale si pretende arbitrariamente che fosse sconosciuta fra gli
Ariani), il piacere del potere su comunità servili, l'insinuarsi strisciando nel
sentire altrui; quando il Wolf dice che dall'Oriente semitico scaturirono tutte
le malattie di cui soffriamo, «dal terreno pantanoso del caos etnico orientale
son nati l'imperialismo e il mammonismo, l'urbanizzazione dei popoli con la
distruzione della vita coniugale e familiare, la razionalizzazione e la
meccanizzazione della religione, la civiltà sacerdotale mummificata, l'ideale
assurdo di uno Stato divino abbracciarne l'intera umanità» - quando gli
antisemiti dicono questo, ci offrono una insalata russa, ove si trova anche del
giusto, ma fra confusioni di idee alquanto singolari. Per rendersi conto di tali
confusioni, basterà dire p. es. che per il Wolf, Greci e Romani non avrebbero
avuto altro merito, fuor che quello di aver sviluppato «una fiorente civiltà
laica nazionale»: dal che si vede, quanto poco l'antica spiritualità ariana
valga a questo autore come punto di riferimento. Al posto di tale spiritualità
egli finisce invece col mettere il protestantesimo, onde le vere visuali si
capovolgono: il trionfo del profetismo sull'antica spiritualità rituale ebraica
sembra al Wolf un progresso, anziché una degenerazione, appunto per la sua
analogia con la rivolta luterana contro il ritualismo e il principio d'autorità
della Chiesa. Quanto poi all'accusa, propria a quasi tutti gli antisemiti e i
razzisti, contro l'ideale di uno Stato sacrale universale che essi considerano
come ebraico e deleterio, è da osservarsi che se la civiltà semita talvolta
sposò tale ideale, esso non le è però per nulla proprio, esso si ritrova nel
ciclo ascendente di qualunque grande civiltà tradizionale, esso in sé è così
poco ebraico, da fare d'anima al Medioevo cattolico-germanico, al sogno di un
Federico II e di un Dante. Si è che, strano a dirsi, Roma in tale ideologia
antisemita finisce col divenire un sinonimo di Gerusalemme: essa non sarebbe
tanto cristianesimo, quanto ebraismo, e, in pari tempo, eredità dell'impero
pagano, il quale, a sua volta, nel suo universalismo, sarebbe già ebraico o
presso a poco (l'espressione di «Roma semitica» per la Roma imperiale risale del
resto al de Gobineau). Che cosa sarebbe invece antiebraico? Per il Wolf, che
segue visibilmente le orme del Chamberlain, il cristianesimo evangelico, cioè
precattolico, nel suo aspetto individualistico, amorfamente credente e
antidogmatico, che risale proprio all'impuro fermento del profetismo ebreo, cioè
non solo all'ebraismo, ma perfino alla decadenza di esso; poi, e appunto Luterò,
cioè colui che contro la «romanità» di Roma - da lui considerata come satanica -
ha essenzialmente rivalorizzato l'Antico Testamento: onde non si saprebbe
trovare un antisemita più... filosemita di questo autore. È vero che altri, p.
es. il Rosenberg, appunto per questo non esitarono a gettare a mare anche il
protestantesimo, ma per cader dalla padella nella brace: qui si propone, come
abbiamo detto, un anticattolicesimo di tipo puramente laico, un disconoscimento
pieno di tutto ciò che nel cattolicesimo è supernaturalismo e rito, in fondo, un
razionalismo - e il razionalismo dai razzisti è proprio considerato come una
creatura ebraica!
Anche il Miller contesta il diritto di considerare il protestantesimo come tipo
di una religione purificata dall'elemento semitico, e se fa accuse alla Chiesa
di Roma, lo è a causa dei residui ebraici che essa conserva (p. es. il
riconoscimento, che Israele fu il popolo eletto prescelto per la rivelazione),
oltreché per il fatto che la Chiesa, da un precedente rigorismo antiebraico,
oggi sarebbe gradatamente passata ad un regime di tolleranza di fronte agli
Ebrei. Son temi, questi, assai diffusi, oggi, in Germania. Ma altrettanto
diffusa è anche l'idea, che Roma sarebbe l'erede di un fariseismo sacerdotale
che, al pari di quello ebraico, aspirerebbe con ogni mezzo al dominio
universale. Anche nel famoso libro: Protocolli dei Savi Anziani di Sion,
su cui avremo da tornare, vien dato come ebraico l'ideale di un regno universale
retto da una autorità sacra. Qui, ancora una volta, si associano e si confondono
cose che, sulla base dei principi già indicati, andrebbero invece ben distinte.
Se nessuno vuoi contestare l'asiatizzazione e quindi la decadenza che subì,
nella Roma antica, l'idea imperiale universale, ciò non può essere un argomento
contro questa idea presa in se stessa: né un argomento è che l'ebraismo, in una
certa misura, si sia appropriato di ideali consimili. Da un punto di vista
«ariano» la Chiesa cattolica in tanto ha valore, in quanto ha saputo
«romanizzare» il cristianesimo, riprendendo idee gerarchiche, tradizioni,
simboli e istituzioni che si rifanno ad un più vasto patrimonio, rettificando
con Roma l'elemento deleterio, strettamente connesso al messianismo ebraico e al
misticismo antivirile siriaco, proprio alla rivoluzione del cristianesimo
primitivo. Certo, chi pensi a fondo, troverà più di un residuo non-ariano nel
complesso del cattolicesimo. Purtuttavia nei tempi più recenti Roma resta
l'unico punto di riferimento relativamente positivo per ogni tendenza
all'universalità.
In relazione a ciò, son da fissare due punti. Come vedremo meglio nei prossimi
scritti, vi è, sì, oggi, una idea universale ebraica che lotta contro i resti
delle antiche tradizioni europee: ma questa idea va detta internazionale più che
universale, rappresenta il capovolgimento materialistico e mammonistico di quel
che potè essere l'antica idea sacrale di un regnum universale. In secondo
luogo, la molla nascosta dell'antisemitismo nordico si tradisce attraverso la
sua polemica antiuniversalistica e antiromana, attraverso il suo confondere
l'universalismo quale idea supernazionale con un universalismo che significa
solo quel «fermento attivo di cosmopolitismo e di decomposizione nazionale» che,
secondo il Mommsen, anche nel mondo antico è stato determinato soprattutto
dall'ebraismo. Vogliamo dire, che quel che l'antisemitismo rivela a tale
riguardo, è un mero particolarismo. Ora, vi è una ben curiosa contraddizione in
coloro che da una parte accusano gli Ebrei di avere un Dio nazionale solo per
loro, una morale e un sentimento di solidarietà ristretto alla loro razza, un
principio di nonsolidarietà per il restante genere umano, e così via - e
dall'altra parte vanno proprio a seguire questo «stile» ebraico quando essi
polemizzano contro quell'altro (presunto) aspetto del pericolo semita, che
sarebbe l'universalismo. Chi infatti proclama la nota formula gegen Rom und
gegen Judentum quasi sempre in ciò obbedisce alla forma più gretta, più
particolaristica, più condizionata dal sangue (quindi da un elemento affatto
naturistico) di nazionalismo fino a manifestare, nel tentativo di costituire
perfino una Chiesa nazionale soltanto tedesca -deutsche Volkskirche -, lo
stesso spirito di scisma del gallicanismo, dell'anglicanismo e di analoghe
eresie che riprendono, mutatis mutan-dis, lo spirito di esclusivismo e di
monopolio del divino a beneficio di una data razza, che fu proprio appunto di
Israele. E a tale stregua è naturale che si finisca in una dichiarata
antiromanità, la quale però si equivale senz'altro ad antiarianità, ad un
pensiero ibrido, senza nervi, senza chiarità né capacità di ampi liberi
orizzonti. E si noti che in alcuni l'antiromanesimo non si limita alla Chiesa
cattolica, esso si porta così lungi, da far rinnegare anche i più grandi
imperatori ghibellini di ceppo tedesco, appunto per il loro universalismo!
Queste considerazioni però ci portano già all'altro aspetto, etico e politico,
dell'antisemitismo, che sarà oggetto degli scritti successivi. Così è tempo di
concludere brevemente questo esame delle ragioni dell'antisemitismo sul piano
religioso e spirituale. Il Duhring ha avuto occasione di scrivere che «una
quistione ebraica esisterebbe anche quando tutti gli Ebrei avessero abbandonata
la loro religione per passare in seno alle nostre Chiese dominanti». Bisogna
estendere questa idea fino a dire che, nel presente riguardo, si può perfino
prescindere dal riferimento alla razza in senso ristretto, per parlare di un
semitismo in universale, cioè ad un semitismo quale attitudine tipica
rispetto al mondo spirituale. Questa attitudine può venir definita in astratto e
può essere individuata anche là dove manchi, in una civiltà, una chiara e
diretta connessione etnica con le razze semitiche e con gli Ebrei. Dovunque
viene meno l'assunzione eroica, trionfale, virile del divino e viene esaltato il
pathos di una attitudine servile, spersonalizzante, ibridamente mistica e
messianica rispetto allo spirito - là ritorna l'originaria forza del semitismo,
dell'antiarianità. Semitico è il senso della «colpa» e altresì dell'«espiazione»
e dell'autoumiliazione. Semitico è il risentimento dei «servi di Dio» che non
tollerano nessun capo e vogliono costituirsi come una collettività onnipotente
(Nietzsche) - con tutte le conseguenze procedenti da tale idea antigerarchica,
fino alla sua materializzazione moderna in forma di marxismo e di comunismo.
Semitico è infine quello spirito sotterraneo di agitazione oscura e incessante,
di intima contaminazione e di improvvisa rivolta, per cui, secondo gli antichi,
Tifone Setti, il mitico serpe nemico del Dio solare egizio, sarebbe stato il
padre degli Ebrei, e Jeronimo e gli Gnostici considerarono il dio ebraico
appunto una creatura «tifònica».
Così oggi, in sede spirituale, il fermento semitico di decomposizione è da
riconoscersi sia nell'intimo delle ideologie culminanti nella mistica di una
umanità servile collettivizzata sotto i segni dell'internazionale tanto bianca
che rossa, sia nel «romanticismo» dell'anima moderna - riemergenza del «clima»
messianico - nel suo attivismo spiritualmente distruttore, nel suo empito
incomposto, nella sua irrequietezza nevrotica percorsa dalle forme più impure e
sensualistiche di «religione della vita» o di evasione pseudospiritualistica.
Per essere antisemiti a fondo, qui non vi è da ricorrere a mezzi termini, a idee
pregiudicate esse stesse dal male contro cui si vorrebbe combattere. Bisogna
essere radicali. Bisogna rievocare valori, da dirsi «ariani» sul serio, e non
sulla base di concetti vaghi e unilaterali soffusi da una specie di materialismo
biologico: valori di una spiritualità solare e olimpica, di un classicismo fatto
di chiarezza e di forza dominata, di un amore nuovo per la differenza e per la
libera personalità e, in pari tempo, per la gerarchia e per l'universalità che
una stirpe nuovamente capace di elevarsi virilmente dal «vivere» al «più che
vivere» può creare di contro ad un mondo dilacerato, senza principi veri e senza
pace. Così, un punto reale di riferimento si ha solo risalendo ad una antitesi
ideale, libera dal pregiudizio etnico. Il semitismo, a tale stregua, finisce col
divenire sinonimo di quell'elemento «infero», che ogni grande civiltà - e
perfino quella ebraica nella sua antichissima fase regale - ha soggiogato
all'atto del suo realizzarsi come cosmos di contro a caos. Anche
senza riferirsi al problema della vera origine unitaria e preistorica della
spiritualità «solare» formatrice e animatrice del gruppo delle civiltà
indogermaniche, restringendoci al solo Occidente, in quel che noi abbiamo già
accennato - circa lo spirito delle civiltà del Mediterraneo orientale, circa la
crisi subita dallo stesso popolo d'Israele, circa la connessione delle forze
attive in tale crisi con quelle che alterarono sia la civiltà egizia, sia quella
dorica, sia, infine, in un moto d'insieme, la civiltà romana - in tutto questo
noi abbiamo dato sufficienti elementi per giustificare la possibilità di un
«antisemitismo» scevro da pregiudizi e da spirito di parte, in connessione a
quel che oggi va combattuto in nome delle tradizioni più luminose del nostro
passato e, in pari tempo, di un migliore futuro spirituale.