Julius Evola Etica Aria |
VOLTI DELL’EROISMO
Un punto sul quale spesso abbiamo richiamato l’attenzione, e che anche in
un’indagine circa la «razza interna» ha la sua importanza, si lega al fatto che,
oltre al morire e al combattere, devesi considerare un diverso «stile», una
diversa attitudine e un diverso significato propri, volta per volta, alla lotta
e al sacrificio eroico. Anzi, in genere, si può parlare, qui, di una scala,
varia à seconda dei casi, con cui vien misurato il valore della vita umana.
Proprio le vicende di questa guerra mettono a nudo, nel riguardo, dei contrasti,
che qui vorremmo succintamente lumeggiare. Ci limiteremo essenzialmente a dei
casi-limite, rappresentati, rispettivamente, dalla Russia e dal Giappone.
SUB PERSONALITA' BOLSCEVICA
Che la condotta di guerra della Russia sovietica non tenga in minimo conto della
vita umana e dell’umana personalità, è cosa ormai ben risaputa. Qui i
combattenti sono ridotti ad un vero «materiale umano», nel senso più brutale di
questa sinistra espressione, purtroppo divenuta ormai corrente in certa
letteratura militare: un materiale, per il quale non si deve avere alcun
riguardo e che quindi non si deve esitare a sacrificare nel modo più spietato
dovunque se ne abbia a sufficienza. In genere, come è stato anche recentemente
rilevato, il Russo ha saputo andar sempre con facilità incontro alla morte per
una specie di innato, cupo fatalismo e già da tempo in Russia la vita umana
aveva un basso prezzo. Ma nell’uso attuale del soldato russo come la più brutta
"carne da cannone" si ha anche una logica conseguenza della concezione
bolscevica, la quale nutre il più radicale disprezzo per ogni valore della
personalità, vuol liberare il singolo da quella superstizione e da quel
«pregiudizio borghese» che sarebbero l’io ed il mio, intende ridurlo a membro
meccanizzato di un insieme collettivo, esso solo considerato vitale cd
importante. Su tale base, si delinea la possibilità di una forma, che noi
diremmo «tellurica» e subpersonale di sacrificio e di eroismo: nel segno
dell’uomo collettivo onnipotente e senza volto. La morte sul campo dell’uomo
bolscevizzato rappresenta per tal via l’estrema fase di quel processo di
spersonalizzazione e di distruzione di ogni valore qualitativo e personale, che
già sta alla base dell’ideale bolscevico di «civiltà». Qui può realizzarsi
davvero ciò che, in un libro tristemente famoso, Erich Maria Rcrnarque aveva
tendenziosamente dato come significato complessivo della guerra: la tragica
irrilevanza del singolo in una vicenda, nella quale puri istinti, forze
elementari scatenate, impulsi subpersonali vanno a prendere il sopravvento su
qualsiasi valore e su qualsiasi ideale. Anzi, questa tragicità non è nemmeno
sentita, appunto perché il senso della personalità è già spossato, ogni
orizzonte superiore è precluso, la collettivizzazione anche spirituale ha già
messo profonde radici in una nuova generazione di fanatici, educata al verbo di
Lenin e di Stalin. Si ha così una forma precisa, anche se per la nostra
mentalità europea quasi incomprensibile, di prontezza a morire e a sacrificarsi,
forse perfino presso ad una sinistra gioia per la distruzione propria ed altrui.
LA MISTICA NIPPONICA DEL COMBATTERE
Episodi recenti della guerra giapponese hanno fatto conoscere uno «stile» del
morire, che pertanto sembra aver affinità con quello dell’uomo bolscevico, per
testimoniare, in apparenza, un uguale disprezzo per il valore del singolo e, in
genere, della personalità. Si sa, infatti, di aviatori giapponesi che,
deliberatamente, col loro carico di bombe, si sono gettati sul bersaglio, di
uomini-mine predestinati a morire nella loro azione e sembra perfino che in
Giappone sia stato organizzato da tempo un corpo preciso di questi «volontari
della morte». Di nuovo, s’incontra, qui, qualcosa di poco comprensibile per la
mentalità occidentale. Tuttavia, se noi cerchiamo di penetrare nel suo più
intimo senso questa forma estrema di eroismo, troviamo valori che rappresentano
la perfetta antitesi dell’eroismo tellurico» e senza luce dell’uomo bolscevico.
Le premesse, infatti, qui sono di carattere rigorosamente religioso, anzi
diremmo meglio ascetico e mistico. E ciò non si deve intendere nel senso più
noto ed esteriore, in relazione, cioè, con l’idea, che in Giappone l’idea
religiosa e l’idea imperiale fanno tutt’uno sì che il servizio per l’Imperatore
s’identifica ad un servizio divino e il sacrificarsi per il Tenno e per lo Stato
ha lo stesso valore del sacrificio di un missionario o di un martire, ma in
senso assolutamente attivo e combattivo. Questi, son certo aspetti dell’idea
politico-religiosa nipponica: tuttavia gli ultimi e più intimi punti di
riferimento vanno cercati più in alto, nella visione del mondo e della vita
propria del buddhismo e soprattutto alla scuola Zen, la quale è stata
giustamente definita la «religione del samurai», cioè della casta propriamente
guerriera nipponica. Una siffatta visione del mondo e della vita cerca
essenzialmente di spostare il sentimento di sè su di un piano trascendente,
tanto da relativizzare il significato e la realtà del singolo e della sua vita
terrena. Primo punto: il sentimento di « venir da lontano » —la vita terrestre
non è che un episodio, essa né comincia nè finisce qui, ha cause remote, è
tensione di una forza che ancora si proietterà in altri destini, fino alla
liberazione suprema. Secondo punto: in relazione a ciò, si nega la realtà
dell’io, quale io semplicemente umano. La «persona» torna ad avere il
significato che questo termine ebbe originariamente in latino, ove essa voleva
dir maschera di attori, cioè un dato modo di apparire, una manifestazione.
Dietro ad essa, secondo lo Zen, cioè secondo la religione del samurai, vi è
qualcosa di inafferrabile e di indomabile, di infinito, suscettibile di assumere
infinite forme, sì che simbolicamente vien designato come cunya, vale a dire
«vuoto», in opposto a tutto quel che è consistente materialmente e vincolato ad
una forma. Su tale base si delinea il senso di un eroismo, che può dirsi
senz’altro «superpersonale» — quanto quello bolscevico era, invece, «subpersonale».
Si può prendere la propria vita e gettarla, nell’estremo della stia intensità,
per sovrabbondanza, nella certezza di un’esistenza eterna e della
indistruttibilità di ciò che, non avendo avuto principio, nemmeno può avere una
fine. Ciò che può sembrare estremo per certa mentalità occidentale, diviene qui
naturale, chiaro, evidente. Non si può nemmeno parlare di tragedia — ma nel
senso opposto che nel bolscevismo: non si può parlar di tragedia appunto per il
senso vissuto della irrilevanza del singolo o per il possesso di un significato
e di una forza che, nella vita, va di là dalla vita. E' un eroismo, che quasi
potremmo chiamare "olimpico". E qui, di passaggio, sia notata la dilettantesca
banalità di chi ha cercato di dimostrare, con quattro righe da articolo, il
carattere deleterio che vedute simili. direttamente opposte a quelle di chi
suppone che l’esistenza terrena sia unica e irrevocabile, avrebbe per ogni idea
di Stato e di servizio allo Stato. Il Giappone rappresenta appunto la più
fragrante smentita” di simili elucubrazioni, e la veemenza con cui, al nostro
fianco, il Giappone conduce una lotta eroica e vittoriosa dimostra invece
l’enorme potenziale guerriero e spirituale che può parimenti procedere da un
sentimento vissuto della trascendenza e della superpersonalità come quello già
detto.
LA "DEVOTIO" ROMANA
Qui viene anzi da sottolineare che, se all’Occidente moderno è proprio il
riconoscimento dei valori della persona, ad esso peraltro è propria anche una
accentuazione quasi superstiziosa dell’importanza della vita terrena, che poi,
democratizzandosi, doveva dar luogo ai famosi «diritti dell’uomo» e ad una serie
di superstizioni sociali, democratiche ed umanitarie. Come controparte di questo
aspetto non certo positivo, si è avuta una eguale accentuazione della concezione
"tragica", per non dire «prometeica», cosa che egualmente equivale ad una caduta
di livello. Dobbiamo, di contro a ciò, ricordare gli ideali «olimpici» delle
nostre più antiche e schiette tradizioni; e per tal via potremo allora
comprendere come cosa parimenti nostra un eroismo aristocratico, libero da
passione, proprio ad esseri, il centro della vita dei quali sta veramente su di
un piano superiore, dal quale si lanciano, di là da ogni tragedia, da ogni
vincolo, da ogni angoscia, come forze irresistibili. Qui ci vien da fare una
breve rievocazione storica. Benché a pochi sia noto, le antiche tradizioni
nostre romane, presentano motivi affini a quelli del dono eroico a fondo perduto
della propria persona in nome dello Stato e ai flni della vittoria, che abbiamo
visti apparire anche nella mistica giapponese del combattere. Alludiamo alla
cosiddetta devotio. I presupposti di essa sono parimenti sacrali. Vi agisce anzi
la persuasione generale dell’uomo tradizionale, che forze invisibili sono in
atto dietro a quelle visibili e che all’uomo, a sua volta, è possibile influire
su di esse. Secondo l’antico rito romano della devotio, quale noi l’abbiamo in
vista, un guerriero e soprattutto un Capo può facilitare la vittoria mediante un
misterioso scatenamento di forze determinato dal sacrificio deliberato della sua
persona, da attuarsi con la volontà di non uscire vivo dalla mischia. Si ricorda
l’esecuzione di questo rito da parte del console Decio nella guerra contro i
Latini (340 a.C.), come pure la ripetizione di esso — esaltata da Cicerone (Fin.
Il 19, 61; Tusc. I. 37, 39)- da parte di altri due rappresentanti della stessa
famiglia. Il rito aveva perfino un suo preciso cerimoniale, testimoniante la
perfetta consapevolezza e lucidità di questa offerta eroico-sacrificale. Secondo
l’ordine gerarchico, venivano anzitutto invocate le divinità olimpiche dello
Stato romano, Giano, Giove, Quirino, subito dopo il dio della guerra, Pater Mars,
poi gli dèi indigeti, «dèi — è detto — che avete potenza sugli eroi e sui
nemici»; in nome del sacrificio che ci si propone di compiere, si invocava di
«conceder forza e vittoria al popolo romano dei Quiriti e di travolgere con
terrore, spavento e morte i nemici del nostro popolo» (cfr. Livio, VIII, 9).
Proposte dal pontifex, le parole di questa formula vengono pronunciate dal
guerriero, rivestito dalla praetesta, con un piede su di un giavellotto. Dopo di
che, egli si lancia nella mischia, per morire. Di passaggio, sia qui notata la
trasformazione del senso della parola devotio. Applicata originariamente a
quest’ordine di idee, cioè ad una azione eroica, sacrifìcale ed evocatoria, essa
nel basso Impero andò a significare la semplice fedeltà del cittadino e perfino
la scrupolosità nel pagamento del fisco (devotio rei annonariae). Secondo le
parole del Bouché Lequerq, alla fine, ~sostituitosi al Cesare il Dio cristiano,
la devotio significa semplice religiosità, la fede pronta a tutti i sacrifici e
poi, per una ulteriore degenerescenza dell’espressione, la devozione nel senso
abituale della parola, cioè una preoccupazione costante per la salvezza,
affermata in una pratica minuziosa e timorata del culto». Ciò a parte,
nell’antica devotio romana abbiamo dunque segni ben precisi di una mistica
consapevole dell’eroismo e del sacrificio, presso ad una stretta connessione fra
il sentimento di una realtà sovrannaturale e super-umana e la lotta e la
dedizione in nome del proprio Capo, del proprio Stato e della propria razza. Né
mancano testimonianze circa un sentimento «olimpico» del combattere e del
vincere proprio alle nostre antiche tradizioni. Di ciò, ci siamo occupati
estesamente altrove. Ricordiamo solo che nella cerimonia del trionfo il duce
vittorioso assumeva a Roma appunto le insegne del dio olimpico, ad esprimere la
vera forza che in lui aveva determinato la vittoria; ricorderemo ancora che di
là dal Cesare mortale la romanità venerò il Cesare come un «vincitore perenne»,
cioè come una specie di forza superpersonale dei destini romani. Così, se i
tempi successivi hanno fatto prevalere altre vedute, pure le tradizioni più
antiche ci dimostrano che l’ideale di un eroismo «olimpico» è stato anche un
nostro ideale, che anche la nostra gente ha conosciuto l’offerta assoluta, la
consumazione di tutta una esistenza in una forza scagliata contro il nemico fino
al limite di evocazione di forze abissali; una vittoria, infine, che trasfigura
e propizia partecipazioni a potenze superpersonali e «fatali». Così anche sulla
base di un retaggio nostro si delineano punti di riferimento in radicale
opposizione all’eroismo subpersonale e collettivistico in principio indicato,
non solo, ma anche ad ogni visione tragica ed irrazionalistica, che ignora quel
che è più forte di fuoco e ferro, di morte e di vita.
IL DIRITTO SULLA VITA
Intendiamo, qui, trattar brevemente non del diritto sulla vita in genere, bensì
del diritto sulla propria vita, secondo la trasposizione dell’antica formula jus
vitae necisque, che qui dunque equivarrebbe alla potestà di accettare
l’esistenza umana ovvero di por fine volontariamente ad essa. Questo problema
intendiamo considerano dal punto di vista puramente spirituale, perciò di là da
considerazioni di carattere sociale, considerazioni che —in questo come in
qualsiasi altro campo — possono avere un peso reale solo quando siano confortate
da una persuasione sorta nel proprio foro interiore, da veri principi e da un
senso superiore di responsabilità. Questa responsabilità si deve dunque
intenderla essenzialmente di fronte a se stessi e, invero, non restringendosi
agli angusti orizzonti della vita individuale, ma considerando il senso generale
del proprio destino terrestre e superterrestre. Dalle nostre considerazioni
terremo parimenti lontano ogni riferimento di carattere devozionale, dato il
piano assai condizionato e poco illuminato che di solito vi si riferisce.
Vorremmo invece tenerci fedeli ai criteri di un realismo di carattere superiore
LA VEDUTA DI SENECA
Su tale piano, la forma più severa e virile nella quale è stato affermato il
diritto assoluto di disporre della propria vita terrestre si riferisce allo
stoicismo, specie nelle formulazioni di Seneca, le vedute fondamentali del quale
risentono — a parere di molti — di uno spirito tipico non solo romano, ma anche
ano-roma-no, per quanto limitato da un certo irrigidimento e da una certa
esasperazione. Per intendere la portata della veduta di Seneca e, in generale,
la essenza delle idee che qui vogliamo esporre, bisogna cominciare col
condannare senz’altro qualsiasi giustificazione del diritto di togliersi la
vita, in cui intervenga un motivo passionale. L’uomo che si uccide mosso da una
qualsiasi passione è da condannare e da disprezzare, perché è un vinto, un
caduto. Il suo atto testimonia solo la sua passività, la sua incapacità di
riaffermarsi di fronte agli impulsi di quel-la Vita sensitiva, porsi al disopra
della quale è la prima condizione per potersi considerare come davvero uomo. Su
tali casi, non è dunque necessario dedicare ulteriori parole. La giustificazione
di Seneca del diritto di uccidersi è interessante, perché si pone decisamente di
là da un tale piano. La visione generale della vita di Seneca e dello stoicismo
romano è quella di una lotta e di una prova. Secondo Seneca, l’uomo vero sta al
disopra degli stessi dèi perché questi, per natura, non sono esposti ad
avversità e sciagure, l’uomo invece è ad esse esposto, ma ha il potere di
trionfare. Infelice è colui che mai ha incontrato la sciagura e il dolore — dice
Seneca — perché costui non ha avuto occasione di sperimentare e di conoscere la
propria forza. Agli uomini è stato concesso qualcosa di più che l’esser esenti
dai mali; la forza di trionfare su di essi. E le persone più colpite vanno
considerate come le più degne, così come le posizioni più esposte e difficili e
le missioni più pericolose in guerra sono affidate agli elementi più forti e
qualificati, laddove i meno coraggiosi, i meno forti e gli infidi sono usati
nella vita meno disagiata delle retrovie. Ora, presso alla più precisa
affermazione di una simile visione virile e combattiva della vita Seneca
giustifica l’uccidersi. La giustificazione la mette perfino sulla bocca della
divinità (De providentia, VI, 7-9), la quale dice non solo di aver accordato
all’uomo vero, al saggio, una forza più forte di ogni contingenza, ma di aver
fatto sì che nulla possa trattener l’uomo quando più non voglia: la via per
«uscire» è aperta — pater exitus. «Dovunque non vogliate combattere, vi è sempre
possibile ritirarvi. Nulla vi è stato dato di più facile che morire».
INSEGNAMENTI ARII
L’espressione si pugnare non vultis, licet fugere, con allusione alla morte
volontaria che il saggio avrebbe diritto di dare a se stesso, nello spirito del
testo, non va intesa come una vigliaccheria, in quanto fuga. Non si tratta di
ritirarsi, perché non ci si sente abbastanza forti di fronte ad una data prova.
t piuttosto un averne abbastanza di un giuoco di cui alla fine non si comprende
più il senso, dopo aver mostrato a se stessi di aver la capacità di superare
prove consimili. ~ dunque un distacco freddo, quasi diremo olimpico, fatto da
persona che non ha cessato di dominare tutti gli elementi della vicenda. Nelle
antiche tradizioni arie si trovano giustificazioni dell’"uscire" volontariamente
dalla vita terrestre non prive di una certa affinità con la veduta, ora esposta,
dello stoicismo romano. Dovunque si è portati a rinunciare alla vita in nome
della vita, cioè per una forma o per un’altra di una volontà di vivere o di
godere che non può trovare il suo appagamento, si riprova l’uccidersi. In tali
casi, questo atto non significa una liberazione, ma proprio il contrario, la
forma estrema, seppure negativa, di attaccamento alla vita, di dipendenza dalla
vita e dal «desiderio». Nessun «aldilà» attende chi usa una tale violenza su se
stesso; la legge di una esistenza priva di luce, di pace e di stabilità si
riaffermerà ancora una volta su di lui. Avrebbe invece diritto di por fine
prematuramente alla sua vita terrestre solo chi avesse realizzato un pieno
distacco di fronte a tale vita, tanto da essergli divenuti, il vivere o il
non-vivere, cose affatto uguali. Ma allora si potrebbe appunto domandare, che
cosa muova una persona giunta a tale apice, ad assumere l’iniziativa di una tale
soluzione violenta. Ciò, di tanto più, che chi ha raggiunto una tale perfezione
difficilmente non ha anche colto, in una qualche misura, il significato
superpersonale della sua esistenza in terra, sentendo, in pari tempo, che
l’insieme di questa stessa esistenza non è che un breve transito, un episodio,
l’apparire per una data missione o prova particolare, «un viaggio durante le ore
di notte», come dicono gli Orientali. L’avvertire un qualsiasi tedio, una
qualsiasi impazienza, una insofferenza per il tempo che ancora ci sta dinanzi
non testimonierebbe forse un residuo umano, una debolezza, qualcosa di non ancor
«risolto» e placato dal senso dell’eternità, o, almeno, delle «grandi distanze»
non-terrene e non-temporali?
E' "MIA" LA VITA?
Ciò a parte, vi è un’altra considerazione di principio da fare. Si può aver
veramente diritto solo su ciò che ci appartiene. Il diritto di por fine alla
propria vita è quindi condizionato dalla misura in cui questa vita possa esser
detta davvero «mia». E parlando di «vita» non si può non riferirsi anche al
corpo, all’organismo fìsico-psichico in genere, sul quale appunto si deve agire
per «finirla»; né si deve escludere la stessa vita dei sentimenti e delle
sensazioni. Ora, in via assoluta, può dirsi tutto ciò davvero «mio» e «me
stesso»? Qui ognuno si fa delle illusioni, che tuttavia un istante di
riflessione basta a dissipare. Un testo della tradizione aria, cui si è già
accennato, pone il problema in modo molto tangibile in un dialogo. Il savio
domanda: «Un sovrano ha forse potere di far giustiziare, bandire o graziare chi
vuole nel suo regno?» — “Certamente”. «Che pensi tu allora, che dici così: Il
corpo è me stesso, ti si può compiere questo desiderio: Così deve essere il mio
corpo, così non deve essere il mio corpo? E ancora: tu che dici: La sensazione è
me stesso, la percezione è me stesso, ti si può compiere il desiderio: Così deve
essere la mia sensazione o percezione, così essa non deve essere?». La risposta
dell’interrogato deve essere per forza negativa. Non si può dunque parlar di
«mio corpo», di «mia vita», perché allora dovrebbe trattarsi di cose su cui io
ho potere, mentre di fatto un tale potere o è nullo, o è minimo. Non si è il
principio e la causa della «nostra» vita, che noi invece riceviamo, sì che nelle
antiche tradizioni arie essa vien considerata come un «prestito» da pareggiare
col dovere di restituire ad altro tale vita, generando un figlio. Ed anche per
questo il primogenito fu chiamato «il figlio del dovere». Del resto, là dove la
vita fosse noi stessi e cosa nostra, dovrebbe esser possibile dipartirsi
dall’esistenza terrestre per mezzo di un puro atto dello spirito o della
volontà, senza azioni violente esteriori: cosa impossibile alla quasi totalità
degli uomini, perché solo qualche tradizione antica considerò una «uscita» del
genere, riferendola pertanto a figure assolutamente d’eccezione. Uccidendosi nel
modo comune, fisico, si fa perciò violenza su cosa che non può dirsi nostra e
che non dipende da noi: su cosa, dunque, sulla quale non può dirsi, secondo
giustizia, di aver «diritto» - Ius vitae necisque: già meno che sui propri
figli, perché questi, almeno, sono stati generati da noi. Qui tuttavia può
presentarsi una obbiezione. Si può dire che, appunto perché noi non abbiamo
voluto e creato la nostra vita, non siamo tenuti ad accettare o a conservare in
tutti i casi un tale prestito o dono. Ad un certo momento si può dunque farla
finita. Qui, naturalmente, dovrebbesi presupporre realizzata la condizione già
accennata, vale a dire, quella di un distacco di sé dalla vita stessa, da
dimostrare a se stessi con prove positive e non con semplici parole o con
suggestioni. Altrimenti già il considerar la vita come cosa estranea che si può
conservare o rimettere a chi, senza il nostro consenso, ce l’ha data, sarebbe
una semplice finzione mentale. Si resta dunque sempre nel dominio di casi
eccezionali. In ordine ad essi, che vi sarebbe da pensare?
PROVE DI REAZIONE SUL DESTINO
La soluzione della difficoltà è condizionata dalle vedute che si hanno in fatto
di visione generale del mondo. La gran parte degli uomini occidentali moderni,
per via della religione predominante si sono abituati a considerare nella
nascita fisica il principio della loro vita. Per costoro il problema,
naturalmente, è abbastanza grave, perché là dove la nascita e quindi la vita
terrestre non sono considerate come effetto di un caso o di un incontro di
circostanze esterne, essa e riferita alla volontà divina. Nell’un caso come
nell’altro la volontà propria no~’ vi entra per nulla, per cui, là dove non si
sia abbastanza religiosi per accettare la propria vita per amor di Dio, in
rassegnazione e in ubbidienza, si può sempre riallermare l’atteggiamento di
colui che rivendica la propria libertà di fronte a cosa, che egli non ha voluta.
Ma la veduta della gran parte delle più antiche tradizioni indo-europee non
coincide con quella ora accennata. Di massima veniva una preesistenza rispetto
alla vita terrena e un rapporto di causa e d’effetto, talvolta perfino
d’elezione, tra la forza preesistente alla nascita fisica e questa stessa vita.
La quale, in tal caso, pur non potendo essere attribuita alla volontà più
esteriore e già umana del singolo, va a rappresentare un ordine compenetrato di
un determinato senso, qualcosa che — sia pur riposto — ha un suo significato per
l’Io, come una serie di esperienze importanti non in se stesse, ma riguardo alle
nostre reazioni. In una parola, allora la Vita quaggiù non è più un caso, epperò
non può considerarsi né come cosa da accettare o respingere ad arbitrio, né come
una realtà che ci si impone, di fronte a cui si è solo passivi, col divario di
una rassegnazione ottusa ovvero di una continua prova di resistenza. Sorge
invece la sensazione che la vita terrestre è qualcosa, in cui noi, prima di
essere uomini terrestri, ci siamo, per cosi dire «compromessi» ed in una certa
misura impegnati, sia — se si vuole — come in un’avventura, sia come in una
missione o in una elezione, assumendo in blocco anche aspetti problematici e
tragici di essa. t difficile che quella superiorità o, anche, semplicemente quel
distacco di fronte alla vita, che permetterebbe di gettarla, non si accompagni —
come gia accennammo — ad un significato del genere dell’esistenza: il quale però
in ben pochi casi farebbe comprendere la decisione di «finirla». Ognuno sa che
prima o poi questa fine verrà, sì che di fronte ad ogni contingenza l’attitudine
più saggia sarebbe di scoprirne il significato nascosto, la parte che essa ha in
tutto, che in fondo — secondo la veduta accennata —si incentra in noi e(l è
contenuto con un nostro volere trascendentale. E là dove fosse decisiva —
sinceramente — solo una impazienza per l’eterno, per l’esistenza non più
terrena, sì da far vera la frase mistica spagnola: in tam alta vida espero, que
muero porquè no muero (spero in una così alta vita, da morire di non poter
morire), si esasperi la vita come prova, Invece di passare ad un intervento
diretto e violento: vi sono le vicende eroiche di una guerra, vi è l’alta
montagna, vi è una vita pericolosa in esplorazioni o in missioni — vi sono mille
possibilità per porre al «destino» una domanda più perentoria cd insistente cd
aver dalle cose stesse la risposta della misura, in cui esiste ancora una
ragione profonda, impersonale, del continuare qui una vita umana.
FEDELTÀ ALLA PROPRIA NATURA
Oggi quanto mai bisognerebbe persuadersi, che anche i problemi sociali,
nell’essenza, rimandano sempre a problemi etici e di visione generale della
vita. Chi pensa di risolvere i problemi sociali su di un piano puramente
tecnico, rassomiglierebbe ad un medico che s’intendesse unicamente a combattere
i sintomi epidermici di un male, invece di indagare e colpirne la radice
profonda. La gran parte delle crisi, dei disordini, delle disequazioni che
caratterizzano la società occidentale moderna se, in parte, dipendono da fattori
materiali, almeno in egual misura dipendono anche dal silenzioso sostituirsi di
una visione generale della vita ad un’altra, da una nuova attitudine rispetto a
se stessi e al proprio destino, che è stata celebrata come una conquista,
laddove essa rappresenta una deviazione e una degenerescenza. Per l’ordine di
cose che qui intendiamo trattare, è di particolare rilievo l’opposizione
esistente fra l’etica moderna «attivistica» e individualistica e la dottrina
tradizionale ed aria relativa alla (natura propria». In tutte le civiltà
tradizionali — in quelle che la vuota presunzione «storicistica» considera
«superate» e che l’ideologia massonica giudica «oscurantistiche» —il principio
di una fondamentale uguaglianza della natura umana fu sempre ignorato e fu
considerato come una visibile aberrazione. Ogni essere ha, con la nascita, una
"natura propria", il che equivale a dire un suo volto, una sua qualità, una sua
personalità, anche se più o meno differenziata. Secondo i più antichi
insegnamenti arii ed anche classici, in ciò non veniva del resto veduto un
«caso», ma vi si presentiva l’effetto di una specie di elezione o di
determinazione anteriore allo stesso stato umano di esistenza. In ogni modo, la
constatazione della «natura propria» non fu mai quella di un destino. Si nasce
incontestabilmente con certe tendenze, con certe vocazioni ed inclinazioni,
talvolta senz’altro palesi e precise, tal’altra latenti e tali da manifestarsi
solo in particolari circostanze o prove. Di fronte a questo elemento
differenziato innato, legato alla nascita se non pure — come negli insegnamenti
già accennati — a qualcosa che vien da lontano, che precede la stessa nascita,
ognuno ha un margine di libertà. Ed è qui che si presenta l’opposizione delle
vie e delle etiche: di quella tradizionale e di quella «moderna». Il cardine
dell’etica tradizionale è esser sé e restar fedeli a se stessi. Ciò che si «è»,
bisogna riconoscerlo e volerlo, anziché cercar di realizzarsi diversi a quel che
si è. Ciò non significa per nulla passività e quietismo. Esser se stessi è
sempre, in una certa misura, un compito, un «tener fermo». Implica una forza,
una drittura, uno sviluppo. Ma questa forza, questa drittura, questo sviluppo,
qui hanno una base, prolungano disposizioni innate, si legano ad un carattere,
manifestano tratti di armonia. di coerenza con se stessi, di organicità. L’uomo
si avvia, cioè, ad esser «tutto di un pezzo». Le sue energie sono volte a
potenziare e ad affinare la sua natura e il suo carattere e a difenderlo contro
ogni tendenza estranea, contro ogni influenza alteratrice. E' così che l’antica
saggezza formulò massime, come queste: «Se gli uomini si fanno una norma
d’azione non conforme alla loro natura, essa non deve essere considerata come
norma d’azione». E ancora: «Meglio il proprio dovere anche se imperfettamente
compiuto, che il dovere di un altro bene eseguito. La morte nel compiere il
proprio dovere è preferibile; il dovere di un altro ha grandi pericoli». Questa
fedeltà al proprio modo d’essere assurse perfino ad un valore religioso: «L’uomo
raggiunge la perfezione — è detto in un antico testo ano — adorando colui, dal
quale tutti i viventi procedono e tutto questo universo è compenetrato, mediante
il compimento del proprio modo d’essere». Ed anche: «Fa sempre ciò che deve
esser fatto (in conformità alla propria natura), senza attaccamento, perché
l’uomo che agisce in un disinteresse attivo consegue il Supremo». ~ diventato
purtroppo tin uso, oggi, inorridire non appena si ricordi il regime delle caste.
«Caste?!». Ma oggi non si parla più nemmeno di «classi» e a mala pena di
«categorie»! Oggi si fanno saltare i «compartimenti stagni» e si «va verso il
popolo»! Simili prevenzioni sono frutto d’ignoranza e al massimo si spiegano col
fatto che, invece di considerare i principi di un sistema, ci si ferma a forme
deviate, svuotate o degenerescenti di esso. Va notato anzitutto che la «casta»
in senso tradizionale non ha assolutamente nulla a vedere con le «classi»,
queste essendo ripartizioni artificiali su base essenzialmente materialistica,
mentre le caste si legavano alla teoria della natura propria e all’etica della
fedeltà alla natura propria. Per questa ragione — in secondo luogo — esistette
spesso un regime di caste di fatto, in via naturale, senza alcuna statuizione
positiva, quindi senza nemmeno che venisse usata la parola «casta» o una parola
simile: come in una certa misura fu il caso anche nel Medioevo. Nel riconoscere
la propria natura, l’uomo tradizionale riconosceva anche il suo «luogo», la
propria funzione e i giusti rapporti di superiorità e di inferiorità. Le caste,
o gli equivalenti delle caste, in via di principio, prima di definire dei gruppi
sociali, definivano delle funzioni, dei modi tipici di essere e di agire. Il
fatto della corrispondenza delle tendenze innate ed accettate e della natura
propria dei singoli a queste funzioni determinava la sua appartenenza alla casta
corrispondente, di modo che nei doveri propri alla sua casta ognuno poteva
riconoscere l’esplicazione normale della sua stessa natura. Per questo nel mondo
tradizionale il regime delle caste apparve spesso come una calma istituzionale
naturale, fondata su qualcosa che era evidente agli occhi di tutti, e non
sull’esclusivismo, stilla sopraffazione o sull’arbitrio di pochi. In fondo, il
principio romano ben noto suum cuique tribuere riporta esattamente alla stessa
idea: ad ognuno il suo. Gli esseri, essendo disuguali, è assurdo che tutto sia
accessibile a tutti, e ognuno, in via di principio, sia atto a qualunque
funzione. Ciò implicherebbe una deformazione, uno snaturamento. Le difficoltà
che sorgono in coloro che hanno in vista le condizioni attuali, ben diverse da
quelle del sistema, di cui si sta parlando, si legano al fatto di rappresentarsi
i casi, nei quali il singolo manifesta vocazioni e doti diverse, di quelle del
gruppo in cui per nascita e per tradizione si trova. Senonché in un mondo
normale simili casi hanno sempre rappresentato una eccezione, e ciò per una
ragione precisa: perché a quei tempi i valori di sangue, di razza e di famiglia
venivano naturalmente riconosciuti e per tal via si realizzava in larga misura
una continuità sia biologico-ereditaria, sia di vocazione, di qualificazioni e
di tradizioni. Appunto questa è la controparte dell’etica dell’esser se stessi;
il ridurre al minimo la possibilità, che la nascita sia davvero un caso e che il
singolo si trovi come uno sradicato, in dissonanza con il suo ambiente, con la
sua famiglia se non perfino con se stesso, col proprio corpo e la propria razza.
Inoltre, devesi rilevare che il fattore materialistico e utilitaristico in dette
civiltà e società era notevolmente ridotto da valori più alti, intimamente
vissuti. Nulla appariva cosa più degna che seguire la propria naturale attività,
che seguire la vocazione veramente conforme al proprio modo d’essere, per umile
o modesta che fosse: tanto, che si poté concepire, che chi si mantiene nel
proprio stato e compie in una tale impersonalità e purità i doveri ad esso
inerenti, ha la stessa dignità dell’appartenente a qualsiasi casta «superiore»:
un artigiano, pari a quella di un membro dell’aristocrazia guerriera o di un
principe. Da qui procede anche quel senso di dignità, di qualità e di diligenza
che si è palesato in tutte le organizzazioni e professioni tradizionali; da qui,
quello stile, per cui anche un fabbro, un falegname o calzolaio non si
presentavano come uomini abbrutiti dalla loro condizione ma quasi come dei
«signori», come persone che liberamente avessero scelta ed esercitassero quella
forma d’attività, con amore, dando ad essa sempre una impronta personale e
qualitativa, mantenendosi staccati dalla pura preoccupazione del guadagno e del
profitto. Il mondo «moderno» tuttavia, di massima, ha seguìto proprio la via
opposta, la via di una sistematica trascuranza della natura propria, la via
dell’individualismo, dell’«attivismo» e dell’arrivismo. L’ideale qui non è più
l’esser quel che si è, bensì il «costruirsi», l’applicarsi ad ogni specie di
attività, a caso, ovvero per considerazioni affatto utilitarie. Non più attuare
in seria aderenza, fedeltà e purità, il proprio essere, bensì l’usare ogni forza
per divenire quel che non si è. L’individualismo, essendo a base di una tale
veduta, cioè l’uomo atomizzato, senza nome, senza razza e senza tradizione, si è
avanzata logicamente la pretesa dell’eguaglianza, si è rivendicato il diritto di
poter essere, di massima, tutto ciò che un qualsiasi altro può anche essere, e
non si è voluto riconoscere alcuna differenza più vera e giusta di quella
realizzata da se stessi, artificialmente, nei termini dell’una o dell’altra
forma di una civiltà ormai materializzata e secolarizzata. Come è noto, questa
deviazione è giunta al limite nei Paesi anglosassoni e puritani. E con essa
facendo fronte comune l’illuminismo massonico, la democrazia e il liberalismo,
si è giunti ad un punto tale, che a molti ogni differenza innata e naturale
appare come un bruto dato «naturalistico», che ogni veduta tradizionale viene
giudicata oscurantistica e anacronistica e non si sente l’assurdità dell’idea,
che tutto sia aperto a tutti, che si abbiano eguali diritti e eguali doveri, che
viga una unica morale, la quale dovrebbe imporsi nella stessa misura e valere
per tutti, con piena indifferenza per le singole nature e le differenti intime
dignità. Da qui, anche, è ogni antirazzismo, la denegazione dei valori sia del
sangue, sia della famiglia tradizionalmente concepito. Sicché a buon diritto qui
potrebbe parlarsi, senza eufemismi, di una vera e propria «civiltà» di «fuori
casta», di paria gloriantisi di questa loro qualità. ~ proprio nei quadri di una
tale pseudo-civiltà che sorgono le classi, le quali non hanno nulla a che fare
con le caste, essendo prive di ogni base organica e davvero tradizionale,
essendo aggruppamenti sociali artificiali, determinati da fattori estrinseci e
quasi sempre materialistici. La classe sorge quasi sempre su base
individualistica, vale a dire, è il «luogo» che raccoglie tutti coloro che, col
darsi da fare, hanno raggiunto una stessa posizione sociale, con piena
indipendenza di quel che essi per natura veramente sono. Questi raggruppamenti
artificiali tendono poi a cristallizzarsi, generando allora le tensioni a tutti
note. Infatti nella disgregazione propria a questo tipo di «civiltà» si realizza
anche la degradazione delle «arti» in semplice «lavoro», si compie la
trasformazione dell’antico artefice o artigiano nell’«operaio» proletarizzato,
pel quale quel che fa vale unicamente come mezzo di guadagnare, che sa solo
pensare a «salari» e «ore di lavoro» e a poco a poco va a destare in sé bisogni
artificiali, ambizioni e risentimenti, dato che le «classi superiori», alla
fine, non mostrano più ai suoi occhi nessun carattere giustificante la loro
superiorità e il loro disporre di una maggior copia di beni materiali. Perciò la
lotta di classe è una delle conseguenze estreme di una società che si è
snaturata e ha considerato lo snaturamento, la trascuranza della natura propria
e della tradizione, come una conquista e come un progresso. Ed anche qui si può
considerare un retroscena razziale. L’etica individualistica corrisponde
indubbiamente ad uno stato di mescolanza delle genti e dei ceppi, nella stessa
misura che l’etica dell’esser se stessi corrisponde invece ad uno stato di
prevalente purità razziale. Dove i sangui si incrociano, le vocazioni si
confondono, riesce sempre più difficile veder chiaro nei proprio essere, cresce
sempre più la labilità interiore, segno della mancanza di vere radici. Gli
incroci propiziano il sorgere e il potenziarsi della coscienza dell’uomo come
«individuo», favoriscono anche tutto ciò che è attività «libera», «creativa», in
senso anarchico, «abilità» furbesca, «intelligenza» in senso razionalistico o
sterilmente critico: tutto ciò, a spese delle qualità di carattere, di un
affievolimento del sentimento della dignità, dell’onore, della verità, della
drittura, della lealtà. Si determina così una situazione anche spiritualmente
obliqua e caotica, che però a molti nostri contemporanei sembra normale; per
cui, ad essi i casi di individui pieni di contraddizioni, privi del significato
del vivere, tali, che essi non sanno più quel che vogliono, fuor che le cose
materiali, in contrasto con la propria tradizione, la propria nascita e la loro
naturale destinazione, tali casi non appaiono più come anomalie o apparizioni
teratologiche, bensì come l’ordine naturale delle cose, che confuterebbe e
dimostrerebbe artificiale, assurdo ed oppressivo ogni limite di tradizione, di
razza, di nascita. A questa opposizione fondamentale in tema di etica e di
visione generale della vita dovrebbero badare, in maggior misura di quanto
finora accada, coloro che oggi si occupano di problemi sociali e parlano di
«giustizia sociale», se essi debbono veramente venire a capo dei mali contro cui
in buona fede combattono. Un principio di rettificazione non si può avere, che
là dove l’assurda idea classista sia superata per mezzo di un ritorno dell’etica
della fedeltà alla natura propria e quindi ad un sistema sociale ben
differenziato ed articolato. Noi abbiamo spesso detto che il marxismo, in molti
casi, non è sorto perchè esisteva una reale indigenza «proletaria», ma
viceversa: è il marxismo che per snaturamento ha creato un ceto operaio
«proletarizzato», pieno di risentimento e di ambizioni innaturali. Le forme più
esterne del male da combattere si possono curare con la «giustizia sociale», nel
senso di una certa più equa distribuzione dei beni materiali; ma della radice
interna di esso non si verrà mai a capo, se non si agisce energicamente in sede
di visione generale della vita; se non si ridesta l’amore per la qualità, la
personalità, la natura propria; se non si restituisce il suo prestigio al
principio, disconosciuto solo nei tempi «moderni», di una giusta differenza
conforme alla realtà e se da un tale principio non si traggano, su tutti i
campi, le giuste conseguenze, anche se con preciso riguardo al tipo di civiltà
venuto a prevalere nel mondo moderno.