Julius Evola Dionisio e la Via della Mano Sinistra |
Quali sono tratteggiati nell'esposizione di una delle prime
opere, assai suggestiva, di Federico Nietzsche - La nascita della Tragedia - i
concetti di Dioniso e di Apollo hanno una scarsa corrispondenza col significato
che queste entità ebbero nell'antichità, specie in una loro comprensione
esoterica. Ciò nondimeno qui ci rifaremo proprio a quella loro assunzione
nietzschiana come punto di partenza, al fine di definire degli orientamenti
esistenziali fondamentali.
Cominceremo col presentare un mito.
Immerso nella luminosità e nell'innocenza favolosa dell'Eden l'uomo era un beato
e un immortale. In lui fioriva l'Albero della Vita e lui stesso era questa vita
luminosa. Ma ora sorge una nuova, inaudita vocazione: la volontà di un dominio
sulla vita, il superamento dell'essere, per il potere di essere e non essere,
del Si e del No. A ciò si può riferire l'Albero del Bene e del Male . In nome di
esso l'uomo si stacca dall'Albero della Vita, il che comporta il crollo di tutto
un mondo, nel lampeggiamento di un valore che dischiude il regno di colui che,
secondo un detto ermetico, è superiore agli stessi dèi in quanto con la natura
immortale, a cui questi sono astretti, ha nella sua potenza anche la natura
mortale, epperò con l'infinito anche il finito, con l'affermazione anche la
negazione (tale condizione fu contrassegnata dall'espressione di "Signore delle
Due Nature").
Ma a questo atto l'uomo non fu sufficiente; lo prese un terrore, da cui fu
travolto e spezzato. Come lampada sotto uno splendore troppo intenso - è detto
in un testo cabbalistico -, come un circuito percosso da un potenziale troppo
alto, le essenze si incrinarono. A ciò va rapportato il significato della
"caduta" e della stessa "colpa". Allora, scatenate da questo terrore. le potenze
spirituali che dovevano essere serve, immediatamente si precipitarono e
ghiacciarono in forma di esistenze oggettive autonome, fatali. Sofferta, resa
esterna e fuggente a se stessa, la potenza prese le specie di esistenza
oggettiva autonoma, e la libertà - l'apice vertiginoso che avrebbe instaurata la
gloria di un vivere superdivino - si fece la contingenza indomabile dei fenomeni
fra i quali l'uomo vaga, trepida e misera ombra di sé stesso. Si può dire che
questa fu la maledizione scagliata dal "Dio ucciso" contro colui che fu incapace
di assumerne l'eredità.
Con Apollo, inteso sempre in termini nietzschiani, si sviluppa ciò che deriva da
questo venir meno. Nella sua funzione elementare, deve essergli riferita la
volontà che si scarica di sé stessa, che non vive più se stessa come volontà,
sibbene come "occhio" e come "forma" - come visione, rappresentazione,
conoscenza. È appunto l'artefice del mondo oggettivo, il fondamento
trascendentale della "categoria dello spazio". Lo spazio, inteso come il modo
dell'esser fuori, come ciò per cui le cose non sono più vissute in funzione di
volontà bensì sotto le specie di immagini e di visività, è l'oggettivazione
primordiale della paura, dell'incrinarsi e dello scaricarsi della volontà:
trascendentalmente, la visione di una cosa è la paura e la sofferenza
riguardanti quella cosa. E il "molteplice", l'indefinita divisibilità proprie
alla forma spaziale ne riconfermano il significato, riflettendo appunto il venir
meno della tensione, il disgregarsi dell'unità dell'atto assoluto (1).
Ma come l'occhio non ha coscienza di sé, se non in funzione di ciò che esso
vede, del pari l'essere, reso esteriore a sé stesso dalla funzione "apollinea"
dello spazio, è essenzialmente dipendente, legato: è un essere che si appoggia,
che trae da altro la propria consistenza. Questo bisogno di appoggio genera la
"categoria del limite": la tangibilità e solidità delle cose materiali ne sono
l'incorporazione, quasi la sincope stessa della paura che arresta l'essere
insufficiente sul limitare del mondo "dionisiaco" . Perciò la si potrebbe
chiamare il "fatto" di questa Paura, di cui lo spazio è l'atto. Come caso
particolare del limite, si ha la legge. Mentre colui che è da sé stesso non ha
paura dell'infinito, del caos, di ciò che i Greci chiamavano l'apeiron, perché
anzi vi vede riflessa la propria natura più profonda di ente sostanziato di
libertà, colui che trascendentalmente viene meno ha orrore per l'infinito, fugge
da esso e cerca nella legge, nella costanza delle sequenze causali, nel
prevedibile e nell'ordinato un surrogato di quella certezza e di quel possesso
da cui è decaduto. La scienza positiva e ogni morale potrebbero, in un certo
senso, rientrare in una non diversa direzione.
La terza creatura di "Apollo" è la finalità. Per un dio, il fine non può avere
alcun senso, dato che egli fuori di sé non ha nulla - né un buono, né un vero,
né un razionale, piacevole o giusto - da cui trarre norma ed essere mosso, ma
buono, vero, razionale, piacevole e giusto si identificano con ciò che egli
vuole. semplicemente in quanto lo vuole. In termini filosofici, si può dire che
della sua affermazione, la "ragion sufficiente" è l'affermazione stessa.
Invece gli esseri esteriori a sé stessi per agire hanno bisogno di una
correlazione, di un movente dell'azione o, per meglio dire, della parvenza, di
un movente dell'azione. Infatti in casi decisivi, fuori da contesti banalmente
empirici, l'uomo non vuole una cosa perché la trova, ad esempio, giusta o
razionale, ma la trova giusta e razionale semplicemente perché la vuole (la
stessa psicanalisi ha dato, a tale riguardo, alcuni contributi validi). Ma di
scendere nelle profondità in cui il volere o l'impulso nudamente si afferma,
egli ha paura. Ed ecco che la prudenza "apollinea" preserva dalla vertigine di
qualcosa che possa accadere senza avere una causa e uno scopo, ossia unicamente
per sé stessa, e secondo lo stesso movimento con cui liberò la volontà in una
visività, fa ora apparire, attraverso le categorie della "causalità" e della
cosiddetta "ragion sufficiente", le affermazioni profonde in funzione di scopi,
di utilità pratiche, di motivi ideali e morali che le giustifichino, su cui si
appoggino.
Così tutta la vita della gran massa degli uomini prende il senso di un fuggire
dal centro, di una volontà di stordirsi e di ignorare il fuoco che arde in loro
e che essi non sanno sopportare. Tagliati fuori dall'essere, essi parlano, si
agitano, si cercano, si amano e si accoppiano in richiesta reciproca di
conferma. Moltiplicano le illusioni e così erigono una grande piramide di idoli:
è la costituzione della società, delle moralità, delle idealità, delle finalità
metafisiche, del regno degli dèi o di una tranquillizzante provvidenza, per
supplire all'inesistenza di una ragione centrale, di un significato
fondamentale. Tutte "macchie luminose a soccorso dell'occhio offeso per aver
fissato nell'orribile tenebra" - per usare le parole di Nietzsche.
Ora l'altro - l'oggetto, la causa, la ragione, ecc. - non esistendo in sé,
essendo soltanto una apparizione simbolica del deficiere della volontà a sé
stessa, con l'atto in cui questa chiede ad altro la sua conferma, in realtà va
solo a confermare la sua stessa deficienza (2). Così l'uomo vaga, simile a colui
che insegue la propria ombra, eternamente assetato e eternamente deluso, creando
e divorando incessantemente forme che "sono e non sono" (Plotino). Così la
"solidità" delle cose, il limite apollineo, è ambiguo; esso viene meno alla
presa e rimette ricorrentemente ad un punto successivo la consistenza che esso
sembrava garantire e con cui lusingava il desiderio e il bisogno. Donde, oltre
quella dello spazio, la categoria del tempo, la legge di un divenire di forme
che sorgono e si dissolvono - indefinitamente -, perché per un solo istante di
arresto, per un solo istante in cui non agisse, non parlasse, non desiderasse,
l'uomo sentirebbe crollare tutto. Così la sua sicurezza fra le cose, le forme e
gli idoli è spettrale quanto quella di un sonnambulo che va sull'orlo di un
abisso (3).
Tuttavia questo mondo può non essere l'ultima istanza. Non avendo infatti radice
in altro, essendone soltanto l'Io il responsabile e tenendone egli entro di sé
le cause, egli ha in via di principio la possibilità di operarne la risoluzione.
Così è attestata una tradizione riguardante la grande Opera, la creazione di un
"secondo Albero di Vita". Questa è l'espressione usata da Cesare della Riviera,
nel suo libro Il mondo magico degli Heroi (2a ed. Milano, 1605), dove tale
compito è associato alla "magia" e in genere alla tradizione ermetica e magica.
Ma in questo contesto è interessante considerare ciò che è proprio alla
cosiddetta " Via della Mano Sinistra". Essa comporta il coraggio di strappar via
i veli e le maschere con cui "Apollo" nasconde la realtà originaria, di
trascendere la forme per mettersi in contatto con l'elementarità di un mondo in
cui bene e male, divino e umano, razionale e irrazionale, giusto e ingiusto non
hanno più alcun senso. Nel contempo, essa comporta il saper portare all'apice
tutto ciò da cui il terrore originario è esasperato e che il nostro essere
naturalistico e istintivo non vuole; saper rompere il limite e scavare sempre
più profondamente, alimentando la sensazione di un abisso vertiginoso, e
consistere, mantenersi nel trapasso, da cui altri sarebbero spezzati. Da qui la
possibilità di stabilire una connessione anche col dionisismo storico, a tale
riguardo entrando in questione non quello "mistico" e "orfico", bensì quello
tracio, che ebbe alcuni aspetti selvaggi, orgiastici e distruttivi. E se Dioniso
si rivela nei momenti di crisi e di crollo della legge, anche la "colpa" può
rientrare in questo campo esistenziale; in essa il velo apollineo si squarcia e,
messo di faccia alla forza primordiale, l'uomo giuoca la partita della sua
perdizione o del suo farsi superiore a vita e a morte. È interessante che il
termine tedesco per delitto comprenda il significato di uno spezzare (ver-brechen).
Un atto lo si può continuare a chiamare colpevole in quanto è un atto di cui si
ha paura, che non ci si sente di poter assumere assolutamente, per cui si viene
meno ad esso, che incoscientemente giudichiamo essere qualcosa di troppo forte
per noi. Ma una colpa attiva, positiva. ha qualcosa di trascendente. Novalis
ebbe a scrivere: Quando l'uomo volle divenire Dio, egli peccò, quasi che questa
ne fosse la condizione. Nei misteri mithriaci la capacità di uccidere o di
assistere impassibili ad una uccisione (anche se simulata) costituiva una prova
iniziatica. Allo stesso contesto potrebbero essere riportati certi aspetti dei
riti sacrificali, quando la vittima veniva identificata con la stessa divinità,
eppure il sacrificatore doveva abbatterla affinché, superiore alla maledizione e
alla catastrofe, in lui - ma anche nella comunità che in lui magicamente
convergeva - si liberasse e passasse l'assoluto: la trascendenza nella tragicità
del sacrificio e della colpa.
Ma l'atto può anche portarsi su sé stessi, in alcune varietà della "morte
iniziatica". Far violenza alla vita in sé, nell'evocazione di qualcosa di
elementare. Così la via che in alcune forme dello yoga tantrico si apre a
kundalini viene chiamata quella in cui "divampa il fuoco della morte". L'atto
tragico del sacrificatore qui si interiorizza e diviene la pratica con la quale
la stessa vita organica nella sua radice viene privata d'ogni appoggio, viene
sospesa e trascinata di là da sé lungo la "Via Regia" della cosiddetta sushumnâ,
"divoratrice del tempo".
È' noto che storicamente il dionisismo ha potuto associarsi a forme di
scatenamento frenetico, distruttivo e orgiastico, come nel tipo classico della
baccante e del baccante (Dioniso = Bacco), della menade e del coribante. Ma qui
è difficile separare ciò che può rifarsi alle esperienze dianzi accennate, da
fenomeni di possessione, di invasamento, specie quando non si tratta di forme
istituzionalizzate e legantesi ad una tradizione. Comunque è sempre da ricordare
che qui ci si trova sulla linea della "Via della Mano Sinistra", la quale
costeggia gli abissi, e andar sulla quale, è detto in alcuni testi, rassomiglia
all'andare su di un fil di spada. Il presupposto, sia nel campo della visione (aprovvidenziale)
della vita, sia di questi comportamenti è la conoscenza del mistero della
trasformazione del veleno in farmaco, la quale costituisce la forma più alta
dell'alchimia.
Note
(1) In questo contesto si potrebbe ricordare la teoria di Henri Bergson, il
quale spiega lo spazio appunto come "il disfarsi di un gesto", con un processo
inverso a quello onde molteplici elementi in uno slancio sono raccolti e fusi
insieme e in una semplicità qualitativa.
(2) A ciò si potrebbe associare il senso più profondo della dottrina patristica,
secondo la quale il corpo, il veicolo materiale, sarebbe stato creato al momento
della "caduta" onde impedire l'ulteriore precipitare delle anime (cfr. per es.
ORIGENE, De princip.,I, 7, 5). Apollo è un tale dio prudente. Inoltre si pensi
ad una paralisi dovuta ad uno spavento: è come un ritrarsi, un gettarsi indietro
dell'Io, per via del quale ciò che era dominato e compreso organicamente come un
corpo vivo e pulsante si fa cosa inerte, rigida, estranea. Il mondo oggettivo è
il nostro "grande corpo" paralizzato - congelato o fissato dalla condizione del
limite, attraverso la paura.
(3) Cfr. C. MICHELSTAEDTER, La persuasione e la retorica, parte II e passim.