Julius Evola La Caduta dell'Idea di Stato |
Per potere studiare non nei suoi aspetti esteriori e
consequenziali, bensì nelle sue cause profonde e in tutta la sua portata, il
processo di caduta che ha subito nei tempi ultimi l’idea di Stato, ci è d’uopo
prender per punto di riferimento una Visione generale della storia che ha per
centro la constatazione di un fenomeno fondamentale: il fenomeno della
regressione delle caste. E’ una visione, questa, interessante, per la sua doppia
caratteristica, di esser attuale da un lato, e simultaneamente tradizionale.
Essa è attuale, inquantoché sembra corrispondervi una sensazione più o meno
precisa che oggi si è preannunciata significativamente per vie diverse e quasi
contemporaneamente in scrittori di diverse nazioni. Già la dottrina del Pareto
circa la «circolazione delle élites»
contiene in germe questa concezione. E mentre noi stessi l’accennavamo nello
specifico riferimento allo schema delle caste antiche in un nostro libro di
battaglia (Imperialismo Pagano), in forma più definitiva e sistematica essa è
esposta in Francia da René Guénon ed in Germania, sia pure con esagerazioni
estremistiche, dal Berl. Infine, è significativo che non diversa concezione oggi
ha fornito ad un’opera animata da schietto spirito «squadrista» le premesse per
denunciare le « vigliaccherie del secolo
XX». Ma vi è un secondo e più generico titolo di attualità per il nostro
argomento, dovuto al nuovo «clima» spirituale subentrato, in tema di filosofia
della cultura, ai grevi miti positivistici di ieri. Come si intuisce facilmente,
la nozione di una regressione delle caste ha presupposti nettamente antitetici
rispetto a quelli delle ideologie progressistiche ed evoluzionistiche che la
mentalità razionalistico—giacobina ha introdotti fin in sede di scienza e di
metodologia storica, elevando a verità assoluta quella che, in fondo, solo
saprebbe convenire ad un parvenu: la
verità, che il superiore deriva dall’inferiore, la civiltà dalla barbarie,
l’uomo dalla bestia, e così via, fino a sboccare nei miti dell’economia marxista
e nei vangeli sovietici del «messianismo
tecnico». In parte sotto la spinta di tragiche esperienze, che hanno
dissipato i miraggi di un ingenuo ottimismo, in parte per un effettivo
rivolgimento interiore, oggi fra le
forze più consapevoli e rivoluzionarie simili superstizioni evoluzionistiche,
almeno nei loro aspetti più unilaterali e pretenziosi, possono considerarsi
liquidate. Con il che si affaccia virtualmente la possibilità di riconoscere una
diversa, opposta concezione della storia, che è nuova, ma ad un tempo remota,
«tradizionale», e di cui la dottrina della regressione delle caste nelle sue
relazioni con la caduta dell’idea di Stato è sicuramente una delle espressioni
fondamentali. Sta invero di fatto che al luogo del mito recente, materialistico
e «democratico», dell’evoluzione, le più grandi civiltà del passato avevano
concordemente riconosciuto il diritto e la verità dell’opposta concezione, che
analogicamente possiamo chiamare «aristocratica», affermante invece la nobiltà
delle origini e constatante, nello scorrere dei tempi ultimi, più una erosione,
una alterazione ed una caduta, che non una qualunque acquisizione di valori
veramente superiori. Ma qui, per non avere l’aria di passare da una
unilateralezza ad un’altra, bisogna anche rilevare che nelle concezioni
tradizionali cui accenniamo il concetto di una involuzione quasi sempre figura
solo come momento di una più vasta concezione «ciclica»; concezione, che, sia
pure dilettantescamente ed in un orizzonte assai più ristretto e ipotetico, ha
fatto oggi riapparizione nelle teorie circa le fasi aurorali ascendenti e le
fasi crepuscolari discendenti del «ciclo» delle varie civiltà, come quelle di
tino Spengler, di un Frobenius o di un Ligeti. Questa osservazione non è priva
d’importanza anche in relazione all’intenzione stessa del presente scritto.
Infatti noi qui non ti intendiamo affatto sottolineare tendenziosamente vedute,
quali per caso converrebbero a «sinistri profeti del futuro»: intendiamo invece
precisare oggettivamente alcuni degli aspetti della storia della politica, che
si impongono non appena ci si metta da un punto di vista superiore. E se per
tal via avremo da constatare fenomeni negativi nella società e nelle formazioni
politiche dei tempi ultimi, in ciò non intendiamo tanto riconoscere un destino,
quanto individuare i
tratti di quel che si deve anzitutto realisticamente e virilmente
riconoscere per procedere poi ad una eventuale, vera ricostruzione. Così il
nostro studio si dividerà in tre parti. Anzitutto considereremo gli antecedenti
«tradizionali» della dottrina in parola, consistenti essenzialmente nella
«dottrina delle quattro età». Passeremo poi ad esaminare lo schema dal quale
trae il
suo senso specifico l’idea della regressione delle caste, per poter
individuare storicamente tale idea sì da considerare in tutti i suoi gradi ed
aspetti la progressiva caduta dell’idea di Stato. Infine, svolgeremo delle
considerazioni in ordine agli elementi che la concezione precisata ci offrirà
sia per la comprensione generale dei fenomeni politico-sociali più
caratteristici ai nostri giorni, sia per la determinazione delle vie atte a
condurre verso un migliore avvenire europeo, verso la ricostruzione dell’idea
di Stato. La sensazione tradizionale di un processo involutivo in atto di
realizzarsi nei tempi ultimi, processo per il quale il termine più
caratteristico è quello èddico di «ragna-ròkkr»
(oscuramento del divino), lungi dal restare vaga ed incorporea, determinò
una dottrina organicamente articolata, ritrovantesi un pò dappertutto con
larghissimo e strano margine di uniformità:
la dottrina delle quattro età. Un
processo di decadenza spirituale graduale attraverso quattro cicli o
«generazioni» —in questi termini fu tradizionalmente concepito il senso della
storia. La forma più nota di tale dottrina è quella propria alla tradizione
greco-romana. Esiodo parla appunto di quattro ere, contrassegnate
simbolicamente dai quattro metalli, oro, argento, bronzo e ferro, lungo le
quali da una vita “simile a quella degli
dèi” l’umanità sarebbe passata a forme di una società sempre più dominata
dall’empietà, dalla violenza e dall’ingiustizia. La tradizione indo-ariana ha la
stessa dottrina nei termini di quattro cicli, l’ultimo dei quali ha il nome
significativo di «età oscura» — ka1ì-yuga
— insieme all’immagine del venir meno, in ciascuno di essi, via via di
ciascuno dei quattro «piedi» o sostegni del Toro, simboleggiante il
dharma, cioè la legge tradizionale
d’origine non-umana, la quale in via particolare è quella da cui ciascun essere
trae il suo giusto luogo nella gerarchia sociale definita dalle caste. La
concezione iranica è affine a quella indo-ariana e ellenica, e lo stesso si dica
per quella caldaica. Per quanto in una trasposizione particolare, la stessa idea
trova eco nella tradizione ebraica, nel profetismo parlandosi di una statua
splendente, la cui testa è d’oro, il cui petto e le cui braccia sono d’argento,
il ventre di rame e i piedi di ferro e di argilla: statua, che nelle sue parti
così divise (e tale divisione ha — come vedremo singolare corrispondenza con
quella che nell’uomo primordiale, secondo la tradizione vèdica, determina le
quattro principali caste) rappresenta quattro «regni» che si succederanno a
partir da quello «aureo» del «re dei re
ricevente dal dio del cielo, potenza, forza e gloria». Non solo in Egitto si
riproduce un tale motivo con certe varianti che qui non è il caso di esaminare e
spiegare, ma perfino oltre l’Oceano, nelle antiche tradizioni imperiali azteche.
La relazione fra la dottrina delle quattro età — che in una certa misura si
proietta nel mito o fra le penombre della più alta preistoria— e la dottrina
della regressione delle caste e della relativa caduta dell’idea di Stato si
stabilisce per una doppia via. Anzitutto per questo: per la concezione stessa
che del tempo e dello sviluppo degli eventi nel tempo aveva l’uomo tradizionale.
Per l’uomo tradizionale il tempo non scorreva uniformemente e indefinitamente,
ma si fratturava in cieli o periodi, ciascun punto dei quali aveva una sua
individualità costituendo, insieme con gli altri, la completezza organica di un
tutto. Per tal via, la durata cronologica di un ciclo poteva anche esser labile.
Periodi quantitativamente diseguali potevano esser assimilati, una volta che
ciascuno di essi riproducesse tutti i momenti tipici di un ciclo. Su questa
base, valeva tradizionalmente una corrispondenza analogica fra grandi cicli e
piccoli cicli, che permetteva di considerare uno stesso ritmo, per così dire, su
ottave di diversa ampiezza. E così che esistono delle effettive corrispondenze
fra il ritmo «quattro» quale figura in universale a chiave della dottrina delle
quattro età e il ritmo «quattro» quale figura in un ambito più ristretto, più
concreto e più storico, in relazione alla discesa progressiva dell’autorità
politica dall’una all’altra delle quattro
antiche caste. E i punti caratteristici che nella prima dottrina si
presentano come miti, epperò superstoricamente, possono per ciò stesso
introdurci nel senso di rivolgimenti storici concreti analogicamente
corrispondenti. La seconda giustificazione del nostro metter in relazione le due
dottrine sta in questo: che nella gerarchia delle quattro caste principali,
quale fu tradizionalmente concepita, troviamo fissati, per così dire, in
immobile coesistenza, come strati sovrapposti del tutto sociale, i valori e le
forze che, attraverso la dinamica di un divenire storico, sia pure regressivo,
avrebbero preso a dominare via via in ciascuno dei quattro grandi periodi. Ci
limiteremo a rilevare che nei riguardi della suprema delle caste, quella che
corrisponde alle stirpi dei Re Divini, e nel concetto stesso della funzione da
questi incarnata, dovunque essa si sia manifestata, sono ricorrenti
espressioni, simboli e figurazioni che corrispondono sempre e in modo uniforme a
quelle che, nel mito, vengono riferite alle generazioni del primo ciclo,
dell’età aurea. Se noi abbiamo già visto che nella tradizione ebraica la prima
epoca, aurea, entra direttamente in relazione coi concetto supremo della
regalità — nelle tradizioni classiche è significativa la relazione leggendaria
fra il dio di tale èra, e Giano, poiché questi in un suo aspetto valse come
simbolo per una funzione simultaneamente regale e pontifìcale; nella tradizione
indo—ariana l’età dell’oro è quella in cui la funzione regale, interamente
desta, opera secondo verità e giustizia, mentre l’età oscura è quella in cui
essa “dorme”; nella tradizione egizia la prima dinastia è quella stessa che ha
gli attributi dei Re Solari Osirificati, signori delle due corone, concepiti
come esseri trascendenti — e fin nelle tradizioni dell’ellenismo iranizzato i
sovrani assumevano non di rado le insegne simboliche di Apollo—Mithra, concepito
come il Re Solare di “coloro dell’età aurea”. Per contro, sarebbe facile
mostrare che nelle epoche ultime, nell’età oscura, o del ferro, o del «lupo»,
viene direttamente o indirettamente figurato un predominio di quelle forze
«infere», promiscue, legate alla materia e al lavoro come ad un oscuro destino
— ponos — alle quali nella gerarchia
tradizionale corrispondeva la ultima delle caste (l’età oscura — viene detto
esplicitamente — è quella contrassegnata dall’avvento al potere della casta dei
servi, cioè del puro demos). Mentre,
per una epoca intermedia, sia il suo riferimento all’epoca di semidei come eroi
(Ellade), o a quella in cui il re ha per caratteristica solo l’azione energica
(India), o in cui appaiono forze titaniche in rivolta
(Edda, Bibbia) ci rimanda più o meno
direttamente al principio proprio alla casta dei «guerrieri». E tanto basta per
quel che concerne l’inquadramento «tradizionale» di quella veduta della storia,
che adesso passeremo a considerare nei suoi tratti essenziali. Come premessa,
siamo naturalmente tenuti a precisare e a giustificare ciò che abbiamo chiamato
«gerarchia tradizionale» e la nozione stessa di casta. L’idea-base, è quella di
uno Stato non pure come organismo, ma
altresì come organismo spiritualizzato, tale da innalzare per gradi il singolo
da una vita naturalistica prepersonale ad una vita supernaturale e
superpersonale attraverso un sistema di «partecipazioni» e di subordinazioni
atte a ricondurre costantemente ogni classe di esseri ed ogni forma di attività
ad un unico asse centrale. Si tratta dunque di una gerarchia politico—sociale
con fondamento essenzialmente spirituale, nella quale ciascuna casta o classe
corrispondeva ad una determinata forma
tipica di attività e ad una funzione ben determinata nel tutto. Questo
significato prese particolare risalto nella concezione indo-ariana secondo la
quale, di là delle quattro principali caste, quelle superiori di fronte a quelle
servili erano concepite come l’elemento «divino» di “coloro che sono rinati” —
dvija — culminante in “coloro che
sono simili al sole”, di contro all’elemento «demonico» —
asurya — degli esseri oscuri -
krshna. Per tal via, come premessa
uno degli autori moderni citati al principio, il Berl, parte da una concezione
dinamico—antagonista della gerarchia tradizionale, quasi di lotta fra
kosmos e
chaos: l’aristocrazia sacrale
incorporerebbe il «divino» nella sua funzione olimpica di ordine, e la massa il
«demonico» (non nel senso morale cristiano, ma nel senso di puro elemento
naturalistico): l’uno tenderebbe a trascinare con sé l’altro, e ciascuna delle
forme intermedie corrisponderebbe ad una data mescolanza dei due opposti
elementi. Quanto poi alla ragione della quadripartizione —
quattro principali caste — essa
procede dall’analogia con lo stesso organismo umano. Così per esempio nella
tradizione vèdica le quattro caste sono fatte corrispondere a quattro parti
fondamentali del «corpo» dell’uomo primordiale — e a tutti sono note le riprese
di tali analogie per la giustificazione organica dello Stato, che si ebbero sia
in Grecia (Platone) che a Roma. In realtà, ogni organismo superiore presenta in
connessione gerarchica quattro
funzioni distinte, seppure solidali: al limite inferiore vi sono le energie
indifferenziate prepersonali della vitalità pura. Su di esse però già domina il
sistema degli scambi vitali e dell’economia generale organica (sistema della
vita vegetativa). A questo sistema, peraltro, è soprordinata la
volontà, come ciò che muove e dirige
il corpo come tutto nello spazio e nel tempo. Infine, al sommo, una potenza di
libertà e di intelletto, lo spirito
quale principio sovrannaturale dell’umana personalità. Esattamente questa è,
trasposta in termini di gerarchia sociale, la ragione analogica delle quattro
antiche caste indo-ariane: in corrispondenza -— rispettivamente — a vitalità
subpersonale, economia organica, volontà e spiritualità, vi erano dunque le
quattro caste distinte dei servi — sudra
— della borghesia abbiente, agricola, commerciante e (nei limiti antichi)
industriale — vaicya —
dell’aristocrazia guerriera — kshatriya
— e, infine, di una aristocrazia puramente spirituale che forniva i Re
Divini, o le nature virilmente sacerdotali, gli «iniziati solari» i quali,
concepiti come «più che uomini», apparivano agli occhi di tutti come coloro che
irrepugnabilmente e più di ogni altro avevano il diritto legittimo al comando e
la dignità dei Capi: e di quest’ultima casta i
brahmana, in un certo senso (diremo
poi perché solo «Lfl un certo senso»), furono i rappresentanti nell’antica India
ariana. Chiamiamo tradizionale, e non semplicemente indù, questa
quadripartizione, perché essa effettivamente si lascia ritrovare, in forma più o
meno completa, in varie altre civiltà: Egitto, Persia, Ellade (in una certa
misura), Messico, fino a giungere al nostro Medioevo, che ci mostra parimenti
la quadripartizione sociale supernazionale in servi, borghesia (Terzo stato),
nobiltà, clero. Qui si tratta di applicazioni più o meno complete, ora in sede
di classi, ora in sede di caste vere e proprie, di uno stesso principio, il cui
valore è indipendente dalle sue realizzazioni storiche e che, in ogni modo, ci
presentano uno schema ideale atto a farci comprendere il vero senso dello
sviluppo storico-politico dalle soglie dei cosiddetti tempi storici fino ai
nostri giorni. In ordine al significato complessivo del sistema gerarchico,
sarebbe inesatto, e condurrebbe all’equivoco, data l’accezione corrente della
parola, il qualificarlo come «teocratico». Se in ciò si pensa al tipo di uno
Stato retto da una casta sacerdotale, o clero, così come appare nelle forme più
recenti di religione occidentale, non di questo è il caso nelle costituzioni in
parola. Al vertice della gerarchia, nelle forme politiche veramente originarie
troviamo invece una sintesi inscindibile dei due poteri, cioè del regale e del
sacerdotale, del temporale e dello spirituale in un’unica persona, concepita
quasi come incarnazione di una forza trascendente. Il
Rex era simultaneamente
Deus et Pontifex, e qui, quest’ultima
parola va presa nella trasposizione analogica del suo senso etimologico di «facitore
di ponti» (Festo, S.Bernardo): il Re, come
Pontifex, era il facitore di ponti
fra naturale e sovrannaturale, ed eminentemente in lui era riconosciuta la
presenza della forza dall’alto capace di animare i riti e i sacrifici,
concepiti, questi, come azioni oggettive trascendenti atte a sorreggere
invisibilmente lo Stato e a propiziare la «fortuna» e la «vittoria» dì una
stirpe. Se dall’antica Cina e dall’antico Giappone ci portiamo all’antico
Egitto, alle prime forme regali ellenico—achee e poi romane, ai ceppi nordici
primordiali, alle dinastie degli Inca e così via, noi vediamo sempre
ripresentarsi questo concetto; non troviamo al vertice una casta sacerdotale o
chiesa; vediamo che la «regalità divina»
non riceve da altro (come quando subentrerà il rito dell’investitura) la sua
dignità e autorità: essa — come si diceva nell’antica Cina e come si ripeterà
nell’ideologia ghibellina del Sacro Romano Impero ha direttamente il
«mandato del Cielo» e si presenta
come una specie di «superumanità»
virile e spirituale ad un tempo. Fissar bene questo punto, è essenziale, per
poter individuare dove, idealmente,
si inizio il processo regressivo nei confronti dell’ideale politico
tradizionalmente più alto. In tale ideale la gerarchia delle quattro classi o
caste (qui non possiamo distinguere le due nozioni, nè indicare le premesse
metafisiche con le quali si giustificava la chiusura endogamica) sensibilizzava
dunque i gradi progressivi di una elevazione della personalità in
corrispondenza ad interessi e forme di attività sempre più libere dal vincolo
del vivere immediato e naturalistico. Poiché, rispetto all’anonimato delle masse
intente al mero vivere, già gli organizzatori del lavoro, i possessori
patriarcali di una terra, rappresentavano l’abbozzo di un tipo, di una persona.
Ma nell’ethos eroico del guerriero è
già chiara una forma di superamento attivo dei vincoli umani, la forza di un
«più che vita» — intronata poi come calma dominazione nel capo, lex
animata in terris. L’ideale della
fedeltà— bhakti, dicevano gli
Indo—ariani, fides dicevano i Romani, fides,
Treue, trust ripeterà nel Medioevo —
nella doppia forma di fedeltà alla propria natura e di fedeltà alla casta
superiore, faceva la saldezza della gerarchia ed era via per una partecipazione
dignificante dell’inferiore al superiore attraverso il servigio, la dedizione,
l’obbedienza di fronte ad un principio di autorità eminentemente spirituale:
giacché là dove il regime delle caste — come nell’India — ebbe il suo massimo
rigore, proprio là vediamo le caste più alte imporsi né attraverso la violenza,
né attraverso la ricchezza, ma appunto attraverso l’intima dignità della
funzione che corrispondeva alla loro natura. Con ciò abbiamo tutti gli elementi
per comprendere il corso dei tempi ultimi come una graduale discesa del potere,
dell’autorità e dell’idea di Stato — come pure dei valori e degli ideali
predominanti — dall’uno all’altro dei livelli corrispondenti alle quattro
antiche caste. Infatti l’epoca del potere delle “regalità divine” retrocede già
talmente fra le penombre della preistoria, che oggi ai più riesce estremamente
difficile, se non impossibile, ricostruirne il giusto senso. O si crede di aver
a che fare con miti e superstizioni, o ci si riduce all’accennata formuletta
scolastica spicciativa: “teocrazia”. E quand’anche qualcuno ricordi ancora ciò
che fino a ieri sussisté come residuo di siffatta concezione primordiale e
sacrale — cioè la dottrina del diritto divino dei Re — quegli ne ignora del
tutto le premesse effettive, né sa comunque reintegrarla nella visione
complessiva della vita e del sacrum,
da cui essa trasse originariamente la stia potenza e la sua «legittimità» in
senso superiore e oggettivo. E naturale che voler precisare storicamente le
cause del discendere dell’idea di Stato da quel supremo livello sarebbe
presuntuoso, tanto lontano retrocede tale fenomeno nel terreno malfermo della
preistoria. Tuttavia, in sede ideale, qualcosa si lascia dire con sufficiente
margine di probabilità attraverso le testimonianze concordanti che ci forniscono
le tradizioni orali o scritte di tutti i popoli: noi troviamo gli indizi di
frequente opposizione fra i rappresentanti dei due poteri, l’uno spirituale
l’altro temporale, quali si siano le forme speciali rivestite dall’uno e
dall’altro di questi due poteri per adattarsi alla diversità delle circostanze.
Questo fenomeno che, peraltro, non saprebbe esser originario, segna idealmente
l’inizio della decadenza. Possiamo dire che alla sintesi primordiale, espressa
dalla nozione della Regalità Divina, subentrò allora la separazione e poi
l’antitesi appunto di autorità spirituale e di potere temporale e, a dir vero,
nei termini di una spiritualità che non è più regale ma sacerdotale, e di una
regalità che non è più spirituale e sacrale ma semplicemente e materialmente
«politica» e laica: la tensione gerarchica si allenta, l’apice frana, si produce
come una frattura, che fatalmente dovrà prolungarsi fino ad intaccare dalle
fondamenta l’integrità del tutto tradizionale. Sotto tale riguardo, l’avvento al
potere di una casta semplicemente sacerdotale esprime o una rinuncia dall’alto,
o una usurpazione dal basso, o l’una e l’altra cosa
insieme,
e caratterizza il primo tratto di un arco discendente. Inutile dire, che
qui ci troviamo di fronte ad un fenomeno relativamcnte recente. Lo stesso
primato che in India guadagnò la casta sacerdotale
brahmana è probabilmente da
considerarsi come l’effetto dell’importanza che sempre più assunse il purohita,
il sacerdote originariamente al servizio del re concepito come
«un gran dio sotto forma umana»
allorché l’originaria unità delle razze ariane subì la dispersione. In Egitto
sin verso la XXI dinastia il Re Solare solo eccezionalmente delegava un
sacerdote per compiere i riti e l’autorità sacerdotale restò sempre un riflesso
di quella regale — solo più tardi si costituì la dinastia sacerdotale di Tebe a
detrimento di quella regale. E’ un rivolgimento che, peraltro, si affacciò
anche nell’Iran, ma fu represso con la cacciata del sacerdote Gaumata, il quale
aveva cercato di usurpare la dignità regale. A Roma, secondo la tradizione, il
rex sacrorum non si sarebbe
costituito che con la delega di un potere che, originariamente, fino a Numa, il
re conservava per sé, e che il sovrano riprese per sé nel periodo imperiale — e
fenomeni del genere si potrebbero certamente riscontrare anche altrove. In ogni
modo, l’affermazione di Gelasio I, che
“dopo il Cristo. nessun uomo può più esser ad un tempo re e sacerdote» e
stigmatizzante come diabolica tentazione e creaturale superbia l’aspirazione dei
re ad assumere dignità sacra, può valerci come conclusiva per lo sviluppo di
detto fenomeno: allo stesso modo che, riconoscendo dietro alle rivendicazioni
ghibelline degli imperatori medievali e al carattere stesso dei grandi Ordini
cavallereschi crociati un tentativo ora palese, ora occulto, ma purtroppo in
buona misura ormai anacronistico e incerto, di ricostituire la sintesi dei due
poteri, del regale e del sacrale, dell’eroico e dell’ascetico — nella lotta fra
Impero e Chiesa noi dobbiamo considerare l’ultimo episodio di una vicenda
rifacentesi agli inizi stessi del processo di discesa ora esaminato. Ed è ben di
un processo di discesa che qui si tratta, per questo: che dalla separazione dei
due poteri prese inizio il dualismo, doppiamente distruttivo, di una
spiritualità che si rende sempre più astratta, «ideale», incorporea,
sovramondana in senso cattivo e rinunciatario, da una parte — e dall’altra, di
una realtà politica che si rende sempre più materiale, secolarizzata, laica,
agnostica, dominata da interessi e da forze che sempre più appartengono non pure
al mero «umano», ma infine allo stesso subumano, all’elemento prepersonale del
puro collettivo.
Franato l’apice, il primo fenomeno decisivo per questa discesa, con il
quale il centro passa dalla prima
alla seconda delle quattro caste, può
definirsi come la “rivolta dei guerrieri”. Anche questo fenomeno ha tratti
pressoché universali, e si esprime non solo nella storia, reale o leggendaria,
ma anche nel mito: quasi tutti i
popoli, in relazione spesso con la dottrina delle quattro età (la
corrispondenza è sopra tutto con l’età del bronzo o del «lupo o dell’ascia» o
degli «eroi» in senso ristretto) recando il ricordo di rivolte più o meno «luciferiche»,
di razze di «giganti»
— i nephelim biblici — o di
titani, o di non-dèi — i raksasa e
gli asura indo-ariani — che insorgono
contro figure simboliche per una spiritualità divina, spesso ad affermare il
principio della guerra e della mera violenza — ossia una distorsione del
principio proprio appunto alla casta dei guerrieri — o ad usurpare un fuoco
simbolico, che però si trasforma in motivo di prometeico tormento. E quando non
si tratta appunto di usurpazione
(ossia, in termini concreti: del tentativo del potere semplicemente temporale di
subordinare e ridurre a instrumentum
regni l’autorità spirituale, sia pur divenuta, questa, soltanto
«sacerdotale») — qui si tratta in ogni caso di una rivolta che è sinonimo,
semplicemente, di abdicazione e di mutilazione. Il Guénon assai giustamente
rileva che ogni casta, mettendosi in rivolta e pretendendo di costituirsi come
autonoma, si degrada in un certo qual modo inquantoché perde con ciò stesso la
partecipazione e la facoltà di riconoscimento di un principio superiore, perde
il suo carattere proprio quale l’aveva nell’insieme gerarchico per assumere
quello della casta immediatamente inferiore. Ad ogni modo, a questo punto, per
riferirei agli orizzonti storici a noi più prossimi, siamo all’avvento
dell’epoca dei «re guerrieri», quale è visibile sopra tutto in Europa. Non più
una aristocrazia virilmente spirituale, ma solo una nobiltà
militare secolarizzata sta a capo
degli Stati: fino alle ultime grandi monarchie europee. Qualità sopra tutto
etiche vanno a definirla: quella
certa nobiltà intima, quella certa grandezza e superiorità eroica connessa alla
eredità di un sangue selezionato e
anche a prestanza fisica e a naturale prestigio, che sono i contrassegni
abituali del tipo più recente e già secolarizzato dell’aristocrate. E a tale
livello il Guénon rileva giustamente che per lo Stato più che di
autorità, è ormai il caso di parlare
di potere, questa parola evocando
quasi inevitabilmente l’idea di potenza o forza, e sopra tutto di una forza
materiale, di una potenza che si manifesta visibilmente all’esterno e si afferma
adoperando mezzi esteriori, mentre l’autorità spirituale, interiore per essenza,
non si afferma che da se stessa, indipendentemente da ogni appoggio sensibile, e
si esercita, in un certo senso, invisibilmente: sì che se si può ancora parlare
qui di autorità, è solo in termini di analogia. Passando ora a considerare il
secondo crollo, quello in forza del quale il centro dalla casta dei
guerrieri si porta ancor più giù,
fino alla casta dei mercanti, se ci
riferiamo alla storia europea, esso si annuncia col tramonto del Sacro Romano
Impero, anzi, già con l’opera iniziata da Filippo il Bello.
L’autorità spirituale, trasformatasi in potere temporale, ha per sua
caratteristica una ipertrofia materialistica e devastatrice del principio di
centralizzazione statale. Il sovrano
teme di perdere il suo prestigio di fronte a coloro che, in fondo, sono ormai
suoi pari, cioè ai vari Principi feudali e, per consolidarlo, non si perìta ad
avversare la stessa nobiltà, alleandosi col Terzo stato e non esitando ad
appoggiare le rivendicazioni di questo contro la nobiltà:”E
così che vediamo la regalità, per centralizzarsi e assorbire in sé i poteri che
appartenevano collettivamente alla nobiltà tutta intera, entrare in lotta con
questa e lavorare alla distruzione della feudalità, dalla quale purtuttavia era
sorta: essa d’altronde non poteva farlo che appoggiandosi al Terzo stato, che
corrisponde ai vaicya (la casta indù dei mercanti), ed è per questo che noi
vediamo anche, appunto a partir da Filippo il Bello, i re di Francia circondarsi
quasi costantemente della borghesia, sopra tutto coloro che, come Luigi Xl e
Luigi XIV hanno spinto più lontano
il lavoro di “centralizzazione”, di cui del resto la borghesia doveva in seguito
raccogliere il beneficio quando essa si impadronì del potere con la
rivoluzione”(Guénon). A questo punto si inizia il processo di
sostituzione del sistema nazionale a quello feudale. E nel XIV secolo che le
nazionalità cominciano a costituirsi attraverso il detto lavoro di
centralizzazione. Si ha ragione di dire che la formazione della “nazione
francese”, in particolare, fu l’opera
dei re; questi, per ciò stesso, prepararono senza volerlo la loro rovina. E se
la Francia fu il primo paese europeo in cui la regalità fu rovesciata, è perché
fu in Francia che la “nazionalizzazione” ebbe il suo punto di partenza.
D’altronde, occorre appena ricordare quanto ferocemente la Rivoluzione francese
fu “nazionalista” e “centralizzatrice”, ed anche, quale uso propriamente
rivoluzionario e sovvertitore si fece, durante tutto il corso del XIX secolo, e
fin nella prima guerra mondiale, del cosiddetto
«principio delle nazionalità».
Perciò, se già nei costituirsi delle repubbliche mercantili e delle città libere
se nella rivolta dei Comuni contro l’autorità imperiale e poi nelle guerre dei
contadini abbiamo i prodromi del gonfiarsi dal basso dell’onda sovvertitrice,
l’assolutismo centralizzatore dei re guerrieri, in atto di costituire dei poteri
pubblici in sostituzione materialistica del cemento puramente spirituale dato
dal precedente ideale della fides, con abolizione di ogni privilegio e della
stessa nozione dello jus singulare
nel quale ancora si conservava qualcosa dell’antico principio delle caste -
un tale assolutismo apre dall’alto le vie e va incontro a quell’onda dal
basso, alla demagogia: e i poteri pubblici saranno l’organo in cui, scalzata la
monarchia, o ridottasi questa a vuoto simbolo con le costituzioni e con la
famosa formula del Thiers: «Le roi règne,
mais il ne gouverne pas», doveva incarnarsi il mero collettivo, la nazione,
dapprima sotto specie di Terzo stato.
Attraverso la rivoluzione liberale abbassandosi l’idea della
giustificazione dello Stato a quella
mercantile e utilitaristica di un «contratto sociale», prende forma infatti
il capitalismo moderno e, infine, l’oligarchia capitalistica, la plutocrazia,
finisce col controllare e col dominare la realtà politica — il potere scende
cioè a quel che in termini tradizionali corrisponde al livello della
terza casta, all’antica casta dei
mercanti. Con l’avvento della
borghesia, l’economia viene a dominare su tutta la linea e la supremazia di essa
viene apertamente proclamata nei riguardi di ogni sussistente resto dei principi
non diciamo spirituali, ma semplicemente etici ancora vivi nel mondo politico
occidentale. È la teoria paretiana dei
«residui» e quella marxista delle
«superstrutture». Per la forza di una logica piena di significato, la
denominazione regale passa ai «re del dollaro», ai «re del carbone», ai «re
dell’acciaio», e via dicendo. Ma come l’usurpazione chiama l’usurpazione, dopo i
borghesi sono ora i servi che, a loro volta, aspirano al dominio. Lo
pseudoliberalismo della borghesia doveva richiamare fatalmente il «socialismo»
in regime di masse e, questo, elementi ancor più inferiori, la pura «demonia»
del collettivo. Fomentato dalle distruzioni internazionalistiche,
antitradizionalistiche, illuministiche e democratiche inevitabilmente connesse
al tipo moderno di civiltà e di cultura, con il marxismo, la terza
internazionale, il manifesto del comunismo, la rivolta proletaria contro la
borghesia capitalistica e, infine, con la rivoluzione russa e il nuovo ideale
collettivistico bolscevico si assiste all’ultimo crollo, all’avvento della
quarta casta: il potere passa nelle
mani della mera massa priva di volto, la quale volge ad instaurare una nuova
epoca universale dell’umanità sotto i rozzi segni di falce e martello. E qui il
Berl forza le tinte: per lui con l’avvento del Quarto stato siamo al vestibolo
del mondo subumano. Il Quarto stato è disanimato e il suo scopo è la
disanimazione della vita, della società, della stessa interiorità umana: e tali,
dopo lo standardismo e il taylorismo americano, sono i fini perseguiti dalla
cosiddetta “purificazione proletaria» dai residui dell’Io borghese e dal
cosiddetto messianismo tecnico
sovietico. D’altronde, estraendo dalla forma mitica il contenuto reale,
rivolgimenti del genere furono preveduti in più di un insegnamento tradizionale.
Se l’Edda profetizza
«giorni amari» in cui gli esseri
della terra — gli Elementarwesen -
proromperanno a travolgere le forze divine e i
«figli di Muspell» spezzeranno l’arco
Bifròst che unisce cielo a terra (si
ricordi l’anzidetto simbolismo della funzione pontiflcale della sovranità quale
facitrice di ponti), un tema analogo si trova per esempio nella leggenda che, da
tempi remoti, giunse nel Medioevo e vi costituì una specie di
leitmotiv: la leggenda delle genti
«demoniche» di Gog e Magog che,
spezzando la simbolica muraglia di ferro con cui una figura imperiale aveva loro
sbarrata la via (simbolo per i limiti tradizionali e per l’ideale dello Stato
quale kosmos vittorioso su chaos), proromperanno per cercar di vincere l’ultima
battaglia impadronirsi di tutte le potenze della terra. D’altra parte, già
accennammo che secondo la tradizione indo-ariana il
kalì-yuga, o età oscura, sarebbe
caratterizzato dal predominare della casta dei servi, dal prorompere di una
razza di barbari senza fede, «intenti a
apprezzare la terra solo per i tesori che essa contiene»(Vishnu-Purana).
Togliendo a tutto ciò l’elemento
coreografico-apocalittico, qui sarebbe difficile non riconoscere la
corrispondenza della nuova «civiltà» sovietica della bestia senza volto - senza
volto perché composta da una moltitudine innumerevole — in atto di costruirsi
razionalmente i più moderni strumenti di meccanica potenza. Se il contemporaneo
Julien Benda profetizza come epilogo del fenomeno, da lui precisato, della
trahison des clercs:” l’umanità, e non
più una certa frazione di essa, prenderà sé stessa per oggetto di religione. Si
arriverà così ad una fratellanza universale che, lungi dall’abolire lo spirito
di nazione con i suoi appetiti e i
suoi orgogli, ne sarà la forma suprema, la nazione chiamandosi l’Uomo e il
nemico Dio. E da quel momento, unificata in una armata immensa e in una immensa
officina, non conoscendo più che discipline e invenzioni, infamando ogni
attività libera e disinteressata e non avendo per Dio che sé stessa e i suoi
voleri, l’umanità giungerà a grandi cose, cioè ad una presa veramente grandiosa
sulla materia che la circonda” — se un Benda scrive ciò, qui vediamo proprio
una specie di traduzione aggiornata dei termini dell’antica profezia
tradizionale. In realtà, se si è giunti a pensare che non pure l’idea di casta,
ma anche quella di classe è una idea superata e se si è affacciata la
convinzione che la stessa famiglia e la stessa personalità sono dei pregiudizi
borghesi e, infine, che l’idea tradizionale di nazione non ha più un futuro,
come più alto ideale ponendosi un conglomerato internazionale omogeneo,
proletarizzato, avente per unico cemento il lavoro — è facile riconoscere che si
sta facendo largo un concetto sociale conforme non più all’una o all’altra delle
caste, ma addirittura al fuori casta, al paria: nel paria essendo stato
considerato appunto chi è senza personalità,
né culto: insomma, l’uomo libero. È
dunque alla glorificazione del paria e alla sua costituzione a modello
universale presso ai miraggi di una potenza puramente arimanica, che sembra
sbloccare il vantato progresso dell’Occidente, auspice prima la disgregazione
individualistica e illuministica, poi il fermento barbarico connaturato
nell’anima slava in connubio col materialismo storico dell’ebreo Carlo Marx.
Così è evidente che come senso generale di questo processo della regressione
delle caste e della caduta dell’idea di Stato si ha il trapasso involutivo della
personalità spirituale al collettivo prepersonale del quale,
in forma mistica, era simbolo il
totem delle società primitive. In
realtà, solo aderendo ad una attività libera l’uomo può esser libero e
sé stesso. Così nei due simboli
dell’azione pura (eroismo, assunzione della vita a rito) e della conoscenza pura
(contemplazione, ascesi) sostenuti da un regime di giusta diseguaglianza
(suum cuique), le due caste
superiori aprivano all’uomo vie di partecipazione a quell’ordine sovramondano,
solo nel quale egli può appartenere a sé stesso e cogliere il senso integrale e
universale della personalità. Nel distruggere ogni interesse per quell’ordine,
nel concentrarsi sulla parte passionale e naturalistica del proprio essere, su
scopi pratici e utilitari, su realizzazioni economiche e su ogni altro degli
oggetti originariamente propri solo alle caste inferiori, l’uomo invece abdica,
si discentra, si disintegra, si riapre a quelle forze irrazionali e prepersonali
della vita collettiva, elevarsi al disopra delle quali costituì lo sforzo di
ogni cultura veramente degna di questo nome. E così che, una volta avvenuta la
disgregazione e la rivolta individualistica, nelle forme sociali dei tempi
ultimi il collettivo acquista sempre più potenza, fino al punto di ridestare, in
forma nuova, ma ancor più temibile, perché meccanizzata, razionalizzata,
centralizzata e tradotta in termini di despotismo sociale, economico o statale,
il totemismo delle tribù primitive.
La nazione giacobinamente concepita, il «popolo», la società, o l’umanità
assurgono ora ad una personalità mistica e esigono dai singoli, che di essa sono
parte, dedizione e subordinazione incondizionate, mentre in nome della
«libertà» viene fomentato demagogicamente l’odio per quelle individualità
superiori e dominatrici, solo di fronte alle quali il principio della
subordinazione e dell’obbedienza dei singoli era sacro e giustificato. E questa
tirannide del gruppo non si limita ad affermarsi in ciò che nella vita del
singolo ha carattere «politico» e «sociale»: essa si arroga un diritto morale e
spirituale, e pretendendo che cultura e spirito cessino di esser forme
disinteressate di attività, vie per l’elevazione e la dignifìcazione della
personalità e quindi per la realizzazione dei presupposti stessi di ogni
gerarchia vera e virile, e divengano organi al servigio dell’ente temporale
collettivo; dando l’ostracismo ad ogni
«movente sovrannaturale o comunque estraneo agli interessi della classe»
(Lenin) e scoprendo, per tal via, «in
ogni intellettuale un nemico del potere sovietico» (Zinoviev), essa bandisce
proprio la morale di chi afferma che mente e volontà solo hanno valore, quando
si riducano a strumenti a servigio del corpo. D’altronde, la regressione
quadripartita non ha solo carattere politico-sociale e psicologico, ma è anche
quella di una data etica in una inferiore, di una data concezione della vita in
una inferiore. Infatti mentre all’epoca «solare» era proprio l’ideale della
spiritualità pura e l’etica della liberazione attiva dalla caducità umana;
mentre all’epoca dei «guerrieri» era proprio ancora l’ideale dell’eroismo, della
vittoria e della signoria e l’etica aristocratica dell’onore, della fedeltà e
della cavalleria — nell’epoca dei «mercanti» l’ideale è la ricchezza
(prosperity) , l’economia pura, il
guadagno concepito — secondo la deviazione puritana derivata dall’eresia
protestantica — come segno dell’approvazione divina, l’ascesi del capitalismo,
la scienza come strumento di sfruttamento tecnico-industriale propiziatore di
produzione e di nuovo guadagno o di degradante razionalizzazione della vita — e
infine con l’avvento dei «servi» sorge l’ideale del «servizio» anodino all’ente
collettivo socializzato e l’etica universale proletaria del
lavoro (“chi non lavora non mangia”)
con degradazione di ogni forma superiore di attività appunto in assunzioni sotto
specie di «lavoro» e «servizio», cioè di quel che solo era il «dovere», il «modo
d’essere», dell’ultima delle caste. E considerazioni analoghe, constatazioni di
un ritmo quadripartito di caduta si potrebbero facilmente fare in ordine a molti
altri domini: famiglia, arte, guerra, proprietà, ecc. La dottrina della
regressione delle caste invero manifesta in ciò la sua fecondità: essa ci dà la
possibilità di cogliere il senso complessivo di fenomeni vari, che di solito
sono considerati separatamente, senza sospetto dell’intelligenza a cui
obbediscono, e sono avversati confusamente dai più senza una sensazione nè delle
linee nemiche vere nè delle posizioni, solo riferendosi alle quali è possibile
una vera difesa e una radicale reazione ricostruttrice. Ora, proprio questo
punto deve attirare la nostra attenzione: il problema ricostruttivo, la
restaurazione dell’idea vera di Stato. Il Guénon giustamente rileva che nella
misura in cui ci si sprofonda nella materialità, l’instabilità cresce, i
cambiamenti si producono in modo sempre più rapido. Così il regno della
borghesia non potrà avere che una durata relativamente breve in confronto di
quella del regime a cui esso è succeduto, e se elementi ancor più inferiori
accedono al potere in un modo o nell’altro — nelle varietà dell’avvento del mero
collettivo — e da prevedersi che il loro regno sarà verosimilmente il più breve
di tutti e segnerà l’ultima fase di un certo ciclo storico, dato che non si può
scendere più in basso.