Appunto perché l'argomento oggi in Italia è, come si suol dire, in voga, fra
i numerosi nuovi lavori dedicati a Giulio Cesare son pochi quelli che presentano
un valore effettivo. In tale condizione, i più, infatti, son portati a trattar
questo o analoghi soggetti più per ragioni di convenienza e quasi di
opportunismo che non per un interesse spontaneo, sentito e confortato da seria
preparazione e comprensione.
Un altro dei difetti del più dei lavori moderni su Cesare procede poi
dall'applicazione di un punto di vista esclusivamente « umanista ». Il
cosiddetto « culto della personalità », il concentramento di ogni interesse
sulla parte semplicemente « umana » delle grandi figure del mondo antico quasi
prendendo a principio per la comprensione loro il tipo del « condottiere » della
Rinascenza - tutto ciò costituisce un pregiudizio invero limitatore, se non pure
contaminante. Del che, Cesare è fra coloro che più hanno a soffrire, appunto per
il fatto che alcuni suoi tratti si prestano particolarmente a colpire in tal
senso l'immaginazione di coloro che già vi sono inclinati: mentre altri
caratteri, superpersonali e vorremmo dire « fatidici », vengono a cadere
nell'ombra. La formula « Le personalità fanno la storia » è tanto vera se
ricondotta al suo giusto ambito e contrapposta ad un determinismo di carattere
inferiore, materialistico o sociologico, quanto è pericolosa se portata più
oltre, tanto da precludere la penetrazione di quell'aspetto delle grandi figure
storiche, secondo il quale esse ci appaiono, se non come strumenti, almeno come
elementi in un piano d'ordine superiore, in uno sviluppo che - come
quello di ogni grandezza - non si lascia spiegare con fattori semplicemente
umani. Una considerazione della figura di Giulio Cesare che prendesse le mosse
da questo punto di vista distaccandosi dalla abituale valutazione « umanistica
», politico-militare e letteraria sarebbe invero assai desiderabile nel nuovo
clima culturale italiano.
Queste riflessioni ci son tornate in mente in occasione
della lettura di un'opera nuova su Cesare, dovuta a Giovanni Costa (
nota 1 ). Qui non possiamo fare una « recensione » del libro, cosa che ci
riuscirebbe piuttosto banale. Come diretto riferimento ad esso ci limiteremo
dunque a dire che si tratta di una esposizione chiara, equilibrata, compendiosa
e rivolta al gran pubblico, della vita e dell'opera di Cesare, esposizione che
però risulta alquanto sincopata da una certa tal quale forma mentis
razionalista dell'Autore, che ad ogni istante ha scrupolo di andar di là da
quanto i cosiddetti dati « positivi » possono fondare e di utilizzare
adeguatamente tutto quel che se, come tradizione e mito, può esser destituito di
verità storica nel senso volgare, appunto per questo assurge al valore di
testimonianza certa per significati di un ordine superiore, essi soli atti a
introdurci nel lato interno, e quindi più essenziale, di una data realtà. Per
tal via, questa stessa nuova opera, se è aliena da fronzoli retorici, da «
letterarizzazioni » e da ostentate apologie, se essa ci appare dignitosa e
testimoniante la ponderatezza d'uno « studioso », pure non sfugge essa stessa,
nei riguardi di Cesare, all'anzidetto « umanismo », che talvolta si intreccia
perfino con qualche vena di scetticismo, a diminuirne alquanto la statura.
Eppure il libro si apre con una impostazione, la quale fa pensare che l'Autore
abbia imbroccata subito la via giusta, che al Costa sia riuscito cogliere quel
punto centrale, che permetterebbe di ordinare i tratti essenziali della figura,
dell'azione e della funzione di Cesare appunto in un riferimento non
semplicemente storico, ma storico e in pari tempo superstorico. Il Costa infatti
prende le mosse dal discorso che Cesare adolescente tenne in occasione delle
esequie della moglie di Caio Mario quale discendente dell'antichissima, gloriosa
e quasi leggendaria gens Julia. Cesare pronunciò in tale occasione queste parole
fatidiche:
« Nella mia stirpe vi è la maestà dei re, che eccellono per
potenza fra gli uomini, e la sacrila degli dèi, che hanno la
potenza dei re nelle loro mani ».
Il Costa qui vede l'affiorare di un principio - nuovo e antico ad un tempo - che
risuona già come un'allarmante squillo nell'ambiente agitato, infido, disgregato
e liberaleggiante della romanità dell'ultimo secolo avanti Cristo, quasi
preludio all'opera del futuro dominatore. Ma già nel riferimento a quella
formula Paspet- 12 to del semplice imperator - che nella lingua del tempo
designava il mero duce militare - è superato e si stabilisce un nesso evidente e
pieno di significato con una idea tradizionale e primordiale, già incarnatasi in
alcuni aspetti della Roma prisca dei Re, ma, oltre ciò, universale, perché
ritrovabile, in una forma o nell'altra, in un ciclo tipico che riprende in sé le
più grandi civiltà gerarchico-spirituali del mondo preantico. Tale idea è già
quella del sacrum imperium, del regnum che si giustifica come una
istituzione non soltanto temporale, ma temporale e in pari tempo sostenuta e
resa trascendente da una forza o influenza dall'alto. Ma il Costa si direbbe che
abbia avuto paura di toccare questo punto giusto per una interpretazione di tipo
superiore, onde subito noi lo vediamo intento a sminuirne la portata anzitutto
non sapendo connettere ad altro quella idea di Cesare, se non a presunte «
reminiscenze ellenicoasiatiche » e poi bruciando abbondanti grani d'incenso ai
pregiudizi positivisti circa le « favole », le « storielle » e le « divertenti
avventure » che sarebbero le simboliche tradizioni antiche circa le origini
superstoriche di Roma.
Per tal via, il Costa si è dato a fare il contrario di quel che, dal nostro
punto di vista, sarebbe stato da farsi: considerar, cioè, Cesare in funzione di
un fatale, superpersonale compiersi dell'idea del Regnum, in un primo tempo
rivelatasi istintivamente e quasi diremmo incoscientemente in un tratto
d'eloquenza del giovane patrizio, in un secondo tempo agente come potenza
oggettiva di destino attraverso l' «umanità» e l'azione militare di Cesare,
infine facentesi coscienza a se stessa e coscienza dello stesso « dittatore
perpetuo » nella nuova costituzione romana. Tuttavia è estremamente
significativo che, malgrado le sue intenzioni, il Costa sia venuto più o meno
allo stesso punto. Egli ci descrive Cesare come una specie di anticlericale
positivista avant la lettre, che tuttavia attraverso l'affermazione della
sua potente personalità finisce col credere a qualcosa di più che non a questa
semplice umana personalità: certo, non a divinità esterne o a « redentori » alla
sirio-semitica, bensì ad una mistica, misteriosa forza di fortuna e di vittoria
- felicitas Caesaris, fortuna Caesaris - che gli si rendeva via via evidente
come anima occulta o setterranca scaturigine di tutto ciò che attraverso di lui
andava creandosi nel mondo visibile. Una tale forza, nella sua personificazione
di Venus Victrix e Venus Genitrix, da Cesare fu posta poi nella più stretta
connessione con la forza primordiale generatrice della sua stessa stirpe: il che
significa che essa gli apparve in connessione con lo stesso principio,
riferendosi al quale il giovane Cesare aveva proclamata la anzidetta dottrina
del Regnum, e quasi come concreta efficacia di tale principio nella romanità e
nel mondo. In più, se il Costa scopre una unità d'intento e di volere dietro
alla varietà - spesso contraddittoria, se non perfino machiavellica e
opportunistica, malgrado tutto subordinata costantemente ad una formula: la
dignità propria e la dignità del popolo romano - dei mezzi o dei fini immediati
eletti da Cesare nelle varie fasi della sua ascesa - anche da qui si lascia
presentire lo stesso motivo, cioè: il parallelismo di due serie, dominio, l'una,
della « persona », e l'altra di un principio superiore, dal quale l'elemento «
persona » in una fase preliminare è, per dir così, agito, ma nel quale alla fine
esso si trasfigura e si incentra.
Dire che Cesare, il quale « non è un credente non solo nel senso della prassi
formalistica dei Romani, ma neppure nel largo senso religioso che potrebbero
riconoscergli i moderni » e fa anche a meno delle ipotesi devote o speculative
circa l'immortalità dell'anima, quasi attraverso una sensazione dette nuova vita
all'idea « antica primitiva della Fortuna romana » elemento cosmico e
impersonale, « unica attrice soprattutto nelle cose di guerra », e che questa fu
« l'unica concezione che, una volta formatasi in lui, lo ebbe tenace
sostenitore, tanto che nell'ultimo periodo della sua vita può venire il dubbio
che l'abbia talmente trasfusa in sé e talmente confusa con le sue sorti tanto da
ritenersi anche lui, come molti lo ritenevano, « divino »; ripetere che « in
Cesare però ciò si unisce all'elemento personale che abitualmente riscontriamo
in tutti gli uomini di genio, i quali sentono il daemonium fervere a tal
punto in sé, da obbiettarlo e farlo motivo di una specie di esaltazione da cui
traggono di necessità energia e fede per lo svolgimento dell'opera propria.
Perciò si potrebbe seguire, con il progredire della sua fortuna in guerra, il
maturarsi e il compiersi di questa sua concezione (della fortuna Caesatis)...
come una fede e una spiegazione che a poco a poco pare astragga dalla persona e
dagli eventi cesariani », sì che « tanto egli che i suoi contemporanei vedevan
qualcosa di inesplicabile in cui credevano passar l'aura del numinoso » - dire
tutto ciò significa constatare, sia pure attraverso reticenze e tituban- 16 ze,
e con le solite limitazioni e pseudo-spiegazioni psicologistiche e empiristiche
di rigore presso agli storici e ai « ricercatori » moderni, appunto l'elemento
di «fatidicità» sopraindicato e da noi non inteso come una sensazione generica,
ma compreso in connessione col principio stesso del Regnum, in atto di dar forma
ad una nuova civiltà universale attraverso la potenza romana. Cesare è colui
che, nello stesso riferimento ad una figura non certo di primo piano, quale
Cicerone, poteva dire esser cosa superiore in gloria allargare i confini
dell'impero spirituale che non quella di un qualunque trionfatore, ampliatore
dell'impero materiale - e Cesare è in pari tempo colui che nel suo stile non ha
nulla di mistico e di vago, la cui essenzialità e lucidità, più che dello «
spiritualista » o del letterato, è dello scienziato o dell'uomo d'azione.
Cesare è colui che nutre una rivoluzionaria indifferenza per gli auguri e i
sacrifici - ed è colui che in pari tempo dall'affermazione della sua personalità
direttamente tradotta in termini d'azione oggettiva e vittoriosa coglie, come si
è detto, di contro ad un fatalismo di carattere esteriore e sacerdotale, la
sensazione di un fatalismo di carattere superiore e immanen- te, adombrato dalla
forza delle origini. Chi comprende in una sintesi questi elementi, si avvicina
al segreto della figura di Cesare, epperò, attraverso di lui, anche a quello
dell'« eroe occidentale » per eccellenza.
In un tale « eroe » vi è del « dorico » come personalità, chiarezza,
essenzialità, azione - ma tutto ciò non si esaurisce nell' « umanistico », nel
puramente profano. Già la civiltà greca né nel tiranno traente la sua potenza
dall'oscura sostanza del demos o da un effimero prestigio personale né nel tipo
« titanico » e « prometeico », bensì nel tipo del vincitore simbolicamente
alleato agli « Olimpici » - in Eracle - riconobbe il suo ideale eroico. Un tale
ideale può porsi di là sia dal « mistico » che dal sacerdotale in senso
ristretto, e raggiungere secondo un suo modo specifico un superiore piano, una
certa tal quale trascendenza e fatidicità, attraverso il punto in cui, secondo
la formula già usata, l'estremo limite dell'esser « personalità » fa tutt'uno
con l'esser più che personalità.
Il principio del regnum che attraverso Cesare si creò, per così dire, le
elementari condizioni corporeo-politiche e psicologico-sociali per la sua
incarnazione e affermazione universale, sincopato dalla tragica fine del grande
Imperatore, doveva riaffermarsi e svolgersi anche in sede direttamente
spirituale attraverso una vera e propria riforma del culto romano con Cesare
Augusto. Qui non possiamo sviluppare delle considerazioni volte a stabilire la
segreta continuità ideale che corre fra queste due figure della romanità:
continuità di solito non compresa appunto perché in Cesare di solito viene
accentuato deformativamente il solo aspetto del dittatore e del duce militare, o
imperator. Questo sarebbe dunque un soggetto fra i più suggestivi per chi avesse
una adeguata mentalità e preparazione dottrinale per trattarlo: appunto in
funzione del principio del regnum verrebbe allora in luce 1' « eternità »
dell'impero romano, non nei termini di un modo di dire glorificativo, ma per il
riferimento ad un'idea che, più che storica - cioè sorta dal contingente e dal
perituro - è da dirsi « metafisica » e, come tale, dotata di perenne vita e
della dignità del « sempre ed ovunque » di fronte ad un significato fondamentale
della civiltà quale virile spiritualità.