Julius Evola Sul Carattere Primordiale del Patriziato |
La civiltà indo-aria presenta una delle più complete
applicazioni di questi principii. In essa la casta brahmana, o brahman, non
stava al sommo della gerarchia per via della forza materiale o della ricchezza,
nemmeno di una organizzazione sul tipo di una Chiesa. Solo il rito sacrificale,
che era suo privilegio, determinava la distanza fra la casta brahmana e le
altre. Il rito ed il sacrificio, investendo chi lo esercita di una specie di
carica psichica, ad un tempo temibile e benefica, fa partecipi i brahmana della
stessa natura delle potenze invocate e questa qualità non solo resterà per tutta
la vita alla persona facendola, direttamente come tale, superiore, venerata e
temuta, ma si trasmetterà alla discendenza. Passata nel sangue come una
trascendente eredità, essa diverrà una proprietà di razza che il rito di
iniziazione varrà via via a rendere di nuovo attiva ed efficace nel singolo (1).
La dignità di una casta si misurava sia dalla difficoltà che dall’utilità delle
funzioni che essa aveva in proprio. Ma, appunto per i presupposti dianzi
accennati, nel mondo della Tradizione nulla era considerato più utile delle
influenze spirituali che il rito poteva attivare con la sua azione necessitante
(2); e nulla appariva più difficile dell’entrare in un rapporto reale attivo con
le forze invisibili, pronte a travolgere l’imprudente che le affrontasse senza
conoscenza e senza possedere la qualificazione necessaria. Solo per questo,
sparsa come era, unicamente quale unità immateriale di singoli individui non
soltanto umani, la casta brahmana poté imporre in India alle masse fin da tempi
antichissimi un rispetto e avere un prestigio che nessun tiranno fra i meglio
armati ha mai posseduto (3).
Del pari, sia in Cina che in Grecia ed a Roma il patriziato era definito
essenzialmente dal possesso e dall’esercizio dei riti legati alla forza divina
del capostipite, riti che la plebe non possedeva. Solo i patrizi, in Cina,
praticavano i riti – yi-li – i plebei non avendo che dei costumi – su. Alla
massima estremo-orientale: “I riti non scendono sino alla gente volgare” (4) fa
riscontro il noto detto di Appio Claudio: “Auspicia sunt patrum” [2]. Una
espressione caratterizzava i plebei: sono senza riti, non hanno avi – gentem non
habent. Per questo, a Roma agli occhi dei patrizii il modo della loro vita e
delle loro unioni non era considerato troppo dissimile da quello degli animali –
more ferarum. L’elemento sovrannaturale restava dunque alla base del concetto
del patriziato tradizionale al pari di quello della regalità legittima: una
tradizione sacra, non semplicemente una tradizione di sangue e una selezione
razziale, faceva tale l’antico aristòcrate. E, in realtà, anche un animale può
possedere una purità biologica-vitale, anche esso può presentare una integrità
del sangue. Del resto, nel regime delle caste la legge del sangue, dell’eredità
e della chiusura endogamica valeva non per il solo brahmana, ma anche per le
altre caste. Non era dunque in questo senso che il plebeo veniva definito dal
non aver avi: il principio vero della differenza era dato invece dal fatto che
gli avi del plebeo e del servo non erano “avi divini” – divi parentes – come
quelli dei ceppi patrizii. Col sangue, in essi non si trasmetteva nessuna
qualità di carattere trascendente e nessuna “forma” affidata ad una tradizione
rituale rigorosa e segreta reggeva la loro vita. Privi di quel potere, per il
quale l’aristocrazia poteva celebrare direttamente il proprio culto particolare,
sì da essere simultaneamente classe sacerdotale (antico mondo classico, antichi
ceppi nordico-germanici, estremo Oriente, ecc.); privi di quella seconda
nascita, che caratterizzava l’arya – il nobile – e per cui nel
Manavadharmasastra (5) non si esita ad affermare che, sino a quando non è
passato attraverso la rinascita, lo stesso arya non è superiore al sudra [3];
non purificati da nessuno di quei tre fuochi celesti che nell’Iran valevano come
occulta anima delle tre classi superiori dell’Impero; privi dell’elemento
“solare” che nell’antico Perù contrassegnava la casta degli Inca – i plebei da
nessun limite erano trattenuti dalla promiscuità. Non avevano dunque alcun vero
culto in proprio così come, in senso superiore, non avevano un padre – patrem
ciere non possunt (6). La loro religione non poteva perciò essere che di
carattere collettivo e ctonio. In India, saranno le forme frenetico-estatiche
più o meno legate al substrato delle razze pre-arie. Nelle civiltà mediterranee
sarà, come vedremo, il “culto delle Madri” e delle forze sotterranee, in opposto
alle forme luminose della tradizione eroica e olimpica. Chiamati “figli della
Terra” nell’antica Roma, i plebei ebbero un rapporto religioso appunto e
soprattutto con le divinità feminili della Terra. Anche nell’estremo Oriente
alla religione aristocratica ufficiale si opponevano le pratiche di coloro che
spesso venivano chiamati gli “ossessi” – ling-pao – e i culti popolari di tipo
mòngolo-sciamanico.
Nelle antiche tradizioni germaniche ricorre egualmente la concezione
sovrannaturale dell’aristocrazia non solo pel fatto che ogni capo era
simultaneamente il sacerdote della sua gente e del suo dominio, ma anche nel
fatto che il possedere per avo un essere divino distingueva, dalle rimanenti, le
famiglie, solo fra i membri delle quali originariamente si sceglievano i re. Per
questo, il re appariva in una dignità differente da quella propria al capo
militare – dux, hertigo – eletto volta per volta per le imprese di guerra sulla
base delle sue riconosciute capacità individuali, e gli antichi re norvegesi si
presentavano come coloro che, soli, senza l’ausilio di una casta sacerdotale,
celebravano i riti (7). Perfino fra le cosiddette popolazioni primitive i
non-iniziati hanno rappresentato i “barbari” della loro società, esclusi da
tutti i privilegi politici e guerrieri del clan. Prima dei riti “destinati a
cambiare intimamente la loro natura” e che si uniscono spesso a dure prove e ad
un periodo di isolamento, i singoli non sono considerati nemmeno come uomini
veri, essi fanno corpo con le donne e i bambini, se non pure con gli animali. E’
attraverso la vita nuova che si desta mediante l’iniziazione, presso ad uno
schema rituale e magico di morte e rinascita, vita a cui corrisponderanno un
nuovo nome, un nuovo linguaggio e nuove attribuzioni e che è “quasi immemore
dell’antica”, che si va a far parte del gruppo dei veri uomini che hanno in mano
la comunità, quasi nei termini della partecipazione ad un “mistero” e
dell’aggregazione ad un Ordine (8). Non a torto autori, come H. Schurtz, hanno
voluto vedere proprio in ciò il germe di ogni unità propriamente politica, cosa
che concorda effettivamente con quanto si è detto in precedenza circa il piano
proprio ad ogni Stato tradizionale, piano diverso da quello di qualsiasi unità a
base naturalistica. Tali “gruppi virili” – Männerbunde – ai quali si è ammessi
attraverso una rigenerazione che “rende davvero uomini” e che differenzia da
tutti gli altri membri della comunità, hanno in mano il potere, l’imperium,
godendo di un incontrastato prestigio (9).
Solo in tempi recenti il concetto dell’aristocrazia prenderà, come la regalità e
tutto il resto, un carattere soltanto secolare e politico. Dapprima si baserà su
qualità di carattere e di razza, sull’onore, sul valore, sulla fedeltà, nella
noblesse d’épée e nella noblesse de cour, poi sorgerà il concetto plebeo
dell’aristocrazia che nega lo stesso diritto del sangue e della tradizione.
In tale concetto rientra essenzialmente anche la cosidetta “aristocrazia della
cultura” o degli “intellettuali” nata in margine alla civiltà borghese. Vi è chi
ha fatto dello spirito circa la risposta del capo di una grande casa patrizia
tedesca, al tempo di un censimento sotto Federico il Grande: “Analphabet wegen
des hohen Adels” [4] – e circa quanto si riferisce alla concezione antica dei
lords inglesi, considerati, come qualcuno ha detto, “sapienti di diritto, dotti
anche se non sanno leggere”. La verità è nel quadro di una concezione gerarchica
normale mai l’ “intellettualità”, solo la “spiritualità” intesa come principio
creatore di precise differenze ontologiche e esistenziali, fa da base al tipo
aristocratico e al suo diritto. La tradizione, sopra accennata, giunge, per
quanto attenuata, fino alla nobiltà cavalleresca che, nei grandi Ordini
medievali, rivestì, come si vedrà, un certo aspetto ascetico e sacrale. Ma già
qui la nobiltà ha spesso il suo principal riferimento a qualcosa di sacro non in
sé, ma fuori di sé, in una classe distinta dalla nobiltà stessa, che è il clero,
esponente, a sua volta, di una spiritualità lontana da quella delle élites
originarie.
Dopo di che, va rilevato che l’elemento rituale e sacrale fondava non soltanto
l’autorità delle caste superiori, ma anche quella del PADRE all’interno
dell’antica famiglia gentilizia. Specie nelle società arie occidentali, in
Grecia ed a Roma, il pater familias rivestì originariamente un carattere simile
a quello del re sacerdotale. Già il vocabolo pater era, per la sua radice,
sinonimo di re, dai vocaboli rex, anax, basilèus; quindi implicava non solo
l’idea di una potestà, di una maestosa dignità (10): né sono prive di fondamento
le vedute, che considerano nello Stato un’applicazione più in grande dello
stesso principio che originariamente costituì la famiglia patrizia. Peraltro, il
pater, se era il capo militare e il signore di giustizia per i suoi congiunti e
i suoi servi, in primis et ante omnia era però colui cui spettava eseguire i
riti e i sacrifici tradizionali, che ogni famiglia aveva in proprio e che di
essa costituivano la già accennata eredità non-umana.
Questa eredità promanante dal capostipite, aveva altresì per supporto il FUOCO
(i trenta fuochi delle trenta genti intorno al fuoco centrale di Vesta nella
Roma prisca) che, alimentato da sostanze speciali, acceso secondo determinate
norme rituali segrete, ogni famiglia doveva tener perennemente acceso quasi come
sorpo vivo e sensibile della sua eredità divina. Il padre era appunto il
sacerdote virile del fuoco sacro familiare, epperò colui che per i suoi figli, i
suoi congiunti e i suoi servi doveva apparire come un “eroe”, come il mediatore
naturale di ogni rapporto efficace col sovrasensibile, come il vivificatore per
eccellenza della mistica forza del rito nella sostanza del fuoco: il quale,
peraltro, quale Agni per gli Indo-arii valeva come una incarnazione dell’
“ordine”, come il principio che “a noi conduce gli dèi”, il “primo nato
dell’ordine”, il “figlio della forza” (11), colui che “da questo mondo ci
conduce su, nel mondo della giusta azione” (12). Manifestazione della componente
“regale” della sua famiglia quale “signore della lancia e del sacrificio”,
soprattutto nel pater si incentrava il còmpito di non lasciar “spegnere il
fuoco”, nel senso di riprodurre, continuare e alimentare la mistica vittoria
dell’avo (13). Per tal via, egli costituiva realmente il centro della famiglia e
tutta la costituzione rigorosa del diritto paterno tradizionale ne segue come
naturale conseguenza sussistendo anche quando la consapevolezza del suo
fondamento originario quasi si spense. Chi, come il pater, ha lo jus quiritium –
cioè il diritto della lancia e del sacrificio – nella Roma delle origini ha
anche la terra, e il suo diritto è imprescrivibile. Egli parla ilnome degli dèi
e in nome della forza. Come gli dèi, si esprime col segno, col simbolo. Egli è
intangibile. Contro il patrizio, ministro delle divinità, originariamente non vi
era diritto a procedere – nulla auctoritas. Egli – come ancora nei tempi più
recenti il re – non può esser giuridicamente perseguito; se commette un misfatto
nel suo mundium la curia dichiara soltanto che ha fatto male – improbe factum.
Il suo diritto sui congiunti è assoluto: jus vitae necisque. Il suo carattere
sopra-umano fa concepire come cosa naturale che egli possa vendere e perfino
mettere a morte, secondo il proprio arbitrio, i figli (14). In un tale spirito
si definivano le articolazioni di ciò che Vico giustamente chiamò “diritto
naturale eroico” o “diritto divino delle genti eroiche”.
E che il rito, corrispondente alla sua componente “uranica”, in una tradizione
gentilizia avesse il primato rispetto agli altri elementi della tradizione
stessa legati alla natura, risulta anche da più di un aspetto particolare
dell’antico diritto greco-romano. A ragione è stato detto, che “ciò che univa i
membri della famiglia antica è qualcosa di più potente della nascita, del
sentimento e della forza fisica: è la religione del focolare e degli avi. Essa
fa sì che la famiglia formi un corpo solo in questa vita e nell’altra. La
famiglia antica è una associazione religiosa più che una associazione di natura”
(15). Il comune rito perciò costituiva il vero cemento dell’unità familiare e
spesso anche della gens. Se un estraneo veniva ammesso al comune rito, diveniva
un figlio adottivo, godente di quei privilegi, dei quali veniva invece privato
il figlio effettivo che avesse abbandonato il rito della sua famiglia o da esso
fosse stato interdetto – ciò voleva evidentemente dire che secondo l’idea
tradizionale il rito univa e il rito separava, non tanto il sangue (16). Prima
di essere unita al suo sposo, in India, in Grecia e a Roma una donna doveva
venire misticamente unita alla famiglia o gens dell’uomo mediante il rito (16);
la sposa, prima di essere tale per l’uomo, lo è di Agni, del mistico fuoco (17).
I clienti ammessi al culto proprio ad un ceppo patrizio pervenivano con ciò ad
una partecipazione mistica nobilitante la quale, agli occhi di tutti, conferiva
loro alcuni privilegi di quel ceppo, ma in pari tempo li vincolava
ereditariamente ad esso (18). Per estensione, si può così capire l’aspetto sacro
del principio feudale quale già si palesò nell’antico Egitto, in quanto in esso
era per via del mistico “dono di vita” concesso dal re che si formava intorno a
lui una classe di fedeli, elevati alla dignità sacerdotale (19). E analoghe idee
valsero per la casta degli Inca, i “figli del Sole”, nell’antico Perù, in una
certa misura anche per la nobiltà giapponese.
In India si presenta l’idea – da riportarsi alla dottrina “sacrificale” in
genere, e che quanto si dirà più giù chiarirà ancor meglio – di una linea
familiare di discendenza maschile (primogenitura) la quale sta in rapporto col
problema dell'’mmortalità. Il primogenito -–che solo ha il diritto di invocare
Indra, il dio guerriero del cielo – è concepito come colui, con la nascita del
quale il padre scioglie il suo debito di fronte agli avi; giacché – si dice – il
primogenito “libera” o “salva” gli avi nell’altro mondo: da quel posto di
combattimento, che è l’esistenza terrestre, conferma e continua la linea di
quell’influenza, che costituisce la loro sostanza e che procede per ed entro le
vie del sangue come un fuoco purificatore. Ed è significativa l’idea, che il
primogenito viene generato per il compimento del “dovere”, cioè per questo
impegno rituale non condizionato da sentimenti e legami terrestri – “mentre i
saggi considerano gli altri figli esser generati solo dall’amore” (20).
Su questa base, non è escluso che la famiglia in certi casi sia derivata per
adattazione da un tipo superiore, puramente spirituale di unità, proprio a tempi
più remoti. Per esempio, in Lao-tze (21) vi è l’accenno, che la famiglia sorse
al momento dell’estinguersi di un rapporto di diretta partecipazione attraverso
il sangue con il principio spirituale originario. Non diversa idea riecheggia
residualmente, del resto, nella priorità, riconosciuta da più di una tradizione,
alla paternità spirituale rispetto a quella naturale, alla “seconda nascita”
rispetto alla nascita mortale – nella romanità, ci si potrebbe anche riferire
all’aspetto intero della dignità conferita all’ADOZIONE, intesa come filiazione
immateriale e supernturalistica, posta nel segno di divinità spiccatamente
olimpiche, scelta, a partit da un certo periodo, anche come base oer la
continuità della funzione imperiale (22). Per limitarsi al testo citato poco
sopra, è detto: “Quando un padre e una madre, congiungendosi per amore, danno
vita ad un figlio, questa nascita non deve considerarsi come qualcosa di più di
un fatto umano; perché il figlio si forma nella matrice. Ma la vita che gli
comunica il maestro spirituale... è la vera e non è soggetta nnéa vecchiaia, né
a morte” (23). Per tale via, i rapporti naturali non solo passano in secondo
piano, ma possono anche invertirsi: si riconosce infatti che il brahmana, autore
della nascita spirituale, “è, secondo la legge, anche quando sia fanciullo, il
vero padre dell’uomo adulto” e che l’iniziato può considerare i suoi congiunti
come suoi figli, “perché la sua sapienza gli dà su di essi l’autorità di un
padre” (24). Là dove la legge della patria potestas fu, in sede
giuridico-sociale, assoluta e quasi non umana, dèvesi pensare che essa ebbe tale
carattere per possedere, o per aver originariamente posseduto, appunto una
giustificazione di questo tipo nell’ordine di una paternità spirituale, in pari
tempo legata ai rapporti di sangue quasi come aspetto “anima” e aspetto “corpo”
nel tutto del ceppo familiare. Qui non è il caso di fermarvisi: ma pur vale
accennare che un insieme di credenze antiche per esempio circa una specie di
contagio psichico, per cui la colpa di un membro di una famiglia investe
l’insieme della famiglia stessa, o circa la possibilità che un membro possa
riscattare l’altro, o scontare una vendetta per un altro, e così via – postula
parimenti l’idea di una unità, che non è semplicemente quella del sangue, ma
altresì psichico-spirituale.
Da tutti questi aspetti, sempre di nuovo si conferma il concetto, che le
istituzioni tradizionali erano instituzioni “dall’alto”, non fondate sulla
natura ma su eredità sacre e su azioni spirituali che vincolano, liberano e
“formano” la natura. Nel divino il sangue, theòi synainoi -, nel divino la
famiglia, theòi enghenèis. Stato, comunità, famiglia, affetti borghesi, doveri
nel senso moderno – cioè esclusivamente laico, umano e sociale – sono tutte
“costruzioni”, sono tutte cose che non esistono, che stan fuori della realtà
tradizionale, nel mondo delle ombre. La luce della Tradizione non conobbe nulla
di ciò.
Note di Evola (numerate nel testo tra parentesi tonda):
(1) Il brahmana, paragonato al sole, venne spesso concepito come sostanziato da
una energia o splendore radiante – tejas – che egli “come fiamma” ha tratto per
mezzo della “conoscenza spirituale” dalla sua forza vitale. Cfr.
Satapatha-brahmana, XIII, ii, 6, 10; Parikohita, II, 4.
(2) Nella tradizione estremo-orientale, il tipo del vero capo spesso vien messo
in relazione con colui a cui “nulla è più evidente delle cose nascoste nel
segreto della coscienza, nulla è più manifesto delle cause più sottili delle
azioni” epperò anche di quelle “vaste e profonde potenze del cielo e della
terra” che “per quanto sottili e impercepibili, si manifestano nelle forme
corporee degli esseri”. (cfr. Tshung-yung, I, 3; XVI, 1, 5). Ciò, per il piano
su cui agisce il rito.
(3) Per le espressioni ora usate, cfr. C. Bouglé, Essai sur le régime des castes,
Paris, 1908, pp. 48-50, 80-81, 173, 191. Pel fondamento dell’autorità del
brahmana, cfr. Manavadharmasastra, IX, 314-317.
(4) Li-ki, I, 53. Cfr. Maspéro, Chine ant., p. 108: “La religione in Cina
apparteneva ai patrizi, era più d’ogni altra cosa il loro bene proprio; solo
essi avevano diritto al culto e perfino, nel modo più ampio, ai sacra, per via
della virtù – te’ – dei loro antenati, mentre la plebe senza antenati non vi
aveva affatto diritto: solo essi erano in relazione personale con gli dèi”.
(5) Manavadharmasastra, II, 172; cfr. II, 157-158; II, 103; II, 39.
(6) Nella genesi mitica delle caste data dai Brahmana, mentre ad ognuna delle
tre caste superiori corrisponde una determinata classe di divinità, ciò non
accade per la casta dei sudra, i quali non hanno dunque in proprio alcun dio cui
riferirsi e sacrificare (cfr. A. Weber, Indische Studien, Leipzig, 1868, v. X,
p. 8) né possono usare formule consacranti – mantra – per le loro nozze (ibid.,
p. 21).
(7) Cfr. Golther, German. Mythol., cit., pp. 610, 619.
(8) Cfr. H. Webster, Primitive Secret Societies, tr. It., Bologna, 1921, passim
e pp. 22-24, 51.
(9) Cfr. A. van Gennep, Les rites de passage, Paris, 1909. A proposito della
virilità in senso eminente, non naturalistico, ci si può riferire allo stesso
termine latino vir, opposto a homo. Già G. B. Vico (Princìpi di una scienza
nuova, ed. 1725, III, 41) aveva rilevato come auesto termine implicasse una
speciale dignità, designando non pure l’uomo di fronte alla donna nelle unioni
patrizie, e i nobili, ma anche magistrati (duumviri, decemviri), sacerdoti (quindicemviri,
vigintiviri), giudici (centemviri), “talché con questa voce vir si spiegava
sapienza, sacerdozio e regno, che si è sopra dimostrato esser stata una stessa
cosa nella persona dei primi padri nello stato delle famiglie”.
(10) Cfr. F. Funck-Brentano, La famiglia fa lo Stato, tr. It., Roma, 1909, pp.
4-5.
(11) Cfr. Rg-Veda, I, 1, 7-8; I, 13, 1; X, 5, 7; VII, 3, 8.
(12) Atharva-Veda, VI, 120, 1. L’espressione si riferisce all’Agni garhapatya
che, dei tre fuochi sacri, è appunto quello del pater, o capo di casa.
(13) Manavadharmasastra, II, 231: “Il padre è il fuoco sacro perpetuamente
conservato dal Signore della casa”. Alimentare ininterrottamente il fuoco sacro
è dichiarato dovere dei dvija, cioè dei rinati, costituenti le caste superiori
(ibid., II, 108). Non è possibile, qui, andar oltre questo cenno nei riguardi
del culto tradizionale del fuoco, di cui qui viene considerato solo uno degli
aspetti. Le considerazioni che saranno svolte più oltre possono far comprendere
la parte che l’uomo e la donna avevano rispettivamente nel culto del fuoco, sia
nella famiglia che nella città.
(14) Per le espressioni di cui sopra, cfr. M. Michelet, Hist. De la République
romaine, Paris, 1843, v. I, pp. 138, 144-146. Del resto, anche in tradizioni più
recenti si trovano elementi consimili. I lords inglesi originariamente erano
considerati quasi come semidei, e pari del re. Secondo una legge di Edoardo VI,
essi hanno il privilegio di omicidio semplice.
(15) F. De Coulanges, Cit. Ant., p. 40; cfr. p. 105.
(16) A Roma, vi furono due tipi di matrimonio, non privi di relazione con la
componente ctonia e la componente uranica di tale civiltà: il primo, è un
matrimonio profano, per usus, al titolo di mera proprietà della donna che passa
in manum viri; il secondo è rituale e sacrale, per confarreatio, considerato
come un sacramento, come una unione sacra, ieros gamos (Dionigi Alic., II, 25,
4-5). Su ciò, si può cfr. A. Piganiol, Essai sur les origines de Rome, Paris,
1917, pp. 164 sgg., che però segue la falsa idea, secondo cui il tipo rituale di
matrimonio sarebbe stato di carattere più sacerdotale che non aristocratico,
idea dovuta alla sua comprensione piuttosto materialistica e soltanto guerriera
del patriziato tradizionale. L’equivalente ellenico della confarreatio è l’eggineois
(cfr. Isaios, Pyrrh., pp. 76, 79), e l’elemento sacrale consistente nell’
“agape” fu considerato così fondamentale che, mancando, la validità del
matrimonio poteva essere impugnata.
(17) Cfr. Rg-Veda, X, 85, 40.
(18) Cfr. De Coulanges, Cit. Ant., p. 41.
(19) Cfr. A. Moret, Royaut. Phar., p. 206.
(20) Su tutto ciò, cfr. Manavadharmasastra, IX, 166-7, 126, 138-9.
(21) Lao-tze Tao-te-ching, XVIII.
(22) Cfr. J. J. Bachofen, Die Sage von Tanaquil, Basel, 1870; intr.
(23) Manavadharmasastra, II, 147-148.
(24) Ibid., II, 150-153.
Note dei curatori (numerate nel testo tra parentesi quadra):
[1] Tale saggio costituisce il capitolo n°6 di “Rivolta contro il mondo
moderno”. Ndc.
[2] Letteralm.: “I riti augurali sono [prerogativa] dei patrizii”. Ndc.
[3] Il “sudra”, o servo, nella società castale indiana è il rappresentante della
quarta casta, la prima non di derivazione indoeuropea, ma scura, autoctona. Ndc.
[4] Letteralm.: “analfabeta per motivi d’alta nobiltà”. Ndc.