Julius EvolaIntellettualismo e Weltanschauung |
Avendo parlato di intellettuali e di realismo, sarà bene
precisare ancora un punto. Si è accennato al fatto che le simpatie di alcuni
intellettuali pel comunismo hanno un certo carattere paradossale, in quanto il
comunismo disprezza il tipo dell’intellettuale come tale, tipo che per esso
appartiene, essenzialmente al mondo dell’odiata borghesia. Ora, un atteggiamento
del genere può venire condiviso anche da chi appartenga al fronte opposto al
comunismo, dato quel che nel mondo contemporaneo esse significano, ci si può
opporre ad ogni sopravalutazione della cultura e dell’intellettualità. L’avere
per esse quasi un culto, il definire con esse uno strato superiore, quasi una
aristocrazia – l’ “aristocrazia del pensiero” che sarebbe quella vera,
legittimamente soppiantante le forze precedenti di élite e di nobiltà – è un
pregiudizio caratteristico dell’epoca borghese nei suoi settori
umanistico-liberali. La verità è invece che siffatta cultura e intellettualità
non sono che dei prodotti di dissociazione e di neutralizzazione rispetto ad una
totalità. Pel fatto che ciò è stato avvertito, l’antintelletualismo ha avuto una
parte di rilievo negli ultimi tempi, al titolo di una reazione quasi biologica
la quale purtuttavia troppo spesso ha seguito direzioni sbagliate o, per lo
meno, problematiche. Non ci soffermeremo però su quest’ultimo punto. Ne abbiamo
già trattato in altra sede, parlando dell’equivoco dell’antirazionalismo (1).
Qui vi è solo da mettere in rilievo che esiste un terzo possibile termine di
riferimento di là sia da intellettualismo che da antintellettualismo, per un
superamento della “cultura” d’intonazione borghese. Tale è la visione del mondo
– in tedesco Weltanschauung. La visione del mondo non si basa sui libri, ma su
una forma interiore e su una sensibilità aventi un carattere non acquisito ma
innato.
Si tratta essenzialmente di una disposizione e di un atteggiamento, non già di
teoria o di cultura, disposizione e atteggiamento che non concernano il solo
dominio mentale ma investono anche quello del sentire e del volere, informano il
carattere, si manifestano in reazioni aventi la stessa sicurezza dell’istinto,
danno evidenza ad un dato significato dell’esistenza. Normalmente la visione del
mondo, più che essere cosa individuale procede da una tradizione, è l’effetto
organico delle forze a cui un dato tipo di civiltà dove la propria forma; in
pari tempo, a parte subiect, essa si manifesta come una specie di “razza
interna”, come una struttura esistenziale. In ogni civiltà diversa da quella
moderna era appunto una “visione del mondo”, non una “cultura”, compenetrare gli
strati più diversi della società. E ove cultura e pensiero concettuale furono
presenti, essi non ebbero il primato; la funzione loro fu quella di semplici
mezzi espressivi, di organi al servigio della visione del mondo. Non si riteneva
che un “pensiero puro” dovesse rilevare la verità e fornire il senso alla
esistenza; la parte del pensiero era invece, appunto, di chiarificare ciò che
già si possedeva e che preesisteva come senso e evidenza diretta, prima di ogni
speculazione i prodotti del pensiero avevano perciò solo un valore di simbolo,
di segno indicatore – a tale riguardo l’espressione concettuale non avendo una
carattere privilegiato rispetto ad altre possibili forme di espressione. Nelle
precedenti civiltà queste erano costituite piuttosto da imagini evocatrici, da
simboli in senso proprio, da miti. Oggi la cose possono andare altrimenti, data
la crescente, ipertrofica cerebralizzazione dell’uomo occidentale. Importa
tuttavia che non si scambi l’essenziale con l’accessorio, che i rapporti
accennati siano riconosciuti e mantenuti, ossia che, ove “cultura”e
“intellettualità” siano presenti, esse abbiano una parte soltanto strumentale ed
espressiva rispetto a qualcosa di più profondo e organico che è appunto la
visione del mondo. E la visione del mondo può esser più precisa in un uomo senza
particolare istruzione che non in uno scrittore, nel soldato, nell’appartenente
ad un ceppo aristocratico e nel contadino fedele alla terra che non
nell’intellettuale borghese, nel “professore” o nel giornalista. Circa tutto
questo, in Italia ci si trova, e non da oggi, in una posizione assai
sfavorevole, perché chi fa il buono e il cattivo tempo, chi troneggia nella
stampa, nella cultura accademica e nella critica,organizzando vere e proprie
massonerie monopolizzatrici, è proprio il tipo deteriore dell’intellettuale, che
nulla sa di ciò che è veramente spiritualità, interezza umana, pensiero conforme
a saldi principi (2).
La “cultura” nel senso moderno cessa di essere un pericolo solo quando chi ne
faccia uso possegga già una visione del mondo. Solo allora si sarà attivi
rispetto ad essa: appunto perché allora si disporrà già di una forma interna
come guida sicura quanto a ciò che può venire assimilato e ciò che invece deve
essere respinto – più o meno come accade in tutti i processi differenziati di
assimilazione organica. Tutto questo è abbastanza evidente non è stato
sistematicamente disconosciuto dal pensiero liberale e individualistico; e fra i
nefasti propri alla “libera cultura” messa alla portata di tutti e da tale
pensiero propugnata, va scritto il fatto che per tal via molte menti prive della
facoltà di discriminare secondo retto giudizio, molte menti non aventi già una
loro forma, una loro “visione del mondo”, si trovano in uno stato di
fondamentale inermità spirituale di fronte ad influssi di ogni genere. Questa
situazione deleteria, vantata come una conquista e un progresso, procede da una
premessa che è l’esatto opposto della verità: si presume cioè che, a differenza
di quello delle epoche precedenti, dette “oscurantistiche”, l’uomo moderno sia
l’uomo spiritualmente adulto, capace quindi di giudicare e di fare da sé (e la
premessa stessa della “democrazia” moderna nella sua polemica contro ogni
principio di autorità). Ciò è infatuazione pura: mai, come nell’epoca moderna,
vi è stata una uguale quantità di uomini interiormente informi, uomini che per
ciò stesso sono aperti ad ogni suggestione e ad ogni intossicazione ideologica,
tanto da divenire succubi, spesso senza sospettarlo menomamente, delle correnti
psichiche e delle manipolazioni proprie all’ambiente intellettuale, politico e
sociale in cui vivono. Ma su ciò, lungo sarebbe il discorso. Questi cenni sulla
“visione del mondo” vanno ad integrare i termini del problema trattato parlando
del nuovo realismo, perché precisano il piano dove tale problema va posto e
risolto, nel segno dell’antiborghesia, non potendovi essere nulla di peggio che
una reazione intellettualistica contro l’intellettualismo. Se la nebbia si
solleverà, apparirà chiaro che è la “visione del mondo” ciò che, di là da ogni
“cultura”, deve unire o dividere tracciando invalicabili frontiere dell’anima,
che anche in un movimento politico essa costituisce l’elemento primario, perché
solo una visione del mondo ha un potere di cristallizzare un dato tipo umano e
quindi di dare il tono specifico ad una data comunità.
Ora, sulla linea del comunismo vi sono stati casi nei quali qualcosa ha
cominciato a penetrare fino ad una tale profondità. Non ha torto un uomo
politico contemporaneo ha parlato di un mutamento interno e profondo che,
manifestandosi quasi nei termini di una ossessione, si produce in coloro che
aderiscono veramente al comunismo: essi ne sono mutati nel pensare, nell’agire.
Secondo noi è bensì una alterazione o contaminazione fondamentale dell’essere
umano: ma essa raggiunge, nei casi in quistione, il piano della realtà
esistenziale, cosa che non succede affatto in coloro che reagiscono partendo da
posizioni borghesi e intellettualistiche. La possibilità dell’azione
rivoluzionario-conservatrice dipende essenzialmente dalla misura in cui negli
stessi termini possa agire l’idea opposta, cioè l’idea tradizionale,
aristocratica, antiproletaria – tanto da dar luogo a un nuovo realismo e da dar
forma, agendo come una visione della vita, ad un tipo specifico di uomo
antiborghese, quale sostanza cellulare di nuovo: élites; di là dalla crisi di
ogni valore individualistico e irrealistico.