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Julius Evola
Della Purità come Valore
Metafisico |
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In due modi distinti l'uomo può cercare di superare la contingenza e la
miseria del mondano in un rapporto con la divinità. Nel primo si presuppone che
il Dio sia distinto dall'uomo, di modo che il rapporto non può essere che quello
estrinseco proprio alla fede, alla preghiera, alla devozione, all'osservanza di
determinati principi morali ai quali si riconosce una superiore validità.
Nell'altro si pòstula invece una ideale continuità fra uomo e Dio, di modo che
il rapporto ha il senso di una identificazione reale, di un congiungersi
dell'uomo a Dio non con parole, pensieri o sentimenti, bensì con un farsi egli
stesso Dio. Questa è la via della mìstica e dell'esotèrica, opposta a quella
della religione devozionale. Nell'una dunque lo stato umano di esistenza viene
accettato e mantenuto sia pure presso alla fede in una esistenza e in una legge
superiore; nell'altra si vorrebbe invece trasformare realmente e senza resíduo
un tale stato, fatto di morte e di oscurità, nella gloria di una vita divina.
In relazione a questo divario, si hanno due modi affatto distinti di realizzare
il concetto di "purificazione". Qui ci si occuperà soltanto della dottrina
esotèrica della purificazione, dottrina assai suggestiva, della quale pertanto
nell'òrdine dell'attuale cultura si può dire che non si sappia ancora che poco o
nulla. Non ci si soffermerà sulla questione delle fonti: se esse essenzialmente
si connèttono all'Oriente, e in particolare alle scuole tàntriche e a
diramazioni màgiche ed alchèmiche del taoismo e del mahâyâna, allusioni se ne
pòssono trovare anche in quanto ci resta della misteriosofia greca e della
filosofia presocràtica, in elementi del neoplatonismo e in una certa mistica
cristiana - di là formulazioni affatto distinte presenti nelle tradizioni
kabbalistiche, ermètiche e rosicruciane. Non ci si soffermerà su ciò, sia per
ragioni di spazio, sia per la grande difficoltà di giustificare con freddi
riferimenti culturali quel che in tanto si comprende, in quanto un dato
atteggiamento interiore permette di lèggere fra riga e riga, sia - ed
essenzialmente - per questo: che importa dare della dottrina nella sua essenza
lògico-metafisica, onde essa costituisce qualcosa di per sè stante, di
indipendente dalle credenze, dalle opinioni e dai varî elementi che possono
averla incorporata.
Diremo sùbito che nell'àmbito esotèrico il concetto di purificazione non ha
assolutamente nulla di moralistico. Si tratta, invece, di un valore metafisico
che, nella sua nuda positività, si rimette allo stesso significato letterale del
tèrmine. Impuro, in generale, va detto ciò che non è soltanto sè stesso e da sè
stesso (kath'auto), ma che un "altro" contàmina. Dovunque vi è un "altro", vi è
impurità: l'"altro" áltera l'essere e lo rende impuro.
Passando poi ad approfondire la natura dell'"altro" che può alterare l'unità, vi
si dovrà intèndere un non-essere, o, per usare un tèrmine aristotèlico, una
privazione, una steresis. Un passo dell'Eckhart può chiarire ciò:
"Poniamo che si prenda un carbone ardente e lo si metta sulla
mia mano. Se io dicessi che è il carbone che mi brucia la mano,
avrei assai torto. Se devo veramente indicare ciò che mi brucia,
debbo invece dire: è il "nulla" che mi brucia! Poichè il carbone
ha qualcosa in sè, che la mia mano non ha! Appunto questo
"nulla" mi brucia. Se la mia mano, invece, avesse in sè tutto
ciò che il carbone è e produce, essa possederebbe interamente la
natura del fuoco: e allora quand'anche prendessi tutto il fuoco
che mai ha bruciato e lo ponessi sulla mia mano, esso non
potrebbe più farmi danno" (1).
Ossia: l'èssere, che sufficiente alla totalità della vita, non avrebbe un
"altro" di contro a sè. Chiuso in una intangìbile unità, egli vi si riposerebbe
e vi si compiacerebbe, amàndosi solo e creando per questo amore solitario tutto
ciò che crea. Il punto della sufficienza venga meno - allora l'unità si àltera,
un "nulla" vieno ammesso onde di contro all'idèntico, al tauton, sorge
l'"altro", l'heteron. Questo "altro" non è, dunque, nulla di reale in sè stesso:
esso è simplicamente il riflesso e il sìmbolo di quella deficienza che si è
ingenerata nell'èssere. La sua sostanza essendo affatto negativa - non vivendo
per sè stessa, ma per la corruzione della vita perfetta - esso è a sè medèsimo
contingente, esso cioè non sussiste che in quanto e per quel tanto che
nell'èssere o nell'Io permane lo stato di privazione e d'imperfezione. Da qui il
senso del purificare: purificare signìfica portare la vita al livello di una
esistenza sufficiente, di un possesso, di una autarchia, ardendo l'oscura
privazione di cui essa, nel punto dell'esistenza finita ed individuale, è
intrisa e soffre la violenza. Dal che procede il concetto di atto impuro che
evidentemente si mutua con quello aristotèlico di atto imperfetto: impuro si
dirà dunque l'atto di quelle potenze che non giùngono da sè all'attualità, ma a
ciò sono bisognose del concorso di "altro". Tale è, per spiegarsi sùbito con un
esempio, l'atto visivo, giacchè in esso la potenza del vedere non è sufficiente
a sè medèsima, non produce da sè la visione, ma a ciò ha bisogno della
correlazione ad un oggetto sensibile. Quanto diremo più sotto chiarirà questi
punti, che forse ora sono espressi un po' troppo astrattamente. Il punto su cui,
pertanto, bisogna fondamentalmente fissare l'attenzione se si vuole comprèndere
il vero senso dell'esigenza della purificazione, è questo: che l'atto impuro (o
imperfetto) non risolve la deficienza dell'agente che apparentemente - esso in
realtà la riconferma. L'uomo, per esempio, ha sete: finchè egli beve, egli
continuerà ad avere sete, giacchè bevendo egli conferma lo stato di colui che
non ha in sè stesso la propria vita (to autarkes), ma invece la chiede ad
"altro". Ma questo "altro" - l'acqua e il resto - non è che il simbolo della sua
deficienza, ed in quanto egli si pasce di esso e ad esso chiede la sua vita,
egli in verità si pasce soltanto della sua propria privazione e permane in essa
fuggendo da quell'atto puro, da quell'acqua eterna per cui ogni sete, così come
ogni altra privazione, sarebbe per sempre vinta. Onde dice il Cristo: "Chiunque
beve di quest'acqua avrà ancor sete; ma chi berrà dell'acqua che io gli darò,
non avrà giammai in eterno sete; anzi l'acqua che io gli darò diverrà in lui una
fonte di acqua saliente in vita eterna" (2).
Perciò ogni atto impuro è una fuga dalla vita perfetta; per esso l'individuo non
consiste ma cede. Innumerèvoli dipendenze allora lo condiziònano e lo inchiòdano
al regno della contingenza e della morte, della platònica "cosa che è e che non
è", e così egli va, passivo a sé stesso, disperso nelle generazioni e nelle
corruzioni, nella ruota eterna delle rinàscite discontinue sempre diverse e pur
sempre uguali nella loro miseria.
Indicato così il senso generale della dottrina del puro e dell'impuro, si può
passare ad individuarla in relazione a particolari problemi, e propriamente a
dire che cosa signìfichi, nell'esotèrica, purificazione della mente, della
volontà, della parola, del respiro e dell'atto generativo.
I. PURIFICAZIONE DELLA MENTE
L'"impurità" della mente procede dal carattere passivo della comune percezione,
che (dal punto di vista non della gnoseologia, ma delle condizioni empiriche) è
un ricèvere (empfinden), un moto del difuori al didentro secondo la coercizione
dall'esterno dell'oggetto sensibile - così che l'Io non può non percepire o
patire ciò che, secondo il vario tempo ed il vario luogo, percepisce e patisce.
In quest'òrdine, la purificazione comprende due fasi. La prima si rimette al
dominio delle potenze dei sensi, alla capacità di staccare la mente dagli
oggetti esterni, di ripiegarla su sè stessa e fissarla a volontà. Si tratta,
cioè, della màssima della katharsis platònica: "Staccare gli occhi e, in
generale l'ànima, dalle cose sensibili" - presa però in un senso non metafòrico
o morale, ma letterale: occorre, cioè, liberare le varie facoltà percettive che
gli oggetti incatènano, violèntano ed infèttano e farle libere di percepire e
non percepire - e, in ciò, intere, non alterate: pure. Sono note le tappe
indicate dal Patanjali per l'ordinata disciplina che può realizzare una tale
via, su cui, in ogni caso, solamente per una energia interna eccezionale si può
sperare di procèdere: a. Pratyâhâra o controllo e dominio delle varie
impressioni e dei corsi accidentali di associazioni e di pensieri; b. Dhâranâ o
concentrazione sur un solo oggetto o sensazione, escludendo tutto il resto; c.
Dhyâna o assorbimento in un oggetto non più sensibile, ma prodotto dalla mente
stessa; d. Samâdhi, eliminazione dello stesso oggetto mentale e congiunzione
della mente con la sua sola nuda potenza.
Ma questa fase, negativa, non costituisce l'ùltima istanza. La purità vera della
mente non si ha per la sua capacità di distacco, bensiì per una sua potenza tale
che l'"altro", la correlazione all'oggetto materiale cessi di èssere una
condizione per la percezione, così che l'Io possa, oltre che non percepire,
darsi, crearsi da sè a volontà la propria percezione. Si tratterebbe, cioè, di
sostituire alla forma di percezione sensibile e passiva un'altra attiva e
positiva, non più ricevente (empfindend), bensì producente (bestimmend)
l'oggetto dall'interno. Tale è la virtù dell'aristotèlico nous poetikos,
dell'"intelletto intuitivo" degli scolàstici, di Kant e di Schelling. Solo che
vi è da notare che un tale percepire positivo non deve èssere un'altra facoltà
limitata all'òrdine ideale e giustaposta al percepire positivo, bensì la
transformazione e piena risoluzione di questo. Altrove (3) si sono considerate
le fasi di tale via; qui, come semplice suggestione, ci si può riferire alla
cosìdetta "conoscenza sopranormale": la moderna psicologia ha assodato che sono
possibili e reali due modi distinti di percezione, aventi in egual grado
caràttere di oggettività. L'uno è quello normale connesso agli òrgani fisici, il
quale - dal punto di vista fisiològico, non da quello gnoseològico - si può dire
centripeto, procedente dall'esterno all'interno, partendo dalle impressioni
fisiche trasmesse dal sistema afferente sino ai centri cerebrali. Il secondo
modo è, invece, indipendente degli òrgani fisici ed ha una direzione opposta: il
punto di partenza non è lo stimolo fisico perifèrico, bensì una appercezione
interiore, la quale va poi a tradursi in tèrmini di percezione fisica ed anche
in imàgini, secondo un decorso centrìfugo anàlogo a quello dei processi
allucinatorî. Ora mentre il primo conòscere è limitato dalle condizioni
spazio-temporali e fisiològiche, il secondo ne è in larga misura libero e, a
quel che risulterebbe dalle ùltime indàgni, tende a partecipare della natura di
un principio omnisciente. A ciò si potrebbe dunque connèttere il senso della
perfezione, del teleion della "purificazione della mente". Dal punto di vista
filosofico sarebbe poi un conoscere che partirebbe non piú da un particolare
sensibile da sussumere ad un concetto discorsivo, ma invece dal tutto, per dare
il particolare in funzione di questo - come un membro in funzione dell'unità
organica del corpo.
II. PURIFICAZIONE DELLA VOLONTÀ
L'impurità della volontà consiste nell'"eteronomia", cioè nel suo venire
determinata da altro che da sè. Nella cultura occidentale, a causa della
estraversione imperante, si è irradicato il convincimento che ogni azione debba
avere una "ragione sufficiente", ossia che ci debba essere un motivo o una causa
per il suo avvenire o non avvenire, per il suo avvenire così e non altrimenti, e
si è giunti sino a pensare che le cose non vàdano in maniera diversa per lo
stesso atto divino. È precisamente un tale modo di azione che viene detto
impuro. Infatti in esso l'azione trae la propria iniziativa non da sè, ma da un
motivo, ragione, impulso, oggetto attraverso appetito o avversione, ecc., in
esso la volontà nel voluto non vuole solamente e nudamente sè stessa, ma altro,
onde è propriamente da dirsi che essa è voluta da altro. Ciò è il sakâmakarma
degli Orientali: azione secondo desiderio, azione che non è per sè stessa, ma
per quanto ne procede. La purificazione qui si connette, invece, al
convincimento che la "ragione sufficiente" di una affermazione PUÒ èssere
l'affermazione stessa, epperò al concetto di un atto che sia fatto di sola, pura
iniziativa creatrice. Anche di questo in un passo dell'Eckhart si può trovare la
migliore espressione: "Da questo più profondo principio tu devi agire le tue
òpere, senza un perchè. Io lo affermo decisamente: finchè òperi le tue òpere per
il regno dei cieli, per Dio o la tua santità, epperò spinto da altro (von aussen
her), fino allora tu non sarai realmente nel giusto... Se chiedi ad un vero
uomo, ad un uomo che agisce dal suo profondo: 'Perchè òperi tu le tue opere?'
egli ti risponderà giusto solamente se dirà: 'Non agisco, che per l'azione
stessa'" (4).
Qui è assai importante notare che l'esigenza della purificazione investe sia il
"puro" che l'"impuro", sia il "buono" che il "cattivo", in una parola: non dei
tèrmini particolari ma l'insieme delle coppie degli opposti. La purità di cui è
quistione signífica piena autonomia, puro possesso di sè, e rispetto a ciò il
legame al "buono", al "sacro", ecc., non è migliore di un qualsiasi altro
legame: se quel che dagli uòmini viene chiamato buono o puro incatena la
volontà, questa è da dirsi parimenti impura. Onde in tale òrdine ricòrrono
espressioni, come lavarsi, denudarsi. Aphele panta: bisogna mondarsi di tutto -
dell'"alto" come del "basso", dello "spirituale" come del "materiale" - bisogna
ridurre la volontà alla sua nuda essenza, poggiante soltanto su sè stessa. Una
volta giunti a ciò, tutto diviene egualmente puro, così come prima di ciò tutto
è parimenti impuro. È che in un tale òrdine il "puro" non va detto delle cose in
sè stesse, ma di un modo di viverle, misura del quale è l'autonomia,
l'autarchia, onde nell'essere costretti a chiamare qualcosa impuro si esprime
soltano il segno della propria impurità (5).
Qui una particolarmente sottile disciplina è richiesta per il compimento
dell'esigenza. Infatti, come garantire che ciò che si vuole proceda realmente
dall'incondizionato e non da un oscuro, inafferrabile insieme di inclinazioni ed
impressioni radicato nel subscosciente? La riposta è: approfondimento interiore,
fare progressivamente affiorare nella luce della coscienza tutto ciò che prima
ad essa si sottraeva. Anche fra noi, oggi, si comincia a lavorare su questa
direzione con la psicoanàlisi. Di là da ciò, vi sono mètodi di controllo basati
sul principio, che a seconda che l'azione sia conforme o no ad una inclinazione
nascosta, s'ingènera piacere o contrarietà. Così non basta crèdere che
l'alternativa ci sia indifferente, occorre mettere da parte la propria volontà e
provare a lasciar decìdere al caso; per esempio al cadere in un verso o
nell'altro di una moneta. Nel sentimento che ne risulta ed estendendo questa
disciplina ad una materia che sempre più intimamente ci riguardi, si avrà un
reale strumento segnalatore del progresso o regresso lungo la via della
purificazione della volontà. In generale: occorre sapere rinunciare ad ogni cosa
non appena si senta che ci diviene necessaria, non appena si scopra un desiderio
o compiacimento per essa; occorre fare per principio non ciò che piace, ma ciò
che costa, prèndere per principio sempre la linea di maggior resistenza e, con
questo, rèndere sempre più forte e pura la volontà, sempre più enèrgico il
possesso di sè. Disciplina dura, alla quale difficilmente ci si saprebbe
adeguare quando non si riesca a sentire nel nudo volere in autarchia un motivo
più forte ed un piacere più vasto e vivo di quanto ci pòssano offrire mai le
cose in sè stesse. In ogni caso, essa conduce ad un punto assai difficile, il
cui riflesso è appunto la difficoltà che la comune coscienza incontra nel
concepire una azione, là dove non vi sia più un "perchè" a provocarla. Si prova
come se tutto l'èssere interiore si fosse cristallizato, così che alcun gesto
sia più possibile: è come una paràlisi, una afasia assoluta, che contrasta
dolorosamente con il senso dell'interna possibilità. Quasi che si avesse
qualcosa da dire e pertanto la bocca rimanesse muta ed inerte al comando.
L'esperienza di un tale stato interiore dà il segno della purificazione e per
essa l'individuo conosce quanto poco ciò che chiamava sua azione era veramente
sua, quanto una reale iniziativa era assente della sua vita abituale,
"superiore", e lui non un autore, ma un fantoccio, un medium sventolato da forze
straniere. Sappia pertanto l'Io, di là da ciò, trovare un sopravanzo di forza,
sappia egli malgrado tutto agire (6), allora egli si è conquistato il principio
di una vita superiore, una potenza che sta di là dal suo essere fatto di
dipendenza, di contingenza e di finitùdine. E la porta per quel più alto
compimento, che è relativo alle restanti purificazioni, gli è dischiusa.
III. PURIFICAZIONE DELLA PAROLA
Qui occorre riferirsi alla dottrina indiana dei "mantra" e, prima di tutto, dare
un cenno sui principi metafisici da essa presupposti.
Dell'insieme delle cose create il Verbo (çabda) è - secondo il mantraçastra - il
principo. Nel sistema della realtà e degli èsseri si ha la manifestazione di una
originaria potenza di espressione, manifestazione che si articola in vari gradi
gerarchici. Per comprèndere ciò, si noti che nel Verbo è implìcita una dualità:
da una parte vi è parola propriamente detta (vâk = vox), dall'altra il
significato o l'oggetto che la parola stessa esprime (artha). Ora nella prima,
suprema potenza del Verbo, chiamata çabdabrahman, parola e significato sono una
sola e medèsima cosa, la espressione è pura autorivelazione, assoluta
trasparenza del senso eterno a sè stesso. Una tale unità resta pertanto alterata
al punto dell'espressione propriamente detta. Infatti nel concetto di
manifestazione è implicito quello di una dualità, di un procédere, di un andare
verso altro (bhairmukhi). Così ciò che come çabdabrahman è uno secondo assoluta,
individuale semplicità, in ulteriori potenze del Verbo si articola e distingue.
Il Verbo nel suo farsi carne si gèmina, per il suo stesso procèdere ciò che era
un significato si scioglie da lui e si fa oggettivo in una ex-sistenza. In
questo processo dicotòmico il "suono supremo" (para) assume due aspetti. Il
primo è detto "stato sottile o causante" (sûkshma, kârana) del suono e
corrisponde alla "natura naturante", al Lògos nella sua funzione propriamente
creativa (hiranyagarbhâçabda): oggetto o senso e verbo qui sono distinti, in
secondo luogo non si ha più un senso ùnico, sintètico del tutto, ma una unità
che si dispiega in una molteplicità. Tuttavia qui la distinzione e la
molteplicità sono ancora comprese nell'unità di una funzione produttiva; benchè
distinti, oggetto e verbo non sono ancora esterni l'uno all'altro. In questa
seconda potenza del "suono" si ha dunque un insieme di funzioni cosmògone,
corrispondenti ai logoi spermatikoi della speculazione greca e alle "lèttere di
luce" della Kabbalah e che appunto sono chiamente "lettere allo stato causante"
o mâtrkâ (piccole madri) e connesse simbolicamente a quelle dell'alfabeto
sànscrito. Dalla "combinazione" di queste lèttere procederebbero tutte le cose
del mondo, pertanto non così some appàiono nei loro effetti alla percezione
sensibile, bensì quali sono nelle loro cause: tali sono i "Nomi" delle cose. Ora
in queste funzioni del Verbo l'aspetto del significato corrisponde ai "devatá"
(divinità), l'aspetto della parola o espressivo corrisponde ai "mantra". I
mantra sarèbbero dunque i Nomi dei devatâ, vale a dire i varî "corpi di potenza"
che règgono il processo produttivo delle cose; e, viceversa, i devatâ sarèbbero
i significati transcendentali, che i mantra incòrporano e fanno folgorare.
Di là da questo stato sottile del Verbo va ne è un terzo, materiale (sthûla),
corrispondente alla voce parlata audibile (vaikharî-çabda). Si sta cioè al
livello della manifestazione consumata, ove la scissione fra artha e çabda è
completa: da una parte vi è lingua parlata, dall'altra gli oggetti materiali, la
cui relazione ad essa è esteriore; il "Nome" o la parola non ha più un valore
oggettivamente espressivo o creativo, ma soltano uno convenzionale, allusivo
della materialità, non del senso interno dell'oggetto. Inoltre, mentre il "nome
naturale" o mantra delle cose è universale, il nome quale appare a questo
livello è particolare e contingente, dipende da tempo, luogo, individuazione,
razza, ecc.. Ma di là dalle varie lingue degli uòmini vi sarebbe o vi sarebbe
stata (secondo alcune tradizioni iniziàtiche, nel periodo anteriore a quella
"confusione delle lingue" a cui allude la Bibbia con la Torre di Babele) una
sorta di lingua universale, nella quale ogni cosa e ogni èssere avrebbe il suo
Nome naturale originario od essenziale (bíjâ-mantra).
La parola, così come è conosciuta dall'èssere finito, è dunque "impura": impura
anzitutto perchè essa non ha in sè, nella sua propria potenza, ma fuori di sè
l'oggetto che essa esprime, perchè essa di questo non ne dà più la natura reale
in funzione produttiva, ma la sèmplice imàgine soggettiva; in secondo luogo, per
la contingenza e la particolarità di questa stessa imàgine, che dipende da
luogo, tempo, individuazione, ecc.. Ora l'esigenza delle pràtiche che si
riconnèttono ai mantra è appunto verso una "purificazione della parola" e cioè:
portare l'Io da quella lingua che è facoltà evocativa di sèmplici imàgini
soggettive, a quell'altra lingua che è potenza di evocare le cose stesse, alla
lingua cioè che dà le cose nelle loro cause, essendo idèntica al sovrannaturale
processo produttivo di esse. I mantra sono i "nomi naturali approssimati" delle
cose: mediante una vivente compenetrazione in essi lo yoghin cerca dunque di
risalire o, meglio, di identificarsi alle varie potenze causanti o devatâ. Ciò è
svegliare un mantra: svegliare un mantra significa evocare, rigenerare, rèndere
in atto la funzione "sottile" del Verbo ad esso relativa. Si tratta di una vera
messa in rapporto, di una identificazione reale. L'Io dall'òrdine in cui la
parola è sèmplice discorso evocatore di pàllide imàgini passa a quello in cui
essa è potenza spirituale creativa, epperò dal piano in cui il percepire è una
passione al piano in cui esso è un porre (donde la connessione alla
"purificazione della mente"). Il mantra non è dunque nulla, se non è
"risvegliato": lo si può ripètere anche un milione di volte - è detto nei testi
- ma finchè esso non è conosciuto resta un mero sbattimento di labbra. Il mantra
deve èssere attuato, "fatto sbocciare" (sphota) nella sua essenza "fatta di
luce" (jyotirmayî): soltano allora esso "òpera". La sua pronuncia è dunque un
atto interiore, a cui l'espressione materiale fa soltanto da veìcolo (7). Lo
sphota puó avvenire mediante la sola forza della volontà: ma più spesso viene
assunta come ausiliario la forza vitale (prâna) o la forza di generazione (kundalini).
Ora poichè con il mantra si realizza uno stato di identità con i principî
individuanti le cose, è evidente che, vibrando la propria volontà in un mantra "risvegiato",
l'atto relativo ha valore màgico, v. d. ciò che ad esso corrisponde viene
direttamente realizzato) giacchè ciò che si vuole è come se la cosa stessa lo
volesse. Così la virtù attribuita dai testi ai mantra - alla "parola pura" - è
meravigliosa. Risvegliati i mantra dei varî elementi lo yoghin acquista potere
su di essi, puó, per esempio, far divampare il fuoco ove vuole ovvero procèdere
in mezzo ad esso senza risentirne danno; per mantra può produrre il noto
fenòmeno della crèscita di un seme in pianta in pochi minuti, può porre intorno
a sè un cerchio, che a nulla è dato attraversare: una lancia o un proièttile
scagliato contro di lui rimbalza invece contro chi l'ha inviato: può occultarsi
alla vista degli altri, provocare in essi visioni, pensieri o sentimenti;
uccidere o guarire a volontà. Nel Viçnu-purâna è persino contemplato il potere
di generare mediante mantra.
IV. PURIFICAZIONE DELL'ATTO GENERATIVO E DEL RESPIRO
Dato che impuro o imperfetto è l'atto di ciò che non giunge de sè all'attualità,
è evidente che tale è, ed in modo tipico, l'atto generativo - e la donna si può
dire che in via trascendentale non è altro che il simbolo dell'impotenza dell'Io
a darsi da sè un corpo. Ora, per comprèndere che senso qui abbia la
purificazione, bisogna tenere presente quel che si è detto in principio, e cioè
che l'atto imperfetto non risolve che apparentemente l'insufficienza
dell'agente, esso in realtà la riconferma: chi beve, chi si chiede a quell'acqua
che è un "altro" e non all'acqua eterna che è "atto puro" e a cui, con il
Cristo, ci siamo riferiti, non avrà mai in eterno spenta la sete. Ne segue che
finchè l'Io chiederà alla donna la condizione per un atto generativo, egli
permarrà nello stato di privazione e d'impurità: e la dìade e l'"altro" che così
egli va a presupporre (nella dualità dei sessi) non può secondo giustizia non
riaffermarsi nel risultato, cioè farà sì che l'atto non valga come una
autogenerazione, bensì come una eterogenerazione (generazione del figlio), donde
il destino della morte. Ciò che dà vita al figlio, ciò uccide il padre, ciò fa
dell'"Unico" un mortale, un singolo (8). L'atto fugge dall'agente e gli fa
trapassare la sua vita. Per spiegarsi più chiaramente: nel profondo
dell'individuo vi é una originaria potenza che vuole la vita di là dal limite
temporale; questa potenza al livello dell'esistenza umana normale è estravertita,
è desiderio, "guardar fuori" (bhairmukhî). Essa si vibra sur un "altro" (la
donna) e così il conato di continuità degènera, l'atto che doveva éssere di
affermazione di sè (autogenerazione) diviene quello dell'affermazione di altro -
del figlio - , la continuità risultante non è allora quella dell'individuo ma
quella della specie - e l'uomo si trova trascinato nella ruota delle esistenza
finite e discontinue, dominate dalla legge di generazione e corruzione -
mortale, eternatmente assetato ed etarnamente deluso.
Questa impurità dell'atto generativo si connette a quella che inersice
all'esistenza stessa di un corpo fisico. Nell'uomo normale la potenza cosciente
cade in gran parte fuori da quel principio profondo che dòmina i varî processi
del suo organismo. Per questo egli non sa darsi da sè un corpo, per questo egli
è impotente di contro alla legge di corruzione. Come si espresse il Leibniz, la
"carne", la corporeità rappresenta semplicemente il quantum di indistinto e di
inconscio (meglio: di passione e di privazione) che vi è nell'Io, e soltanto in
tale senso è da intèndersi come una imperfezione (9); e si potrebbe dire che una
tale zona di privazione nell'Io è il fondamento trascendentale della donna,
giacchè si è indicato che nella donna si esprime precisamente il correlativo
dell'atto generativo in quanto atto imperfetto. Questo è - per usare la
simbologia alhèmica - il "sale" che avviluppa il principio attivo e centrale del
"fuoco" o dello "zolfo" e che il "mercurio" deve sòlvere sino a consiliare
questo zolfo" e che il "mercurio" deve sòlvere sino a conciliare questo zolfo
stesso soltano con sè, nella vampa del divino (theion = zolfo = divino) - di
colui che è puro possesso o atto perfetto e la cui vita eterna, la cui eterna
autogenesi è simboleggiata appunto della Fenice traèntesi della fiamma. Tale è
la "Grande Opera", che così ha per senso la costruzione di un "corpo fatto di
libertà", di un corpo spiritualmente trasparente a sè stesso. Si è cioè portati
alla dottrina del "corpo immortale" o "còsmico" di cui si trova traccia in quasi
tutte le religioni e che si basa dunque sul seguente presupposto: che la
corporeità non sia altro che ciò che nello spirito vi è di passivo, di non
ancora espresso, di virtuale, di "in potenza"; che essa non costituisca un
principio distinto, ma invece uno stato di privazione (husterema), ma ombra
nella realtà ùnica dello spirito. Allora é chiaro che la liberazione non può
consìstere in un distacco dal corpo, ma in una risoluzione di esso. Qui
purificazione signìfica appunto realizzare in funzione di potenza in atto ciò
che come corpo (materiale) viene vissuto in funzione di passione - e tale è la
"costruzione del corpo immortale": "corpo immortale", o "corpo di resurrezione",
"corpo fatto di spìrito", "corpo apparente" (mâyâvi-rupa: si ricordi che mâyâ
nelle scuole tàntriche e mahâyâniche vuol dire sia apparenza che potenza màgica)
o "di fiamma" (10), è la risoluzione senza residuo del corpo materiale in
attività pura, in çuddhasattvaguna - è l'individuo in cui il lato negativo di
rajas e tamas (11) è interamente scomparso. Lo si chiama immortale perchè,
dipendendo interamente dall'Io, l'Io può farlo apparire o disparire, mantenerlo
o distruggerlo quando vuole e per il tempo che vuole, di modo che la legge di
vita e di morte è vinta (12). Lo si chiama poi "corpo còsmico" per questo, che
viene ammesso che i principi metafisici o "divinità" che règgono la natura si
tròvino presenti nel corpo, sia pure sotto una forma oscurata e come dormenti,
forma donde procede appunto che l'Io li sperimenti come natura - cioè come
"altro" - e non in sè stessi come spirito. Ma nel punto in cui la corporeità sia
interamente conquistata all'attualità cosciente, questa forma viene meno epperò,
identificato ai varî principî della gerarchia còsmica, l'individuo va a sentire
che il suo vero corpo è l'universo.
Ora se l'impurità dell'atto generativo è la causa dell'esistenza finita e
mortale; e se, d'altra parte, questa esistenza si definisce nel differenziale di
oscurità e di privazione che il corpo in quanto tale rappresenta; si comprende
come alla costruzione di quella purità suprema che è il "corpo immortale" - per
cui lo stesso "altro" della natura esteriore viene risolto - si connetta una
conversione della forza di generazione. Qui non è il caso di estèndersi sulla
tècnica di un tale processo. Bastí un accenno sul kundalini-yoga dei
çakti-tantra, che si permetterà altresì di dire qualche parola sulla
"purificazione del respiro". Il senso della cosa è, ad un dipresso, il seguente:
vi è nell'uomo una forza (kundalini) che è radice della sua unità individuale e
principio superiore ad ogni polarità o dualità. Essa è il Logos (çabdabrahman)
nel corpo. Pertanto nell'uomo normale questa forza non appare che nella forma
estravertita ed impura (impura perchè volta ad altro) di potenza di generazione
animale. Si tratta di attuare nella coscienza kundalinî, di impugnarla, di
staccaaria da questa direzione estravertita e ripiegarla quindi su sè stessa in
un punto di possesso e di sufficienza. Allora kundalinî, risuscitata nella sua
vera natura, si fa lo strumento per la riaffermazione dell'Io su tutti quei
principî che règgono il suo essere fisico, biològico e mentale e che prima
cadèvano fuori dalla sua potenza. Ora per operare una tale conversione occorre
che kundalinî sia investita da qualcosa che - già pura ed intera - a lei
comùnichi questi caràtteri. Tale può essere il prâna.
Prâna per gli Orientali è la forza di vita connessa al respiro e, in uno,
trascendente il soffio materiale con cui si può dire che stia nello stesso
rapporto che nella metafisica connettèntesi a tali discipline il senso supremo
della creazione sarebbe dato del mantra HAMSAH: HAM sarebbe l'inspiro, SAH
l'espiro, quindi HAMSAH una simultaneità di inspiro ed espiro. Naturalmente,
l'espiro qui essendo simbòlico del proodos, dell'atto di pura, demiùrgica
creatività, l'inspiro della potenza ulteriore per cui su tutto ciò che ha
"proceduto" il principio centrale si riafferma, riconosce e possiede, hamsah ha
il senso di quella eterna, semplice folgorazione, sintesi di èssere e di
non-éssere (sadasat) in cui l'Assoluto fruisce di un puro rivelarsi o darsi a sè
medèismo. Ora hamsah - che è ciò in tutti gli èsseri" sono, si muòvono ed hanno
vita" - è presente anche nell'uomo, però in una forma impura e sdoppiata:
nell'uomo la vita (pràna) non è più ferma e raccolta in simultaneità, bensì va e
viene in un inspiro e in un espiro alternati, in una fluttuazione e in una
contingenza che riflette quella suprema del primo inspiro del nascituro e
dell'ultimo espiro del morente.
Lo yoghin, con appropriate discipline (prânâyâma), volge a consumare questa
impurità. L'Io deve impugnare prâna, strapparlo dallla fluttuazione, tenerlo
fermo nel proprio corpo. Con una tale potenza concentrata ed intera si va poi ad
investire kundalinî; allora questa si "sveglia", si stacca cioè dalla direzione
estravertita che la brama dòmina e si media in sè stessa; essa non fluisce più
verso il basso, ma "verso l'alto" (ûrdhvaretas). In ciò la generazione animale (eterogenerazione)
cede a quella degli Dei o spirituale (autocrisi). Fàttasi attività pura ed
individua, kundalinî, investe progressivamente varî centri "sottili" e vi riduce
in semplicità attuale la dualità - il che signìfica: realizza nell'Io un
rapporto di identità e di possesso con quelle potenze spirituali che, presso
allo stato di privazione e alla oscurità del corpo, gli si opponèvano come
natura fisica. Al limite del processo si ha la purificazione di ciò che fu la
congiunzione sessuale - v. d. la pura autogenerazione -e, in ciò, la liberazione
suprema (paramukti). È detto che per chi si sia elevato a questo punto non
esiste più nè corpo, nè "altro" (kaivalya), nè dissoluzione, nè destino di
rinàscite: egli vive in funzione di attività pura ciò che prima soffriva come
oscurità e privazione: le varie funzioni sono risvegliate ed esaltate nella loro
originaria e gloriosa natura di potenze còsmiche. In particolare l'Io può
generare, può darsi da sè un corpo come anche mantenerlo o cambiarlo ad
arbitrio. Signore delle leggi di vita e di morte, egli è saccidânda, cioè:
attualità cosciente (cit) e, in quanto perfetta (sat), beata (ânanda) (13)
Crediamo che questo cenno sur una delle più importanti dottrine iniziàtiche non
sia interamente privo di interesse; e saremmo di certo assai lieti se qualcuno
per esso riuscisse ad intravvedere la possibilità di una considerazione di
sìmili argomenti, che vada di là sia dall'atteggiamento limitato di coloro che,
chiusi in assai ristretti orizzonti, sanno soltanto disprezzare e derìdere, sia
di coloro che, come i polpi, àmano intorbidare le acque e far passare per
mistero e per "occulto" ciò che esse non rièscono a penetrare, che anzi sanno
soltanto deformare con una quantità di pregiudizî: e a questa classe si può dire
rientri la quasi totalità di coloro che oggi pàrlano di "scienza occulta". Vi è
invece un modo di considerare l'iniziàtica, per cui essa presenta un contenuto
perfettamente intelligìbile e in sè stesso vàlido, procedente inoltre da un
concetto dell'uomo - di questo sarchi peripolon theos - del suo valore e del suo
còmpito, elevato e grandioso quanto pochi altri. Non ci si fermerà di certo
sulla quistione della possibilità reale di sìmili vie. In ogni caso non è da
trascurare quanto la metapsìchica oggi va via via constatando come
effettivamente possìbile per l'uomo. D'altre parte, sta di fatto che una
quantità di cose ci sono impossibili soltanto perchè noi crediamo che siano
tali; e che la via dello spirito è tale, che essa non esiste per chi non uole
camminare.
Note
(1) Meister Eckhart, Schriften und Predigten, ed. Büttner, v. I, p. 126.
(2) Giovanni, IV. 13-14
(3) J. Evola, Saggi sull'idealismo mágico, ed. Atanor, Roma, 1925, c. V.
(4) Op. cit., v. I, p. 121. Si può anche riferire la relazione intesa nella
tàntrica fra l'energia della volontà, - in quanto purificata - e Umâ - colei che
non è sposa di alcuno (icchâçaktih Umâ kumâri). "Lo stato eterno - dice un testo
- è quella potenza della volontà chiamata la regina suprema (parâbhattârikâ)
conosciuta come kumâri [= non sposata]". Cfr. A. Avalon, Hymns to the Goddess,
London, 1913, p. 161. Nell'esoterismo occidentale si ha lo stesso concetto nel
simbolo della "Imperatrice" dell'arcano III dei Tarocchi; è nel simbolismo
ermètico, la purità celeste dell'"antimonio" che dòmina il segno del cangiamento,
la Venera Urania opposta alla potenza selvaggia della "luce astrale" (=èros), la
"Diana ignuda" (nudità che si riferisce allo stato della volontà che è solamente
sè stessa in un possesso, e che corrisponde a quella della Dea kâli dei çâkta)
la cui visione è lo scopo dell'iniziazione. Il senso del modo della volontà pura
è poi dato dall'"agire senza agire" del taoismo, di cui abbiamo parlato in
questa stessa rivista, n. 1-2 del 1925.
(5) In relazione a ciò in alcune scuole orientali, aventi fra noi riscontro
nell'eresia antinomiana, viene affermato che colui che è compiuto in yoga é
svecchâcâri=quei che può fare ciò che vuole: egli può compiere senza macchiarsi
"anche quelle azioni il cui solo pensiero spingerebbe gli altri alla
perdizione".
(6) Ciò corrisponde a quel "passare il ponte sopra l'abisso senza fondo" di cui
pàrlano alcune scuole riconnetténsi al zoroastrèsimo; e al "tenersi quando non
si tocca più il fondo" della cosìdetta prova dell'acqua.
(7) Da quì ingenuità di coloro che dredono che le cosìdette fòrmule magiche
òperino automaticamente, ex opere operato, anzichè per la potenza spirituale
vibrativi da colui che le pronuncia, cioè ex opere operantis.
(8) Sono interessanti, a questo proposito, i noti frammenti non canònici,
riportati da Clemente Aless. (Strom., III, 9, 63, segg.: III, 3, 92): "Avendo
appropriatamente il Signore accennato al compimento finale, Salomé dice: 'Fino a
quando gli uòmini morianno?' Rispose il Signore: 'Finchè voi donne genererete'.
E soggiungendo essa: 'Ben feci dunque a non partorire'... il Signore ribatte:
'Mangia di ogni erba, ma di quella che ha l'amaritùdine [della morte] non
mangiare'. E quando Salomé domandò quando sarèbbero palesi le cose che chiedeva,
il Signore disse: 'Quando la veste d'obbrobrio [il corpo] sarà calpestata e
quando i due divèngano uno e l'uomo con la donna nè uomo nè donna'".
(9) G. W. Leibniz, Rèplica alle riflessioni del Bayle, ed. P. Janet, Paris,
1900, t. I, pp. 700-701.
(10) Del corpo fatto di fiamma non terrestre, sufficiente a sè medésima, non
bisognosa di alimento alcuno, fatta di pura attività, parla Plotino, Enn. II, I,
5-7-8.
(11) Tamas, rajas e sattva sono denominazioni largamente usate nella
speculazione indiana ed indicative rispettivamente di uno stato di oscurità,
negazione ed inerzia, di cangiamento e di pura attualità.
(12) così nei tantra si parla dell'icchâmrtyu = morte e volontà e nel taoismo
del s'ikiai ) facoltà di fare scomparire il proprio corpo senza residuo.
(13) Sul kundalini-yoga e, in connessione, sulla dottrina dell'Andrògine
spirituale, si è parlato più distesamente in queste stesse pagine (n. 12 del
1924), in "La donna come cosa" (rivista Ignis, n. I del 1925) e nel IV e V
capitolo dei citati Saggi sull'idealismo màgico. Infine il lato tècnico e
metodològico delle pràtiche di purificazione è dato in una opera nostra sui
Tantra [Tantra - Il Mondo come Potenza] in corso di pubblicazione.
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