Scholem, sull’interpretazione dei cabbalisti

Dopo aver sottolineato l’importanza della tradizione nella trasmissione della Torah, Scholem mostra come i cabbalisti si siano inseriti in questa tradizione e come essi abbiano interpretato la parola di Dio.

 

G. Scholem, I concetti fondamentali dell’ebraismo, trad. it. di M. Bertaggia, Marietti, Genova, 1986, pagg. 90-96

 

Nell’ebraismo la tradizione costituisce il momento riflessivo che s’incunea tra l’assoluto della parola divina, la rivelazione, e colui che la riceve. Come tale, essa interroga radicalmente la possibilità stessa di un rapporto immediato col divino; quella possibilità che viene appunto afferrata nella rivelazione. In altri termini: può la parola divina coglierci direttamente, e può essere immediatamente compiuta? O non richiede invece quella parola, appunto nella direzione tracciata dalla tradizione ebraica, di mediarsi proprio all’interno di questa tradizione, per farsi esperibile e giungere con ciò a compiutezza? Per l’ebraismo rabbinico la risposta a tale questione è ovviamente affermativa. Ogni esperienza religiosa successiva alla rivelazione è un’esperienza mediata. È l’esperienza della voce di Dio, mai l’esperienza di Dio stesso. Ma il ricorso alla voce di Dio è proprio di una concezione antropomorfica: e i teologi hanno sempre accuratamente evitato di fare i conti con questo fatto. Ma anche nell’ebraismo tale ambito di questioni è stato affrontato e pensato soltanto dalla dottrina mistica dei cabbalisti. I cabbalisti – i quali erano tutto fuorché eretici, bensí cercavano semplicemente di penetrare il senso dei concetti ebraici a un livello piú profondo di quanto non avessero fatto i loro predecessori – hanno compiuto il passo che conduce dalla tradizione talmudica alla tradizione mistica. Ma per comprendere correttamente questo concetto mistico di tradizione, dobbiamo fare un passo indietro, cercando di richiamare alla mente l’idea che i cabbalisti ebbero della Torah come rivelazione e parola di Dio. I cabbalisti si sono sforzati di dischiudere il cuore piú intimo della Torah, di decifrare, per cosí dire, la Scrittura. Aprendo a un nuovo concetto di tradizione (non va dimenticato che la ebraica kabbalah significa appunto “accoglimento della tradizione”), essi vanno certo al di là di tutto quanto era stato pensato su tali questioni dall’ebraismo essoterico. E tuttavia la loro riflessione rimane specificamente ebraica. In un certo senso i cabbalisti non hanno fatto altro che trarre le estreme conseguenze dalle concezioni dei talmudisti circa le categorie religiose di rivelazione e tradizione.

La prima questione che si impose all’attenzione dei cabbalisti concerneva la natura della Torah come “Torah scritta”. Che cosa propriamente può essere rivelato da Dio, e in cosa propriamente consiste la cosiddetta parola di Dio che è consegnata a chi riceve la rivelazione? La loro risposta fu: nella rivelazione è Dio stesso che si rivela, facendosi lingua e voce. Ma questo punto in cui la potenza divina precipita in un’espressione, per quanto ancora cosí intima e nascosta, è il nome di Dio.

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Se questa concezione mistica della Torah è stata esposta solo di rado, universalmente riconosciuta e di fatto centrale per la nostra analisi è un’altra conseguenza che deriva dal principio della Torah come nome di Dio. Si tratta della tesi dell’infinita significanza [Sinnesfülle] della parola divina, comunque la si voglia definire. Anche la parola che è già passata nelle segnature, cioè la parola di Dio, certamente dev’essere del tutto diversa dalla parola umana. Essa attinge tutto, tutto comprende in sé e, a differenza della parola umana, non può ridursi all’interno di un unico particolare contesto di significanza. In altri termini: questa parola è oggetto d’interpretazione infinita, anzi è l’interpretabile per eccellenza.

 

Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. V, pagg. 169-170 e 172

 

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