Sul Potere Curativo delle Immagini

Alessandro Orlandi

 

Il potere di guarigione dei sogni nel mondo antico

 

Nella medicina antica, a Roma, in Grecia si usava far addormentare il malato presso un tempio di Esculapio o di Apollo perché riceveresse in sogno le indicazioni sulla cura da seguire (medicina incubatoria). Se c’era difficoltà a decifrare il sogno avrebbe poi provveduto il sacerdote del Dio a dissiparle. Il medico in tal caso era un sacerdote guaritore e indovino (iatromantis).

In un racconto che ci è pervenuto dal mondo antico[1] viene descritto il rito dell’incubazione: il paziente (Elio Aristide) si recava a Pergamo, addormentandosi  presso il santuario di Esculapio e l’intervento guaritore del dio avveniva, appunto, in sogno (Altri tipi di medico erano lo iatreion, che cura con i farmaci, e il physiologos che curava attraverso lo studio filosofico della Natura e il sapere cosmologico).

Presso Greci, Romani ed Etruschi era anche diffusa la figura dell’interprete di sogni, che a volte coincideva col sacerdote di Apollo, a volte era un medico che “esercitava” anche questa arte o un semplice oniromante  girovago (cfr il Libro dei sogni [Onirocritica] di Artemidoro). Era diffusa la credenza che i sogni potessero preannunciare malattie o persino la morte del sognatore o delle persone a lui care e che, talvolta, i sogni, se correttamente interpretati, contenessero il segreto per la guarigione. Già Omero, nell’Odissea, parla di due porte dalle quali i sogni arrivano a noi umani: una di avorio dalla quale escono i sogni mendaci e quelli che si riferiscono alla vita di tutti i giorni e una di corno dalla quale ci sono inviati dagli déi i sogni veraci, quelli profetici e quelli che hanno il potere di guarire.

In un suo libro, “Il sogno e il mondo infero”, lo psicoanalista James Hillman traccia una analogia tra le immagini dei morti che appaiono ad eroi come Enea o Ulisse nei loro viaggi nell’Oltretomba, che i greci chiamavano Eidola, e le immagini delle persone con cui interagiamo nei nostri sogni. Quelle immagini, cariche di energia psichica, possono darci indicazioni preziose per il nostro futuro e per la nostra salute.

 

D’altro canto anche gli sciamani di tutte le civiltà conosciute si servono dei sogni per guarire chi si rivolge loro  ed è anche attraverso la visione di immagini “numinose” che lo sciamano acquisisce i suoi poteri.

 

Scive Eliade ne “Lo Sciamanismo”: “Le malattie i sogni e le estasi costituiscono in se stesse una iniziazione, vogliamo dire che esse vanno a trasformare l’uomo profano di prima della “scelta” in un tecnico del sacro.

 L’esperienza d’ordine estatico è sempre e dappertutto seguita da una istruzione teorica e pratica da parte di vecchi maestri: ma non per questo essa è meno decisiva, perché è essa che modifica radicalmente lo stato della persona “scelta”.

 

L’esperienza sciamanica cui fa riferimento Eliade consiste in un cambiamento di prospettiva sul mondo: lo sciamano, come effetto della sua esperienza estatica “vede” la realtà da un altro punto di vista, un punto di vista che gli conferisce Potere e lo trasforma radicalmente.

 

Il potere di guarigione delle immagini: immagini sacre e  immagini alchemiche

 

Nel mondo antico (anche in Egitto), oltre che i sogni venivano utilizzate a fini di guarigione sia le immagini degli dei che il racconto dei miti che li riguardavano.

Si pensi, anche oggi,  al ruolo delle immagini sacre e miracolose nella religione cristiana (immagini e icone della madonna, dei santi, di Gesù). e in altre religioni (buddismo, induismo). La semplice contemplazione di una immagine può avere dunque il potere di far sparire le piaghe di un lebbroso, di sanare uno zoppo o un malato terminale, di guarire una malattia nervosa.

 

Nel pensiero esoterico occidentale un ruolo importante spetta all’alchimia, che ne costituisce uno dei cardini fondamentali fin dai primi secoli dopo Cristo. Oltre che la trasformazione del piombo in oro l’alchimista si poneva come obiettivo la preparazione di un elisir di lunga vita capace di guarire le malattie e conferire l’immortalità a chi se ne fosse ripetutamente dissetato.

Ebbene, nella tradizione alchemica le immagini sono importantissime ed esistono libri costituiti da sole immagini.  Le sostanze da utilizzarsi nell’Opera alchemica, gli strumenti necessari e le operazioni da compiere sono velate dietro raffigurazioni di oggetti, strumenti e animali fantastici, raffigurazioni allegoriche con carattere antropomorfo che hanno come sfondo una Natura piena di riferimenti simbolici. Queste immagini avevano, dichiaratamente, il compito di stimolare “l’immaginazione attiva” e diventavano una metafora della trasformazione che aspettava sia l’alchimista che la materia su cui egli lavorava (cioè si riferivano sia a operazioni chimiche che ai corrispondenti stati psichici). Questo particolare tipo di immaginazione di cui parlano gli alchimisti va distinto dal semplice fantasticare, ha un valore di conoscenza ed è a pieno titolo uno strumento dell’operare alchemico. Dice il Rosario dei Filosofi: “La Natura porta a termine la sua operazione a poco a poco, io voglio che anche tu faccia così, e sia la tua immaginazione secondo NaturaE questo immaginare sia fatto con la vera immaginazione e non con quella fantastica”.

Gli alchimisti non rifuggono nemmeno dal citare i sogni come chiavi che possono aprire la porta che racchiude i segreti dell’Opera (Si pensi al Sogno Verde di Bernardo Trevisano o alle Visioni di Zosimo, o, in tempi più recenti, all’Hermes svelato di Cyliani).

Il dato che caratterizza le immagini e le metafore alchemiche rispetto alle infinite possibili corrispondenze simboliche, che invece non fanno parte dell’immaginario alchemico, è una concezione dell’universo in cui spirito e materia, corpo e anima, sono profondamente connessi e in cui esiste un segreto legame tra tutte le creature, tra i regni della Natura, tra Microcosmo e Macrocosmo, tra le trasformazioni subite dalla materia e quelle subite dall’operatore. Infatti l’alchimia non si riduce mai a soli processi psicologici e stati estatici ma ha sempre anche un aspetto operativo, che si riferisce alla trasmutazione di sostanze minerali o vegetali.

 

 In “Psicologia e Alchimia” Jung osserva come vi sia una stretta concordanza tra le immagini e le metafore proprie dell’alchimia, le immagini che emergono dai sogni dei suoi pazienti, e quello che chiama “il processo di individuazione del Sé”. Si tratta di un lungo e labirintico percorso che conduce un individuo a fare i conti col proprio “destino psicologico”, a far emergere all’attenzione della coscienza le istanze più profonde del suo essere, sia quelle provenienti dall’alto che quelle, inconsce, provenienti dal basso.

 

Nelle culture orientali alle immagini viene attribuito un potere di guarigione. In Cina si pensi ad esempio alle immagini dei Ching, il Libro dei Mutamenti, che si basano su una concezione del rapporto Microcosmo – Macrocosmo non dissimile da quella di cui parlavamo un attimo fa. Chi consulta il Libro dei Mutamenti gettando tre monete o gli steli di millefoglie, compie una azione sincronica che contiene in sé l’impronta del tempo che circonda il consultante, degli eventi che lo hanno preceduto e di quelli che seguiranno. L’immagine che deriva dalla consultazione dell’oracolo va quindi contemplata come una fedele immagine della “tendenza” che domina il tempo presente a cui il consultante deve adeguare i propri comportamenti come l’acqua si adegua alla forma del recipiente chela contiene, per non andare contro le leggi che regolano il cosmo. Chi si adegua all’immagine che domina il Tempo viene chiamato dai Ching “Il Nobile”. Chi la ostacola è “L’Ignobile”, dove questo epiteto non ha carattere morale, ma è una constatazione di ignoranza delle leggi che regolano l’Universo. Chi, invece, le conosce e si adegua ad esse ha salute, “emenda le cose guaste”, guarisce.

 

I tibetani attribuiscono il potere di guarire anche a complesse pitture e raffigurazioni delle entità sottili, dèi e demoni, che operano nell’invisibile e ci attendono nell’Oltretomba.

Nella visione tibetana durante le nostre vite alimentiamo attorno a noi delle “forme pensiero” con idee ricorrenti e stati d’animo ad esse associati, come rabbia, frustrazione, speranza, paura, collera, desiderio etc.

Queste forme pensiero, che si nutrono delle nostre energie, finiscono con l’acquistare vita propria, col determinare malattie del corpo e dell’anima e ci attendono nell’oltretomba per banchettare con le nostre energie. Il Bardo Thodol, il libro tibetano dei morti, va letto al defunto subito dopo la morte per guidarlo nel Bardo, cioè nell’oltretomba. Gli vengono descritte le figure terrificanti che egli incontrerà, le quali dissiperanno la sua consapevolezza e lo spingeranno a reincarnarsi in una forma inferiore di vita. Gli viene detto ripetutamente che si tratta di immagini scaturite da lui stesso e dalle azioni compiute durante la vita, che quelle immagini non sono, appunto, che i pensieri ossessivi coltivati durante l’esistenza terrena assieme alle emozioni che li hanno animati e che essi vanno riconosciuti come mere illusioni. Qui la rappresentazione del mondo demonico che ci attende nell’oltretomba e che  circonda, invisibile, la nostra  vita, ha il compito di guarire il corpo e lo spirito dalle malattie che li affliggono (se chi ascolta il bardo è ancora vivo e cerca la conoscenza) o di guidare il morto verso la luce attraverso le insidie del bardo dell’oltretomba. Si ritiene che meditare sulle immagini delle forme che abitano il mondo sottile, malefiche o benefiche che siano, sia una via di guarigione e redenzione.

 I Miti

Durante i Misteri del mondo antico (di Dioniso, di Iside, di Cibele, di Iside e Osiride, di Mitra etc.) veniva attribuito  ai riti che venivano compiuti e  al racconto di dei miti e delle vicende degli dèi il potere di guarire sia i corpi che le anime.

 

In particolare, durante i misteri eleusini dionisiaci e isiaci, agli iniziati veniva raccontata una vicenda del dio o della dea (esempio: la ricerca di Persefone da parte di Demetra, la discesa agli inferi di Trittolemo e il riscatto di Persefone, Dioniso fatto a pezzi dai Titani e ricostituito dal cuore, le nozze infere tra Persefone e Dioniso- Ade, la favola di Amore e Psiche). Con l’aiuto di un rito, di una particolare bevanda, mentre veniva asperso incenso e si ascoltavano musiche ipnotiche si otteneva un “salto percettivo” mediante il quale il mito mostrava all’iniziato  un senso riposto che egli non aveva precedentemente mai considerato.

 

Nelle culture arcaiche le condizioni materiali dell’uomo sono interpretate alla luce delle “leggi cosmiche”. Gli aspetti fondamentali dell’esistenza sono scanditi da riti e miti. Tanto i riti che i miti, come mostrano gli studi di Mircea Eliade, hanno lo scopo di collegare ogni nuova azione a un archetipo primordiale, che deve conferirle senso e realtà annullando e rifondando il tempo.

Si vuole in tal modo mostrare che ciò che l’uomo si accinge a fare è già successo all’inizio dei tempi nel mondo degli dèi, o dei progenitori mitici, o degli archètipi e che la situazione attuale, in quanto ripete l’azione primordiale, ha un senso ed eredita magicamente il “potere del fare”.

Ciò vale per tutte le principali azioni della vita (coltivare la terra, battersi in guerra, raggiungere la pubertà, unirsi in matrimonio, generare figli, catturare prede durante la caccia, ammalarsi e morire).

Lo scopo dei riti è quello di creare una corrente di comunicazione tra l’umano e il non umano. Il rito è visto, in una iniziazione, come un vero e proprio insieme di mezzi “tecnici” per entrare in contatto col sacro. Chi viene iniziato sperimenta un bagno purificatore, fonte di vita, di rinnovamento e di guarigione.

Il mito invece può avere differenti gradi di influenza sull’iniziando, a seconda di come vengono ordinati e interpretati i simboli che lo costituiscono. Nel mito, in altri termini, vi è un rito in fieri ed anzi, (dato che lo stesso mito può essere penetrato con diversi livelli di profondità in tempi diversi), più riti in fieri.

Il rito costituisce un mezzo, uno strumento per entrare in contatto col sacro, anche se l’officiante non ne comprende veramente il senso. Il Mito, invece, che deriva dalla radice mu e dal latino mutos, muto, si fa rito solo nella misura in cui chi lo utilizza ne ha disvelato il senso profondo. L’essenziale del mito è ciò che il mito tace, l’analogia nascosta o la metafora che, se viene svelata, rende attivo il mito, gli conferisce quel potere evocativo che, invece, il rito possiede già intrinsecamente. Potremmo quindi anche dire che il mito agisce dall’interno, mentre il rito dall’esterno.

 

Le fiabe e le allegorie

 

Cominciamo col dire che, dal punto di vista storico ci sono stati moltissimi studi dedicati alle fiabe e al loro ruolo nella formazione sia sociale che individuale delle persone. Dal punto di vista individuale si pensi ad esempio al “Mondo Incantato” di Bruno Bettelheim, che analizza il modo in cui il mondo magico delle fiabe serve al bambino per comprendere e affrontare la realtà che lo circonda, per dare una forma alle sue ansie esistenziali, per dialogare con il proprio inconscio e rapportarsi alla propria sessualità e alle figure negative o minacciose che avverte intorno a sé. Dal punto di vista collettivo gli studi di Propp affermano che le fiabe di magia affondano le loro origini storiche nei riti di iniziazione e di passaggio dell'età tribale e presentano, al di là dell'area culturale di appartenenza, una stessa struttura, costituita da personaggi che svolgono le stesse funzioni in rapporto allo svolgimento della storia.

Levi – Strauss oppone a Propp una teoria leggermente diversa: si dovrebbe secondo lui analizzare piuttosto l’insieme di coppie di opposti che si agitano dietro la storia, tendo conto che una funzione può trasformarsi in un’altra, secondo lui l’errore del formalismo di Propp è anche nel credere che ci si possa occupare solo della “grammatica” delle fiabe e rinviare l’analisi del lessico mentre, egli sostiene, “…nel metalinguaggio di fiaba e mito tutto è sintassi”.

 

Dal punto di vista del potere di guarigione delle fiabe, secondo la corrente psicoanalitica junghiana, due sono i punti fondamentali:

-       L’elemento della favola che rappresenta la malattia, l’Ombra, il Problema da risolvere, il maleficio

-       Il metodo di guarigione e gli attori della fiaba che ne divengono i veicoli.

Non esiste naturalmente una ricetta universale né una unica lettura di come agiscano le fiabe. Quello che è certo è che le fiabe non sono mai il prodotto dell’immaginazione di un solo individuo ma costituiscono un materiale in cui si sono depositati secoli di elaborazione collettiva, e possono diventare un mezzo, secondo gli studiosi junghiani, di risalire agli “archetipi dell’inconscio collettivo” perché col tempo finiscono col perdere ogni carattere locale e individuale e ogni rapporto con la storia  iniziale che ispirò la fiaba e contengono, proprio per ciò, un elemento di universalità, incarnano  ombre,  mali e  rimedi scaturiti da  una intera  collettività nel corso di molte generazioni.

Secondo la Von Franz l’eroe della fiaba è una emanazione del Sé che diviene uno stimolo per modellare l’Io, sia per strutturarlo che per destrutturarlo e trasformarlo.

 

 Dal punto di vista della psicoanalisi junghiana la condizione di salute potrebbe definirsi come uno stato di armonia tra il complesso dell’Io e il Sé. Lo stato di malattia consiste, invece, una situazione disarmonica in cui, spinti dall’ambiente, da un impulso incoercibile o da cause ereditarie ci si è alienati dai propri istinti, adottando comportamenti “sbagliati”. (Individuo sensibile e timido che si forza a una vita avventurosa e pubblica, o viceversa, chi, nato per l’avventura e l’estroversione, si piega a una vita prevedibile e interamente programmata, chiusa agli stimoli esterni, magari per venire incontro alle richieste di terzi).

Quando un complesso particolare viene attivato, esso può avere effetti su ogni aspetto di una persona alterando l’equilibrio generale delle parti. Questo è quello che una fiaba percepirebbe come “maleficio”.

Il fatto che fiabe, allegorie e miti possano guarire chi ne ascolta il contenuto dipende dalla profonda “risonanza” tra il maleficio di cui si narra nella fiaba o nel mito e il disturbo dell’essere umano che ascolta. Per questo motivo, anche il metodo di guarigione o redenzione previsto nella fiaba può “riverberare” il suo contenuto nella vita reale del malato, suggerendogli la via da prendere per guarire. 

Per fare alcuni esempi di “malefici”: (tenendo conto che il tipo di maleficio chiarisce quali sono le caratteristiche negative verso le quali l’Io è regredito e quindi, rendendole “visibili”, permette di affrontarle)

-       essere presi da un sonno simile alla morte, destinato a durare finchè “l’alleato magico” non ci risvegli

-       essere trasformati in animali (asino, cigno, lupo, corvo, volpe etc…)

-       subire una grave privazione o perdita (della persona amata, di tutti i propri beni etc.)

-       cadere in schiavitù al servizio di un mago, di un orco o di una strega (con la variante dell’essere divorati)

-       essere sottoposti a prove difficilissime, pena la morte se si fallisce

E di metodi di “redenzione”:

 - Bagno purificatore nell’acqua o nel fuoco

 - superare alcune prove apparentemente “impossibili”

- sottoporsi a un lungo periodo di privazione sensoriale (senza parlare, senza mangiare, etc.)

 - In alcune fiabe la distruzione della pelle dell’animale o l’uccisione dell’animale in cui il protagonista è stato trasformato è causa di redenzione, in altre è causa di disgrazia (può la coscienza integrare quel contenuto?)

Quale nostro atto consapevole  corrisponde a una particolare vicenda di una favola o di una allegoria? Qui torna la tecnica della “immaginazione attiva”, di cui si è parlato a proposito dell’alchimia. Se si è riusciti a  diagnosticare il proprio disturbo attraverso la metafora della fiaba o dell’allegoria, se la stessa fiaba ci suggerisce quale personaggio o azione sia portatore/ portatrice di redenzione e guarigione, si tratta di “dare la parola” a quell’aspetto della fiaba o a quel personaggio e dialogare  con lui/lei, ascoltando con attenzione quello che “l’alleato magico” ha da dire. Non si deve tuttavia agire finché non sia giunto il momento, finché la coscienza non sia pronta ad integrare i contenuti finora respinti come Ombra: questo spiega come mai spesso la luce nelle fiabe possa avere un ruolo negativo (si pensi a Amore e Psiche). Per fare questo delicato lavoro occorre guardare alle fiabe e alle allegorie come si guarda ai sogni: ogni elemento della fiaba può essere un elemento della nostra psiche.

Sgombriamo infine il campo da un possibile equivoco: non esiste nulla come la “spiegazione definitiva” di una fiaba, di una immagine, di un sogno o di un mito o una “interpretazione definitiva” di un’allegoria! Immagini, fiabe, sogni, allegorie e miti ci continueranno a parlare per tutta la vita in modo diverso nelle differenti fasi della nostra evoluzione. Come le facce di un diamante rifletteranno ogni volta la luce sotto una diversa angolazione. Ciò che conta, infatti, non è la “spiegazione intrinseca” di una fiaba, ma le energie che essa ha il potere di liberare quando la rendiamo attiva. Durante le iniziazioni ai Misteri dell’antichità lo stesso mito (ad esempio Amore e Psiche) poteva essere raccontato molte volte all’iniziato in differenti fasi dell’iniziazione e, ogni volta, svelava un aspetto diverso della conoscenza.

 

5) Perché immagini, miti, fiabe e sogni hanno il potere di guarire?

 

Nelle culture nelle quali si ritiene di poter guarire con l’aiuto di una  fiaba o di un mito, non viene fatta una netta distinzione tra le malattie  della mente e quelle del corpo, per il semplice motivo che il “corpo” dell’uomo  non si riduce alla sua componente visibile e tangibile.

 Per gli egiziani accanto al corpo fisico soggetto alla putrefazione, il khat o sahu, sussistevano lo shut (o khabbit ), il corpo eterico, l’umbra dei latini, anch’esso destinato a dissolversi dopo la morte, il Ka, il corpo astrale o corpo delle emozioni, che poteva evitare di dissolversi dopo la morte grazie al supporto del corpo fisico mummificato, dei vasi canopi, delle scritte sulle pareti del sepolcro e delle offerte, ma non era suscettibile di ulteriore evoluzione. Quindi il Ba, l’anima che collegava tra loro il piano spirituale e divino con quello terreno,e infine l’ Akh, l’immortale corpo di luce.

Anche nelle dottrine asiatiche troviamo simili distinzioni: Nella tradizione tibetana nello stato del Bardo, successivo alla morte, mentre il corpo materiale si dissolve, la consapevolezza del morto si aggira in una sorta di labirinto di incubi e viene messa di fronte alle forme-pensiero alimentate durante la vita, che possono assumere diverse colorazioni, alcune che conducono verso la Liberazione e verso i corpi sottili e spirituali, altre verso la rinascita verso forme sempre meno evolute. Queste forme-pensiero sarebbero una sorta di estroflessione delle speranze e delle paure, consapevoli e inconsce, che il defunto aveva alimentato durante la sua vita. Alimentatesi delle sue energie per decenni reclamano ancora nutrimento dal corpo sottile che sopravvive (temporaneamente) alla morte fisica e così appaiono al defunto come “divinità divoratrici” che reclamano le sue energie.

Nell’ induismo e nel taoismo lunga è la via che conduce l’anima a identificarsi con lo Atman delle Upanisad, immortale e definito da: “non è questo, non è quello” e assai complessa la struttura dei corpi in cui il cosmo si riflette. Si può però accennare alle essenze eteriche dette “Po”, che muoiono insieme al corpo fisico, e a quelle astrali dette “Hum”, che perdurano oltre la morte e che contribuiscono a formare lo Shen o corpo spirituale. Gli alchimisti orientali credono che purificando i soffi vitali o Qi si possa pervenire a formare un “embrione di luce” che trae il suo nutrimento dalla identificazione dell’uomo con il Tao, con la Via.

Disciplina regia per approdare a questo risultato è quella predicata, ad esempio nel Bahagavad Gita, dagli induisti: non nutrirsi del frutto delle proprie azioni, oppure il “Wu Wei”, il “non fare” dei taoisti, che ha sempre a che fare con l’agire senza attaccamento. L’immortalità viene conseguita dall’alchimista “rafforzando” il proprio corpo di luce e trasferendovi la consapevolezza.

Nella Tradizione ebraica la riflessione mistica della Qabbalah sulla Torah non si discosta troppo da tali concezioni.

Un celebre versetto della Torah dice: “Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo (adamah) e soffiò (ruah) nelle sue narici un alito di vita (neshamah) e l’uomo divenne un essere vivente (nefesh)” [Gen2,7] Ebbene accanto al corpo fisico (adamà o meglio basar, Gen 6,3) i cabalisti contemplano un’anima o entità psichica (nefesh, Gen 1,30 e 9, 4-5), l’intelletto vero e proprio (ruah, Gen 7,22), e la parte più alta dell’anima, incapace di peccare (neshamah). Secondo lo Zohar, uno dei testi chiave della Qabbalah, Nefesh, Ruah e Neshamah sono parti dell’anima umana che formano una sequenza dall’inferiore al superiore e intermediario tra il corpo fisico dell’uomo e la sua anima è lo Zelem (Gn 1, 26), la sua configurazione spirituale o princìpio di individualità, composto di materia sottile come un corpo etereo.

Scrive in merito Rabbi Shimeon: “Il corpo dell’uomo serve da piedistallo a un a altro piedistallo che è nefesh. Quest’altro piedistallo serve a Ruah, e Ruah serve da piedistallo a Neshamah. Rifletti su queste gradualità dell’essere umano e scoprirai il mistero dell’Eterna Sapienza che le ha formate a immagine del Mistero Supremo”.

Gli sciamani di tutte le latitudini parlano di un Doppio, ignoto alla nostra coscienza diurna, che gli uomini che non sono iniziati sono destinati ad incontrare per un breve istante, solo al momento della morte mentre la loro consapevolezza si dissolve inesorabilmente, e che, invece, consente agli iniziati, che vi possono trasferire la consapevolezza, imprese inimmaginabili e la possibilità di bilocarsi. In particolare gli sciamani messicani parlano del “Nagual”, variamente interpretato come un animale totemico nel quale può trasferirsi l’identità dello sciamano o come una sorta di “Doppio energetico” dello stregone (tale, ad esempio, è la concezione che hanno del Nagual gli stregoni del lignaggio di Don Juan nei libri di Carlos Castaneda). Previa l’acquisizione di alcune discipline del corpo e della mente, la “consapevolezza diurna” può trasferirsi nel Nagual rendendo anche possibili fenomeni di bilocazione. Tra le tecniche da acquisire per rendere possibile il trasferimento nel proprio Doppio energetico, sembra fondamentale quella consistente nel rimanere consapevoli durante il sonno. Ebbene la tesi che viene più o meno esplicitamente sostenuta nelle culture nelle quali si ritiene che il racconto orale abbia un potere di guarigione è che miti e fiabe, quando divengono “attivi”, possano agire su questa parte sottile del nostro essere.

L’immaginazione attiva e il pensiero simbolico

 

Come si lavora su una fiaba, su un’immagine o su un mito per renderli “attivi”?

Un semplice racconto, appreso passivamente, non ha necessariamente il potere di attivare alcunché in chi ascolta.

Si può però intervenire “attivamente” su una fiaba, un’immagine, un simbolo o un mito e “costellare” gli elementi che li costituiscono con i propri contenuti interiori. Nel caso di una fiaba, ad esempio, si tratta di mettere in evidenza i personaggi che vi intervengono, nel bene e nel male, le azioni che essi compiono, le relazioni che intercorrono tra di loro, gli animali, le piante, gli oggetti funzionali allo svolgimento della vicenda e di “riconoscere” in ciascuno di questi elementi un aspetto della propria interiorità. Si tratta di cogliere, per ciascuno di questi elementi, un aspetto simbolico e universale che va oltre il significato contingente della fiaba o nel mito di cui ci stiamo occupando e che fa parte dell’immaginario collettivo. Questa fase potremmo chiamarla “amplificazione” di quel dato elemento. In altri termini far ricorso al “pensiero simbolico” significa far entrare in risonanza un racconto o  una immagine con i propri contenuti interiori e acquisire una visione più ampia, simbolica, del materiale su cui si sta lavorando, alla luce delle associazioni e delle metafore depositate nell’arco di millenni nella coscienza collettiva. 

L’altro strumento fondamentale per lavorare su immagini, miti e fiabe è quello della “immaginazione attiva”. Dopo aver “amplificato” un personaggio o una azione o un altro elemento simbolico, si tratta di dagli “voce” di dialogare con lui e ascoltare ciò che ha da dirci. Questo, in altri termini, è ciò che fanno gli artisti quando creano. E’ un potente strumento, sia di conoscenza che di guarigione.

 

Pensiero simbolico e immaginazione attiva costituiscono quello che è stato chiamato “il pensiero del cuore”.

 

I nostri scrittori, artisti, poeti, utopisti e scienziati nei secoli passati hanno immaginato il loro futuro e trasmesso forza e vitalità alle immagini scaturite dalla loro interiorità.  Con questo fuoco hanno disegnato la realtà. D’altra parte ognuno di noi ha un’immagine del suo compito nel mondo e delle persone amate e quelle immagini tracciano il profilo della sua vita.

Le immagini prodotte dal cuore quindi segnano il destino sia diuna  collettività che degli individui che ne fanno parte. Certo, può trattarsi di immagini oscure e malate oppure di illusioni. Allora l’umanità dovrà affrontare le sue ombre oppure realizzare di aver perso le sue guide o di non saperle più riconoscere.

 

Le immagini del cuore sono il mezzo attraverso il quale il cuore illumina la notte dell’accadere, dando agli eventi peso specifico, senso e direzione, luce e calore, cosi come il sole illumina il mondo.

Inoltre, le immagini del cuore non hanno una natura unicamente personale e individuale, ma sono il tramite mediante il quale attingiamo al pozzo dell’anima, il nostro canale con il mondo sottile, con gli antenati e con il nostro invisibile futuro.

 

Esistono pozzi a cui tutti possono dissetarsi, che elargiscono acqua di vita a chiunque voglia attingerla. Le immagini che i grandi uomini lasciano dietro di loro sono a disposizione di chi sappia coglierne la bellezza e la forza creativa.

E’ forse per questo motivo che gli antichi greci, i romani, gli egiziani, gli ebrei del vecchio e del nuovo testamento e i mistici sufi consideravano il cuore come la sede della visione e dell’intelligenza.

 

In una sua conferenza sul pensiero del cuore, pubblicata da Adelphi con il titolo di “L’ Anima Mundi e il pensiero del cuore”, lo psicoanalista James Hillman ha denunciato l’accecamento collettivo dal quale è affitto il mondo moderno.

 

Il cuore, cosi come lo concepiamo oggi, è "la sede dei sentimenti".  Questo genera confusione tra le immagini che ilcuore produce in quanto organo della "visione profonda" e le nostre passioni personali come rabbia , paura, brama, dolore, godimento estetico, infatuazione, autocommiserazione, tristezza e melanconia, collera ecc, che da quelle immagini sono suscitate. Queste passioni personali vengono innalzate a massima vita del cuore, mentre per il mondo antico avevano una natura pesante e corporea, lontana dalla capacità del cuore di cogliere gli aspetti più sottili della realtà. Questa concezione del "cuore sentimentale" è la causa certa di molte delle sciagure che affliggono il mondo, è l’origine dell’inconsapevolezza di sé, della mancanza di "visione", della cecità dell’uomo moderno, dell’inflazione dell’Io, dell’incapacità di creare e riconoscere la bellezza e direi, soprattutto, della volgarità che contraddistingue la nostra epoca.

 

Riconoscere l’esistenza ed il potere attivo delle immagini del cuore non è la fine, ma l’inizio di un percorso.

 

L’esortazione: "Va dove ti porta il cuore" è una esortazione analfabeta. Il cuore è sede delle immagini attive, ma anche delle illusioni. Parlando dei sogni abbiamo detto che secondo Omero essi scaturiscono da due porte. Dalla prima, di corno, provengono i sogni profetici e sapienziali, inviati dagli dèi. Dall’altra, di avorio, i sogni menzogneri ed ingannevoli, legati ai moti contingenti dell’anima e alla quotidianità. Il percorso che ognuno di noi è chiamato a compiere deve condurci non solo a distinguere tra il sentimento e l’immagine che lo desta, tra il desiderio e il suo oggetto, tra soggetto e oggetto, ma, soprattutto, tra l’immaginazione attiva del cuore, che contribuisce a creare il mondo che ci circonda e a dare senso alle nostre vite, e le vane illusioni del cuore, che conducono l’uomo verso la sofferenza e la dispersione.

 

Assumere la responsabilità delle immagini generate dal proprio cuore significa quindi avere il coraggio di affrontare la fatica del lavoro necessario per discriminare le immagini vere, vive e vitali dalle illusioni, per scorgere in trasparenza i desideri sovrapposti alla realtà, le proiezioni agganciate ai loro oggetti e discriminare le immagini del cuore dai sentimenti che esse destano in noi. Ma se neghiamo persino l’esistenza delle immagini del cuore e la loro funzione questo lavoro non potrà mai nemmeno cominciare.


[1] Cfr. Discorsi sacri di Elio Aristide

 
   
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