La Folla, Le Palme
Filippo Goti
Il passo evangelico dell'arrivo di Gesù il Cristo a Gerusalmenne, il festoso riconoscimento da parte della folla come il Messia, il Redentore, il Re dei Re, seguito dal tradimento e dalla condanna a morte, per acclamazione, della stessa folla, apre una serie di riflessioni che non possono non sfiorare l'attento lettore .
E' possibile un tale repentino mutamento ? Amore e Odio, devozionismo sacrale e cieco furore, che in breve tempo si succedono l'uno con l'altro, senza che niente sia oggettivamente accaduto nel frattempo ?
Seppure è volubile l'animo umano, così esposto al vento delle passioni, al momento fuggevole dell'eterna lotta fra fantasia e realtà, è mai possibile che nel volgere di poche ore colui che è Re, sia condotto a morte come brigante ?
Indizio di soluzione è forse lo stesso strumento narrativo ? Visto che lo stesso Gesù Cristo ha scelto la parabola come mezzo espressivo, una narrazione pregna di simboli e valori morali, allora non possiamo attenderci che identico stile comunicativo sia stato utilizzato dal più poetico degli evangelisti?
Questo stravolgimento furioso di sentimenti, questa parcellizzazione psicologica, della folla verso il Cristo acquista un senso, una precisa collocazione, un'utile trama di lavoro e fonte di inesauribile conoscenza se trasliamo il racconto evangelico, e il simbolo che si incarna nell'involucro delle parole, a livello intimo?
In tale chiave diamo di seguito lettura, e traccia di lavoro, dei passi evangelici.
Giovanni 12:12 Il giorno seguente, la gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme,
Giovanni 12:13 prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando:Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d'Israele!
La simbologia cristiana ci ha donato l'immagine di una Gerusalemme Celeste, e di una Gerusalemme terrestre. La prima ad indicare la perfezione spirituale del regno divino, la seconda espressione umana. La prima perfetta e la seconda si imperfetta, ma perfettibile. Se riflettiamo attorno al concetto di città, di urbe, non possiamo esimerci dal considerarlo come un insieme di un pluralità di edifici, di varie fattezze e scopi, frutto di una geometria umana finalizzate ad una funzione di organizzazione e preservazione della stessa comunità, di cui la città è espressione. Si è cittadini, nell'antichità, anche in virtù del riconoscimento nell'anima, nell'idea dell'urbe.
Giovanni 12:14 Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come sta scritto:
Giovanni 12:15 Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto sopra un puledro d'asina.
Giovanni 12:16 Sul momento i suoi discepoli non compresero queste cose; ma quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che questo era stato scritto di lui e questo gli avevano fatto.
L'asino rappresenta il secondo Sole (Saturno), quindi il perenne divorare la vita, il tempo che scorre distruggendo anche i suoi stessi figli, ma è anche indice della carenza spirituale. Il cavalcare l'asino da parte del Cristo indica l'avvento di una nuova prospettiva, del trionfo mistico sulla meccanicità della natura inferiore. Un nuovo principio che irrompe nella molteplicità psicologica: riordinandola. Interessante notare come tale messaggio giunge dall'esterno della città, dalle mura della personalità, della cognizione-percezione: un'ispirazione, un lampo che deve essere colto e poi trattenuto: per essere modello a cui ispirarsi.
Ogni uomo ha dei labili lampi di luce, che rompono la cecità, il giogo istintuale-emotivo in cui è imprigionato. Attraverso i sogni, le meditazioni, le pratiche introspettive, l'assenza dell'Io, emergono frammenti di ciò che fu, e che non è più, che devono essere disperatamente trattenuti e ricomposti. Una ricomposizione che passa attraverso un'azione antagonista a quelle forze inerziali, che trattengono l'uomo nel suo attuale stato di oggetto, di elemento di caotico insieme.
Giovanni 18:39 Vi è tra voi l'usanza che io vi liberi uno per la Pasqua: volete dunque che io vi liberi il re dei Giudei?».
Giovanni 18:40 Allora essi gridarono di nuovo: «Non costui, ma Barabba!». Barabba era un brigante.
La stessa identica folla che acclama il Cristo, pochi giorni dopo lo condanna a morte, preferendo donare la libertà a Barabba, un uomo che si è macchiato di fatti di sangue.
Chi rappresenta Barabba se non la natura violenta, passionale, e bestiale dell'uomo, tesa a dare soddisfazione al proprio desiderio di potenza, del gesto eclatante dell'essere in quanto perturbatore e distruttore ? Un singolo gesto, una singola illusione o fantasia, è sufficiente per ricacciare l'uomo stesso indietro lungo la via solare, rappresentata dal Cristo che cavalca l'asino, e relegarlo nuovamente nella ciclicità meccanicità di Saturno-Cronos.
La massa, il composito mosaico della nostra struttura psicologica, ha prontamente detronizzato il Cristo, per innalzare a suo nuovo reggente e conduttore la forza istintuale.