Jesce Sole
Di Angelo D’Ambra
Jesce sole, jesce sole
nun te fa’ cchiù suspirà!
Siente mai ca le ffigliuole
hanno tanto da prià.
E’ questo il più antico frammento di canzone napoletana pervenuto intatto sino ai nostri giorni nei canti popolari e nelle moderne trascrizioni musicali. Nel labirinto di difficoltà d’attribuzione di una datazione certa, l’abate Ferdinando Galiani, nel libro “Del dialetto napoletano” del 1776, indica il 1200 come quella più attendibile. I primi due versi sono riportati anche nella lettera “All’uneco sciammeggiante” di GianBattista Basile (1575-1632), che aggiunge l’intero testo nella quarta giornata del “Cunto de li cunti”, del quale Croce ebbe a dire “l’Italia possiede nel Cunto de li Cunti o Pentamerone del Basile il più antico, il più ricco e il più artistico fra tutti i libri di fiabe popolari”.
La versione completa fu pubblicata da Cottrau nella seconda metà dell’800: furono uniti i primi versi duecenteschi e le successive aggiunte d’età angioina che trasformarono il canto in una filastrocca per bambini. C’è in oltre da considerare che la “Jesce sole” dei nostri giorni non è che il frutto delle numerose copiature e rielaborazioni subite nel tempo. Dunque la nota interpretazione odierna della Nuova Compagnia di Canto Popolare conserva il tutto così come elaborato fino al 1800.
Sin da una prima lettura la nostra attenzione è catturata dalla cadenza metrica che assegna grande enfasi al primo verso della quartina nella ripetizione di “Jesce sole”. Una formula tipica delle invocazioni religiose che ci offre la chiave di lettura giusta e comunemente accettata del testo: stiamo analizzando un antica invocazione al dio Sole pervenuta ai giorni nostri non grazie ad un originario lignaggio esoterico, bensì per il tramite della tradizione popolare fatta di canti, ritmi e danze principalmente religiosi. Che il culto solare fosse stato un tempo ed in ristrette zone della penisola così diffuso da coinvolgere il più largo degli strati sociali? Che tale culto si fosse conservato fino all’età di Federico II e Manfredi? E’ così difficile, ma probabile:
“Sorgi o sole, sorgi o sole”
I versi di apertura evocano l’astro divino in una Litania religiosa oramai perduta e probabilmente parte di una più ampia liturgia superstite, nel 1200, del fasto dei culti solari della Roma decadente.
“Sorgi o sole, sorgi o sole, non farti più attendere”
Il verbo suspirare (sospirare) esprime meglio tutta l’energia della supplica e la ferma volontà dell’attore che recita i versi. Ciò ci indica il passaggio che ha portato il verso “Jesce sole” ad evolversi in un auspicio di buona sorte frequentemente usato nella lingua napoletana contemporanea. Seguono i versi:
“Ascolta le vergini hanno tanto da pregarti”
Il termine “mai” da un tono interrogativo a questi due versi: “non avverti che le vergini han tanto da chiederti?” oppure “non percepisci quanto le vergini abbiano da chiederti?” . Il termine “ffigliuole” non rende correttamente se non tradotto col vocabolo “vergini”. Di fatti le “ffigliuole” sono le ragazze che non hanno ancora conseguito il matrimonio. Non è però evidente se si tratti di vergini consacrate al dio e probabilmente così non è perché nel canto chi sta invocando il sole si autoesclude dal tal gruppo, ponendosi come parte a se, probabile sacerdote o figura di tramite tra la divinità e le adoratrici. “Hanno tanto da prià”: il verbo “prejare” (pregare) corrisponde in effetti meglio a quello di chiedere, una richiesta molteplice (“hanno tanto da prià”), composita o forse “non ascolti le vergini quanto ti preghino?”.
Ma perché questa invocazione? Cosa chiedono al sole le vergini?
Conosciamo l’importanza del dio Sole, in particolare di Apollo, per gli oracoli che venivano dati in suo nome. Divinazioni, profezie, consigli, ma Apollo era anche medico: il mito gli attribuisce non a caso la nascita di Esculapio istruito alla medicina dal centauro Chirone. A lui gli antichi chiedevano guarigioni, forse anche “guarigioni d’amore” come nel diffuso rituale dei tarantolati del sud. Possiamo quindi dedurre che le vergini domandino consigli al Sole, che chiedano guarigioni o profezie, che gli implorino di comunicare, di dare una risposta alle loro preghiere, di elargire una grazia. Non ci sono purtroppo pervenuti altri versi risalenti alla stessa età. Ma queste poche parole bastano a dirci che non si tratta solo di buie ipotesi. Rituali e mistiche invocazioni al Sole continuavano a sussistere ancora nella Napoli dell’XI secolo.
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