Introduzione all'Alchimia

Antonio D'Alonzo

 

   È difficile stabilire con precisione le origini dell’alchimia, le cui indagini spaziano dalla ricerca della longevità alla produzione dell’Elisir dell’immortalità, alla trasmutazione dei metalli. Anzitutto, forse sarebbe preferibile discernere l’esistenza di molteplici alchimie, piuttosto che limitare l’analisi alla petizione di una radice generica. La rilevazione della possibilità di un’identità dottrinale  alchemica sembrerebbe rinviare all’idea duméziliana dell’esistenza di una  struttura concettuale, piuttosto che a quella di un archetipo metatemporale, ovvero alle «somiglianze di famiglie» tra le varie alchimie culturalmente localizzate. Ovviamente nulla ostacola la possibilità di postulare – data l’unità della cultura umana – una ramificazione monogenetica dell’alchimia, a partire da una dottrina originale diffusa da un’area principale a quelle limitrofe (considerazioni analoghe, ancorché piuttosto inverosimili, possono essere fatte per molte scoperte umane come ad esempio l’agricoltura1). Tuttavia, anche in quest’ultimo caso, si tratterebbe pur sempre dell’effetto prodotto da una diffusione storico-culturale e non del rimando ad una dimensione atemporale, all’interno della quale si conserverebbe la purezza primordiale della dottrina alchemica.  Oltretutto – e non solamente in questo caso – l’universalità degli archetipi è fortemente messa in discussione dalla critica storiografica: resta tutta da dimostrare l’esistenza di ritualità assimilabili alle pratiche alchemiche presso le culture c.d. «primitive»2. Per tutti questi motivi – pur non disconoscendo il vantaggio e la possibilità di effettuare delle corrette generalizzazioni all’interno delle «famiglie» alchemiche – riteniamo preferibile accompagnare il sostantivo «alchimia» al corrispettivo aggettivo che ne designa la localizzazione spaziale e culturale (es.: alchimia cinese, alchimia islamica, ecc.).

 

   La derivazione del sostantivo dalla radice chem non ha ancora ottenuto una spiegazione accettabile; da notare che in molti testi cinesi, indiani, greci, essa era indicata semplicemente come «Arte» o «trasmutazione». Contrariamente a quanto teorizzato dagli storici della scienza, è riduttivo definire l’alchimia come una protochimica. L’alchimia consta di una parte materiale e di una spirituale. Sebbene in questi ultimi tempi siano apparse divulgazioni pseudoscientifiche («dottrinali») tese a rivendicare il primato delle applicazioni materiali, è plausibile sostenere il contrario. L’alchimia, in altri termini, sarebbe una disciplina eminentemente spirituale, le cui applicazioni si limiterebbero a simboleggiare ritualmente il processo del perfezionamento interiore. Il laboratorio dell’alchimista non sarebbe altro che una segreta allegoria del percorso di autoperfezionamento gnostico: anche quando questi opera empiricamente, riproduce – consapevolmente o meno – la parabola del viaggio interiore del Sé. La prova di questa subordinazione empirica alla trasposizione spirituale è data dallo scarso interesse, mostrato dagli stessi alchimisti, verso i risultati dei loro esperimenti. Sherwood Taylor ricorda come, nei trattati alchemici, lo zolfo acquisti importanza quasi esclusivamente in virtù della sua azione sui metalli. Eliade, nel suo Forgerons et alchimistes, sostiene che gli alchimisti greci mostravano un incomprensibile disinteresse verso i fenomeni chimici prodotti nel corso dei loro esperimenti3: questo avveniva all’interno di una cultura ellenica, il cui pensiero speculativo aveva mosso i primi passi proprio dall’osservazione della natura. Ciò dimostra come la prassi «chimica» sia stata da sempre destinata alla risoluzione allegorica nella dimensione metafisica, e come l’alchimia rientri a pieno titolo nel campo dell’esoterologia, lo studio scientifico dell’esoterismo su basi storiche o antropologiche4. A corollario di quanto sostenevamo riguardo la preferenza concessa alla rilevazione di differenziazioni culturali inerenti alle molteplici tradizioni alchemiche – in luogo del generico appiattimento sul postulato di una petitio principi o, ancor più, nell’astrazione «ideologica» di un esanime concetto svuotato dei fertili predicati storico-culturali –, possiamo constatare come le finalità alchemiche acquistino una differente valenza nelle diverse civiltà (in termini duméziliani: come all’interno del quadro ideologico alchemico comune attecchiscano le differenze culturali interne ed inerenti alla rilevazione dei differenti campi ideologici). Prendiamo un esempio tipico. In tutte le tradizioni alchemiche si riscontrano numerosi miti sull’esistenza di piante, alberi, o fiori, in grado di conferire la longevità, di ridare la giovinezza perduta e addirittura di regalare l’immortalità. Tuttavia, una volta accertata la plausibilità di questo sostrato comune, si può constatare come questo mito acquisti una particolare importanza all’interno della cultura cinese, da sempre tradizionalmente interessata alla produzione di un sintomatico elisir, capace di rendere immortale colui che se ne nutre. Ovviamente non mancano anche in Occidente narrazioni delle gesta compiute da personaggi leggendari, la cui straordinaria longevità ha finito per interessare anche la letteratura e il cinema. Si pensi ad esempio al misterioso conte di Saint-Germain, o a Giuseppe Balsamo alias Cagliostro, o al fantomatico Fulcanelli, per non parlare di Nicolas Flamel e di sua moglie Pernelle. Tuttavia, in Occidente gli alchimisti sono sempre stati maggiormente interessati alla trasmutazione dei metalli in oro (operazione preminentemente intesa in senso allegorico). Viceversa l’alchimia, come dottrina iniziatica, conserva sempre il suo carattere di segretezza, a tutte le latitudini. Una leggenda tramanda di come il più antico testo ellenistico, Physike kai mystike (200 a.C.), fosse stato nascosto nella colonna di un tempio egizio. Nella tradizione brahmanica, Shiva si rifiuta di rivelare il segreto dell’alchimia addirittura ad una dea; mentre il più antico alchimista cinese, Ko Hung (260-340 d.C.), ricorda come la segretezza sia essenziale per le «ricette». Nel Rosarium philosophorum si avverte il lettore che questa conoscenza deve essere per «via mistica» come le poesie e le fiabe. Una volta bevuto l’elisir che rende immortali (hsien), l’adepto – secondo Ko Hung – deve continuare a mescolarsi con i mortali, evitando di rivelare il proprio segreto5. L’appello al segreto, del resto, porta con sé la necessità di richiamarsi ad un linguaggio fortemente allegorico, per cui, molte pratiche «operative» non sarebbero altro che metafore del cambiamento interiore e spirituale dell’alchimista. Metafore proibite, attraverso le quali potenziare l’autocoscienza dell’adepto. Paradossalmente, un esoterista come René Guénon  si rifiuterebbe di attribuire all’alchimia «spirituale» un’impronta così prettamente spirituale, limitandone i contenuti al primo livello di perfezionamento interiore, da lui definito «psichico». Al contrario, per Carl Gustav Jung lo psichico coincide da sempre con lo spirituale (ricordiamo che nel perennialismo guénoniano quest’ultimo termine va inteso nel senso proprio di «realizzazione metafisica», e non semplice come «autocoscienza» o «sentimento oceanico»). L’importanza dell’alchimia per Jung risiede nel suo essere una sorta di «proto-psicoanalisi» e di realizzare con altri mezzi – mediante l’apparato simbolico – il Sé, il principium individuationis, strutturato attraverso l’esplorazione integrativa dell’Io nell’Es. L’alchimia, dunque, per Jung sarebbe una sorta di  antica «tecnica dell’anima». Attraverso questa chiave interpretativa acquista particolare rilevanza l’immagine del laboratorio come metafora della personalità, attraverso cui ottenere la trasmutazione (principio d’individuazione) del metallo (Io) nell’oro (Sé). D’altro canto, presso molte culture tradizionaliste assume una certa importanza l’idea che l’alchimia sia in qualche maniera riconducibile ad una pratica ostetrica. La Madre Terra – venerata essenzialmente nelle civiltà che hanno conosciuto la coltivazione dei cereali – partorisce dal proprio grembo l’oro, qualora non la si ostacoli o disturbi. Nel qual caso, essa si trova costretta ad abortire altre varietà di metalli impuri, mentre in realtà soltanto l’oro è da considerare come il figlio legittimo della Madre Terra. In questa chiave di lettura, l’alchimista deve completare l’azione interrotta della Natura. Nell’Alchimist (1610) di Ben Jonson è espressa chiaramente quest’identificazione dell’alchimista con l’ostetrico. Per Simone da Colonia, la trasmutazione/parto della Natura deve essere aiutata da uno specifico Elisir, il quale versato sui metalli imperfetti conduce alla loro completa raffinazione e perfezione6. Lo stesso Elisir, una volta bevuto, assicura la giovinezza e prolunga la vita di molti secoli, donando, in certi casi, addirittura l’immortalità. È anche probabile che la spinta propulsiva del processo che porta alla genesi della chimica moderna possa essere ricercata nello slancio prometeico degli alchimisti, inevitabilmente teso al potenziamento della creatività umana. Secondo Eliade, l’alchimia è in fondo un’escatologia «naturale» orientata verso il riscatto della natura, il dominio del tempo, il perfezionamento dell’opera di Dio. Ideali che avrebbero trovato la loro giusta realizzazione nella secolarizzata civiltà industriale. Esisterebbe dunque, per lo studioso rumeno, un filo rosso che unisce l’alchimia alla tecnica. Secondo Eliade, quindi, la «corruzione» sarebbe dipesa dal prometeismo originario degli stessi alchimisti: un’interpretazione, a nostro avviso, preferibile a quella che indovina nella dissoluzione dell’alchimia spirituale un  ineluttabile «segno dei tempi», generato da una ferrea legge  cosmologica. Si tratta della famosa interpretazione di Heidegger sul padroneggiamento della natura come destino della metafisica7.

 

   In Occidente, ai tempi di Keplero, Newton e Descartes, circolavano una grande quantità di testi alchemici (lo stesso Newton attinse a piene mani da questi documenti per elaborare le sue teorie). Con la Riforma e con la Rivoluzione Industriale si produsse tuttavia l’eclissi di queste ricerche: il modello meccanicistico soppiantò la cosmologia qualitativa degli alchimisti. L’interesse degli stessi scienziati del diciassettesimo secolo era focalizzato sulle dinamiche della trasformazione, da osservare in laboratorio: la mutazione del bruco in farfalla. Gli scienziati del Seicento adottavano gli stessi metodi usati, a suo tempo, dagli alchimisti nei confronti della fisica aristotelica. Quest’ultima, ritenuta insoddisfacente, veniva integrata con nozioni attinte dallo Stoicismo e dall’Ermetismo; alla stessa maniera gli scienziati, accogliendo parzialmente gli assunti alchemici, ne avvaloravano le dinamiche «sperimentali» attraverso l’irrobustimento teoretico fornito dalla fisica newtoniana. Ovviamente, sparivano le tracce degli elementi peculiari dell’Arte, come, ad esempio, la pietra filosofale capace di garantire – una volta trovata – la trasmutazione in oro del vile metallo. Del resto, la formazione di questa ipotetica pietra era tutt’altro che semplice. Thomas Norton, un alchimista inglese del quindicesimo secolo, nel suo Ordinall of Alchemy descrive le difficoltà – e la conseguente frustrazione intrinseca – alla ricerca. È molto probabile, naturalmente, che anche la pietra filosofale non fosse altro che una trasposizione allegorica della trasformazione interiore realizzata dall’adepto; tuttavia essa era anche qualcosa di più di un simbolo. Al contrario, la pietra filosofale costituiva l’oggetto di un’accanita ricerca sperimentale condotta all’interno dei laboratori alchemici. La sua realizzazione era assicurata dal conseguimento e dal superamento di quello stadio, indicato dagli alchimisti, come fase «rossa», preceduto in ordine decrescente da una fase «bianca» e una «nera». Quest’ultima doveva essere intesa come una sorta di «morte profana» o «discesa agli inferi», o anche nel ventre di un mostro marino8. La fase «bianca», invece, segna il momento della rigenerazione mistica, della rinascita iniziatica del neofita. L’ultimo stadio, la fase «rossa» era destinata a pochi e indicava il conseguimento della pietra filosofale. Il numero delle operazioni necessarie al processo completo dei tre stadi era oggetto di accese discussioni da parte degli alchimisti rinascimentali, sovente incapaci di elaborare una metodologia comune. Un alchimista come Daniel Stolcius prescriveva undici operazioni chimiche; altri, dodici come George Ripley o sette come Salomon Trismosin. Sinteticamente, si può ritenere la calcinazione, o coagulazione, come una sorta di «putrefazione» della materia, mentre il recipiente usato nell’operazione assurge al ruolo di «bara»; la dissoluzione come una «purificazione»; infine la fermentazione-moltiplicazione-proiezione rende la pietra simile ad un lievito in grado di trasmutare le sostanze cosparse. Uno dei grandi problemi dell’alchimia operativa era quello di ottenere una corretta regolazione del fuoco – nel diciottesimo secolo non esisteva ancora il termometro: secondo Norton, all’alchimista che otteneva il giusto dosaggio spettava il titolo di «perfetto maestro»9.  Ovviamente la trasmissione degli insegnamenti avveniva segretamente da maestro ad allievo ed anche il contenuto dei testi era velato da una scrittura segreta e criptica. L’oscurità dei testi alchemici – un continuo intreccio di metafore e rimandi simbolici – era dovuto al palese tentativo di scongiurare le inquisizioni della Chiesa; ma anche al timore degli alchimisti di essere fatti prigionieri da parte di avventurieri e sovrani, che avrebbero potuto estorcere i segreti con la forza. Un ulteriore motivo poteva probabilmente essere ricercato nelle continue traduzione dal greco, al latino, all’arabo, alle lingue volgari: gli ermeneuti del tempo, privi dei sofisticati strumenti esegetici moderni, avrebbero potuto trovare delle difficoltà e decidere così di lasciare nella forma originaria ciò che non poteva essere comunque tradotto in un modo efficace.

 

   L’alchimia costituisce una corrente esoterica presente in molteplici civiltà (pur con i relativi distinguo storico-culturali); vale quindi senz’altro la pena di studiarne la storia e la peculiarità dei diversi sistemi di pensiero che l’hanno, di volta in volta, storicamente strutturata. Altra questione è quella della sua presunta attualità per l’uomo moderno. Tutto il corpus esoterico del passato, ovviamente, è in grado ancora di insegnare qualcosa all’uomo della tecnica, a patto che quest’ultimo rinunci da principio a rincorrere pretese gnostiche o salvifiche. Qualora si cercasse nell’alchimia una dottrina superomistica, lo smacco sarebbe assicurato. È preferibile, dunque, a nostro avviso, limitarsi a vedere in essa niente altro che un grandioso insegnamento esornativo ed esistenziale, allo stesso modo, per esempio, in cui ancora oggi ci si rivolge alle riflessioni degli stoici, prescindendo dalla loro cosmologia. L’alchimia si ridurrebbe allora ad essere una sorta di lebenphilosophie o di sistema introspettivo sul genere delle religioni e filosofie orientali. Anche questa riduzione, tuttavia, presenta alcuni svantaggi di ordine pragmatico. Perché mai l’uomo moderno che decidesse di iniziare un percorso autoesplorativo dovrebbe affidarsi ad una dottrina superata e antiquata come l’alchimia, anziché per esempio alla psicoanalisi contemporanea? Chiusa dalla chimica moderna da un lato e dalla psicologia dall’altro, l’alchimia sembra dunque oggi aver perso la sua ragione d’essere nella storia della cultura. A questo smacco culturale, si deve oggi aggiungere la mancanza di maestri all’altezza del compito richiesto da una rifondazione e riformulazione dei suoi assunti teoretici; operazione che viceversa ha salvato altre discipline, un tempo, in pericolo di «estinzione» – di fronte all’incalzare delle scienze umane – come la teologia e, in misura maggiore, la filosofia.

 

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

 

M. Eliade, Forgerons et alchimistes (trad. it. Arti del metallo e alchimia, Bollati Boringhieri, Torino, 1960.)

E. Ashmole, Theatrum Chemicum Britannicum, New York, 1967.

F. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, Roma-Bari, 1976.

E. J. Holmyard, Storia dell’alchimia, Sansoni, Firenze, 1972.

 

 

NOTE

 

1 A. Brelich, Introduzione alla storia delle religioni.

2 Tuttavia, proprio E. Zolla ha testimoniato l’esistenza di queste pratiche anche presso le civiltà c.d. «primitive».

3 M. Eliade, Forgerons et alchimistes (trad. it. Arti del metallo e alchimia, Bollati Boringhieri, Torino, 1960).

4 I cui esponenti principali sono rispettivamente Antoine Faivre e Pierre Riffard.

5 M. Eliade, Forgerons et alchimistes (trad. it., Arti del metallo e alchimia, Bollati Boringhieri, Torino, 1960).

id.

7 È da escludere però che Eliade abbia assimilato ulteriormente l’insegnamento heideggeriano, non avendo avuto alla base una vera formazione filosofica.

8 Cfr. il pescecane o la balena che inghiotte Pinocchio.

9 Cfr. T. Norton, Ordinall of Alchemy, in E. Ashmole, Theatrum Chemicum Britannicum.

 

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