La Fisiognomica
di Paola Geranio
"Farai le figure in tale atto, il quale sia sufficiente a dimostrare quello che
la figura ha nell’animo; altrimenti la tua arte non sarà laudabile".
(Leonardo da Vinci)
La
fisionomica è la concretizzazione del dominio dell’uomo sulla vita e sui suoi
elementi dissociativi e distintivi di codificazione della realtà, una realtà che
si esprime con tratti visibili e riconducibili.
La possibilità di conoscere l’anima attraverso i segni esteriori del volto e del
corpo. Che non sono forma, ma sostanza. Non sono intercambiabili, ma fissi. Ad
ogni tipo umano corrispondono dei tratti esteriori, poco importa quale sia la
loro origine, ciò che è sostanziale è riuscire a ricondurli ad un’appartenenza
precisa tanto da poterli distinguere e riconoscere sempre.
E ad ogni insieme di cultura corrispondono tratti comuni, un tipo, un profilo,
alla fine una famiglia particolare. Con un’apparenza fisica e una natura
psichica, la psiche quindi deriva da caratteri distintivi esteriori e viceversa,
legati a doppio filo da un'unica origine.
La fisiognomica sostiene che la nostra faccia non appartiene soltanto a noi, ma
al tipo umano a cui noi stessi
apparteniamo. Tutti quelli come noi si somigliano e ognuno somiglia nel fisico a
chi gli è simile nell’anima, nel carattere, nell’indole. La natura ha creato
tipi omogenei, e i tipi sono segnati dallo stigma: un marchio d’identità, anzi
un marchio di qualità che si mostra all’occhio dell’osservatore con tratti
inconfondibili.
Può sembrare settario e limitativo, ma lo studio del carattere e dell’animo
umano di conseguenza, attraverso la fisicità è da sempre qualcosa che attrae
l’uomo, che lo porta ad interrogarsi e a porsi ciclicamente una serie di
domande contingenti, da qui la testimonianza che è possibile la presenza
di un fondo veritiero in tali studi.
Gli artisti nel corso dei secoli si sono sempre interessati a tale aspetto, chi
coscientemente come Leonardo e chi in modo inconsapevole ma solo
superficialmente…
"Vorrei fare il ritratto di un amico artista........... Quest’uomo sarà biondo.
Vorrei mettere nel quadro la mia stima, l’amore che ho per lui. Anzitutto lo
dipingerò tale e quale con la maggiore fedeltà possibile. Ma il quadro non sarà
finito cosí. Per finirlo divento adesso un colorista arbitrario. Esagero il
biondo della capigliatura, arrivo ai toni aranciati, ai cromo, al giallo limone
pallido. Dietro la sua testa, invece di dipingere il muro banale di un
appartamento meschino, faccio un semplice fondo del blu piú intenso che posso
trovare e con questo semplice accorgimento la testa bionda rischiarata sul fondo
blu raggiunge un effetto misterioso come una stella nel profondo
azzurro........."(da una lettera di Van Gogh al fratello Theo)
Il
ritratto non è solo un genere pittorico, ma una rappresentazione della
percezione che gli artisti di ogni epoca ebbero di sé e dell’uomo più in
generale, ciascuno secondo il proprio tempo, la propria cultura e la propria
storia.
Il ritratto ha inizialmente un compito documentaristico, vuole rappresentare
l'aspetto reale dell’individuo, è vincolato al valore riconoscitivo basato sulle
fattezze precise di ogni uomo, cercando di trasmettere con esse determinati
significati ed attributi codificativi.
Quante volte, di fronte ad un volto ci è capitato mi dire o pensare “ mi piace,
non mi piace..ecc..” da cosa deriva questo tipo di sentimento e da dove parte
tale slancio classificatore?
I filosofi greci erano incuriositi dalle varietà dei volti umani e dei relativi
caratteri. Il viso come specchio dell’anima. Spesso si facevano combaciare i
caratteri umani alle specie animali: c’erano l’uomo leonino, quello volpino,
quello rapace. Chi ha il naso di coniglio vorrà dire che è codardo; chi ce l’ha
d’aquila sarà d’animo grande; chi camuso è lussurioso come i cervi; chi ha il
labbro superiore che sporge su quello inferiore è stupido come gli asini; chi ha
le gengive sporgenti è litigioso come i cani…e via dicendo...
Ovviamente oggi
sappiamo che non tutto può essere preso in modo così
sommario e dissociato, ma l’incipit dettato da tali basi ha fatto si che studi
sempre più approfonditi e documentati sfociassero in una disciplina definita da
molti una pseudo-scienza.
La fisionomica
viene decodificata come branchia delle scienze umanistiche, conosciuta sin dai
tempi di Aristotele, affrontata poi in termini scientifici, che si prefigge di
distinguere l’indole di un uomo partendo dal suo aspetto esteriore, i moti
dell’animo a partire dai tratti del volto.
Ecco perché oggi, la criminologia studia tratti distintivi del volto e del corpo
in relazione a particolari tipologie umane, al punto tale da definirne una
classificazione precisa. Come non ricordare il contributo di Lombroso il questo
frangente? Legato al darwinismo sociale Lombroso lega la fisionomica a studi
scientifici comparati, dando una serie indescrivibile di dati e connessioni ai
quali fare riferimento nella classificazione del
sottotipo criminale appunto.
Seguendo le orme di Aristotele, della fisionomia, i Greci fecero una
techne,
un sapere: e il
fisiognomo
è colui che dallo sguardo e dai tratti somatici comprende il pensiero, dalla
conformazione fisica, dagli occhi, dalla fronte, dal naso trae gli elementi per
capire la sostanza morale di chi gli sta di fronte.
Questi primi antropologi della nostra civiltà avevano un criterio: “a
un determinato corpo è connesso un determinato comportamento“.
Alcuni millenni prima dei “comportamentisti” americani, quei geniali pionieri
avevano quindi ben chiara la connessione tra caratteristiche fisiche, ambiente e
caratteri innati, ciò che è la questione essenziale del distinzione nell’antico.
Anche leggendo Desmon Morris nel
suo libro ”L’uomo e i suoi gesti” in
cui lo studio della cinesica si lega a doppio filo con il comportamento umano e
le sue valenze ci mostra come la correlazione tra individui sia il risultato
esatto di scelte calibrate in base a precisi parametri sensoriali, non manifesti
a volte, che deviano e incanalano azioni e gesti sulla base di un sentire
ancestrale.
Ad esempio la coda per la cassa di un supermercato rispetta precisi confini di
spazio, i quali se sconfinati mettono in allarme l’individuo, portandolo
inevitabilmente sulla difensiva, questo aspetto però non si limita ad una
standardizzazione generale, ma si modula in base al rapporto che intercorre tra
gli individui stessi, i quali scelgono a loro volta quale limite effettivo dare
ad un confine convenzionalmente esistente, basandosi su un sentire individuale.
Questo sentire è inevitabilmente relazionato alla fisionomica che attiva in ogni
persona relazioni e dissociazioni automatiche a seconda della relazione tra tipi
e tipologie di persone.
Nel mondo occidentale e contemporaneo la fisionomica si lega a questioni
radicate e complesse come il condizionamento razzista tra etnie differenti.
Tuttavia, anche in questo caso, la scelta della razza e del ceppo di provenienza
non sono altro che il sottogruppo di una tipologia fisionomica già definita, da
qui la difficoltà ad evadere tale rete e ridefinirla sotto un contesto puramente
socio-culturale.
L’arte ha sempre rappresentato lo status di
super partes in questa scienza e non
si è posta il problema della questione razzista se non in un contesto puramente
contemporaneo.
Verso la fine del 1600 Browne affermava : “Poiché il sopracciglio spesso dice il
vero, poiché occhi e nasi hanno la lingua, e l'aspetto proclama il cuore e le
inclinazioni basta l'osservazione ad istruirti sui fondamenti della
fisiognomica....spesso osserviamo che persone con tratti simili compiono azioni
simili. Su questo si basa la fisiognomica... “. Ovviamente oggi tali
affermazioni possono destare sorrisi e storte di nasi, ma la pseudo-scienza di
cui si parla fa riferimenti precisi e comparati, che hanno dalla loro parte non
solo studi teorici ma anche esperimenti e studi effettivamente documentati.
Un esempio ulteriore dello studio della fisionomica nel tempo sono le ricerche
di Lavater, per questo studioso
il fisionomo è infatti un poeta, un uomo che Dio ha dotato di una particolare
sensibilità per le forme che lo rende capace di leggere il carattere di un
individuo da pochi tratti di un profilo: fronte, naso, bocca. Ecco, ad esempio,
la descrizione di un «moro»,
come lo definisce Lavater, che accompagna l'immagine: «la prevalenza di linee
arcuate presente nel contorno di tutto il viso; la larghezza degli occhi; il
naso schiacciato; ma soprattutto le labbra così fortemente sporgenti, pendule,
tenaci; scevro da ogni delicatezza o grazia, sono i caratteri tipici moreschi”.
Proprio in questo caso si avverte bene il pregiudizio fisiognomico: Lavater
osserva la morfologia di un individuo, ma la interpreta sulla base del
«carattere tipico» dell'uomo di colore, giudicato negativamente senza che venga
specificato il nesso logico tra linee arcuate e mancanza di grazia (tanto più
nel secolo in cui il pittore inglese William Hogarth – 1697-1764 – teorizzava la
bellezza della linea serpentina). Il fatto è che la fisiognomica non spiega, ma
afferma; non procede con un ragionamento per cause ed effetti, dal corpo al
comportamento (o viceversa), ma illustra in base a un'evidenza immediata perché
semplice e schematica.
Proprio
sulla base di questa evidenza immediata alcune recenti ricerche dimostrano che
quando vediamo una nuova faccia il nostro cervello decide se una persona è
affidabile in un decimo di secondo.
Lo ha scoperto lo psicologo
Alex Torodov della
Princeton University in una ricerca pubblicata su
Psychological Science nel 2006. Il nostro cervello risponderebbe ai
volti sconosciuti tanto rapidamente da non dare alla nostra mente razionale il
tempo di suggestionare la reazione. Decidiamo, praticamente in un battito di
ciglia, se una persona possiede tratti di gradevolezza o competenza, senza aver
scambiato con lei neppure una parola.
La ricerca è il frutto di uno studio più ampio condotto per indagare gli esiti
delle campagne elettorali. I ricercatori avevano infatti verificato che esisteva
una correlazione diretta fra una faccia giudicata competente di un politico e il
margine della sua vittoria alle elezioni, e il giudizio di competenza risultava
emesso rapidissimamente.
Da questi risultati era nata la curiosità scientifica di verificare precisamente
con quanta velocità ciò accadesse. E' stato così dimostrato che in un decimo di
secondo il giudizio era già formulato e fornendo più tempo non mutava: gli
osservatori diventavano semplicemente più sicuri della scrupolosità con cui
l’avevano emesso.
Perché il cervello faccia così alla svelta non è chiaro, ma ricerche condotte
con la risonanza magnetica hanno evidenziato che il cervello attiva le aree
deputate alla gestione della paura nel giudizio di
affidabilità ed è così possibile
ipotizzare che questo tipo di giudizio sia dato con l'ausilio delle strutture
cerebrali più arcaiche bypassando la corteccia.
Articolo pubblicato nella rivista
LexAurea44,
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