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A PROPOSITO DEL “CODICE” Alessandro Nardin |
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Fra le innumerevoli colpe imputabili al romanzo Il
Codice Da Vinci, una condanna senza appello merita quella di avere
brutalizzato il sapere tradizionale ed esoterico, riducendolo a prodotto
commerciale, oggettivandolo in realtà tangibili e di consumo,
svuotandolo della sua essenza stessa di percorso, riflessione ed
intuizione. Eppure dobbiamo ammetterlo: dopo il “temporale” icastico ed
ermeneutico sollevato dal romanziere americano Dan Brown, risulta
difficile avvicinare il Cenacolo vinciano con gli stessi occhi di prima.
Riassumo la tesi esposta per i pochi che non ne avessero almeno avuto
conoscenza: secondo l’autore, i tratti decisamente femminili con cui
viene dipinta, identificherebbero in Maria Maddalena, e non in Giovanni
l’Evangelista, la vera identità del discepolo posto a destra di Gesù.
Questo sarebbe dovuto in primo luogo ad un’evidenza storica: la
Maddalena sarebbe la legittima consorte del Cristo, nonché il grembo
beneficato del suo seme e fecondato della sua progenie (di qui la
leggenda del Sacro Graal, “vaso” contenente il sangue del Signore, il
cui nome risulterebbe una deformazione dell’espressione provenzale “Sang
Raal”, ossia “sangue reale”). D’altro canto, Leonardo sarebbe stato il
depositario di questa verità, e ne avrebbe accennato subliminalmente
nelle sue opere, in quanto Gran Maestro di una società segreta, il
“Priorato di Sion”, nata in concomitanza con l’Ordine dei Cavalieri
Templari, avente la finalità di proteggere i discendenti di Gesù e
Maddalena e custodire il segreto della loro unione carnale.
L’ipotesi è senza dubbio affascinante, e l’evidenza visiva di alcuni
aspetti del dipinto sembrerebbero avvalorarne il fondamento. Tuttavia,
prima di cercare di far luce sulla oggettività di certe affermazioni, è
necessario sgombrare il campo da ogni falsità: il Priorato di Sion non
esiste. L’uomo dalle cui rivelazioni ha avuto origine la “storia” della
società segreta, autoaccreditatosi lui per primo come Gran Maestro in
carica negli anni ottanta, ha avuto modo anche di ammettere
pubblicamente come l’esistenza del Priorato fosse una sua invenzione.
Ma, come tutti gli inganni ben costruiti, anche questo poggia su una
serie di verità, o presunte tali, che meritano comunque una certa
attenzione.
La cronologia dei Gran Maestri, ad esempio: è vero che nell’elenco
trapelano da tutte le parti incongruenze e banalità (Gran Maestri eletti
ad otto anni di età, od investiti direttamente da predecessori che
neppure avrebbero mai potuto conoscere). Tuttavia, la scelta delle
personalità contemplate (Leonardo, ad esempio, ma non solo) presenta
figure di artisti o scienziati la cui opera, ad una luce più attenta,
trova corrispondenze con le tesi proposte. E’ il caso, ad esempio, del
compositore Claude Debussy, che nella sua collaborazione con il poeta
Maeterlinck, autore del testo del suo capolavoro Pelleas et Melisande,
incontra un uomo che pone la figura della Maddalena come regina
oltraggiata al centro della sua attività produttiva.
Ed è il caso di Leonardo da Vinci, “Gran Maestro” dal 1510, a metà,
dunque, del suo secondo soggiorno milanese. E, comunque, investito di
tanto onore ben sedici anni dopo la committenza del Cenacolo.
Tolti dunque i fronzoli romanzeschi, restano però una serie di tracce
evidenti di quella “mente eretica”, come ebbe modo di definire il
Vasari, con cui l’artista affrontò numerosi aspetti iconografici nella
sua produzione, e che spesso sembrano sorprendentemente richiamare
frammenti testuali di scritti apocrifi, gnostici e cristiano-giudaici
che un’intellettuale dell’epoca, per quanto sapiente, non avrebbe
neppure dovuto conoscere, almeno ufficialmente.
Soffermiamoci dunque sul primo elemento del contendere: nella
raffigurazione leonardesca dell’ultima cena, chi è dunque il personaggio
seduto alla destra di Cristo?
La tradizione lo identifica con Giovanni evangelista, raffigurato sempre
con tratti efebici in quanto considerato il più giovane degli apostoli,
per poter essere in grado attorno al 100 d.C. di redigere vangelo ed
Apocalisse.
L’iconografia (Giotto, ad esempio) lo presenta spesso adagiato sul busto
di Gesù. Questo gesto di amore e devozione viene descritto nel vangelo
secondo Giovanni in ben due occasioni (Gv 13, 25 e 21, 20), e l’apostolo
lo compie per domandare al Signore: “Chi è che ti tradisce?”
Nella raffigurazione in esame, invece, il discepolo se ne discosta. Ma
non si tratta di un’evidenza semiotica contraria all’identificazione.
Semplicemente, Leonardo ha scelto di rappresentarlo un attimo prima che
egli si adagiasse sul busto di Gesù. Più attento a circoscrivere la
rappresentazione al momento preciso dell’annuncio del tradimento,
Giovanni appare nell’atto di conferire con Pietro, ossia quando questi
“gli fece un cenno e gli disse «Di’, chi è colui a cui si riferisce?».
Ed egli, chinatosi così sul petto di Gesù, gli disse: «Signore, chi è?»”
(Gv 13, 24-25).
Questo spiega anche il perché del protendersi di Pietro sul più giovane,
nell’atteggiamento di conferire con lui in segreto.
Appurato dunque che la figura rappresentata corrisponde alla descrizione
evangelica, ci si deve porre un altro problema: siamo sicuri di sapere
che quel personaggio, l’autore del vangelo, sia effettivamente
l’apostolo Giovanni?
L’autore del vangelo attribuito a Giovanni non si firma mai con il suo
nome, né con esso viene mai indicato. Il discepolo in questione appare
sempre con una perifrasi: “il discepolo [o mathetés] che egli amava”.
Diversi studiosi oggi ipotizzano che il discepolo amato fosse in realtà
Lazzaro, l’amore per il quale di Gesù è chiaramente indicato nel testo (Gv
9, 3 e 11, 36).
Tuttavia, noi che siamo stati soggiogati dal fascino discreto della
Maddalena, non possiamo evitare di domandarci se, di fatto, non fosse
proprio lei a fregiarsi del titolo di “discepolo che egli amava”.
D’altronde, il termine greco che designa il discepolo, o mathetès, non
conosce una forma femminile, pertanto potrebbe anche indicare una
“discepola”, tanto più che nessuno potrebbe nutrire dubbi sull’amore che
per essa nutriva Gesù, se non altro al pari di quello per Lazzaro (“Gesù
amava molto Marta, sua sorella e Lazzaro”. Gv 11, 5)
Non deve destare scandalo questa indebita sovrapposizione: non sarebbe
questo l’unico caso di “camuffamento” di personaggi evangelici che non
solo cambiano nome o ruolo, pur essendo di fatto la stessa persona (Natanaele
e Bartolomeo; Maria madre di Giacomo, Maria di Cleopa e Maria madre di
Gesù; la stessa Maria Maddalena e Maria di Betania, per non parlare poi
dell’ambigua figura di Barabba) ma anche, per così dire, cambiano sesso,
come, con tutta probabilità, è capitato allo stesso Lazzaro, il quale,
nei tre vangeli sinottici, risorge dai morti sotto le spoglie della
figlia dodicenne di Giairo.
Aggiungiamo il fatto che Lazzaro non viene mai citato come discepolo
neppure negli apocrifi, a differenza della Maddalena, della cui
predilezione da parte di Gesù, e della cui assoluta pari dignità
rispetto ai dodici, abbiamo continui riferimenti testuali, soprattutto
nel vangelo gnostico di Filippo, che indica esplicitamente nella
Maddalena la consorte dal Signore, e nel frammento pervenutoci di quello
detto di Maria.
Ed una Maddalena “mascolinizzata” è protagonista dell’ultimo loghion del
più autorevole dei vangeli apocrifi, un testo che forse è anche più
antico degli stessi canonici, ossia il vangelo gnostico di Tommaso, su
cui torneremo più avanti.
“Simon Pietro disse loro: «Maria deve andar via da noi! Perché le
femmine non sono degne della vita.» Gesù rispose: «Ecco, io la guiderò
in modo da farne un maschio, affinché lei diventi uno spirito vivo
uguale a noi maschi. Poiché ogni femmina che si fa maschio entrerà nel
regno dei cieli.»” Vangelo di Tommaso, 114)
Nella maggior parte dei passaggi menzionati, emerge un altro dato
inequivocabile: l’ostilità e l’invidia di Pietro nei confronti della
Maddalena. Questa stessa ostilità è quella che Dan Brown ravvisa
nell’atteggiamento di Pietro nel Cenacolo, e che fornisce un nuovo
indizio alla sua tesi: lo sguardo colmo di rabbia, la mano sinistra che
si protende minacciosa verso il collo della presunta Maddalena, la mano
destra nascosta dietro la schiena che brandisce un coltello (sempre
ammesso che la mano, posta in modo così innaturale, sia realmente la
sua, come appare evidente più nelle copie e negli schizzi preparatori
che nel dipinto originale, e non invece la famosa “mano che non
appartiene a nessuno”, come invece la intende l’autore del romanzo).
A questo proposito, Dan Brown azzarda un parallelismo fra la mano di
Pietro, che egli coglie come a mimare il gasto di “tagliare la gola”
alla sua rivale, ed il gesto compiuto dall’angelo (quello che l’universo
mondo considera un indicare) dipinto nella prima versione della Vergine
delle rocce, commissionato all’artista nel 1483 dalla confraternita
dell’Immacolata Concezione a Leonardo assieme ai due fratelli Giovanni
ed Evangelista De Predis.
Scrive il romanziere: “Sotto le dita ripiegate di Maria, Uriel faceva un
gesto come per tagliare la gola della testa invisibile tenuta dalla
mano-artiglio di Maria”.
Anche in questo caso, l’interpretazione offerta nel romanzo appare
quantomeno eccessiva. Eppure non si può dimenticare che gli stessi
committenti ricusarono il dipinto, costringendo Leonardo a presentare
una seconda versione, quella esposta a Londra, le cui differenze più
evidenti (oltre che ad una presentazione stilistica radicalmente
diversa) coincidono proprio nella scomparsa di questi due dettagli:
l’indice dell’angelo rivolto al Battista e l’ “artiglio” della Madonna,
il cui palmo appare ora meglio esposto alla luce e, di conseguenza, meno
incombente.
Recenti studi hanno messo in relazione il dipinto con le dottrine
semiereticali legate al manoscritto Apocalypsis Nova, attribuito al
Beato Amedeo Mendes da Silva, già ospite della confraternita, dottrine
diffusesi più ampiamente a partire dal 1514 e che molto influenzeranno
il Luini. Il testo, oltre a profetizzare tramite le apparizioni
dell’arcangelo Gabriele l’avvento di un Pastor Angelicus capace di
riformare la Chiesa, presentava un’interpretazione dell’Immacolata
Concezione considerata non ortodossa.
Appare comunque più evidente, come anomalia, l’importanza eccessiva
attribuita alla figura di Giovanni, additato dall’angelo e protetto
dalla Madonna, soprattutto se la valutiamo alla luce della sua costante
presenza all’interno di altre importanti opere leonardesche.
Già nel Battesimo di Cristo, realizzato dalla bottega del Verrocchio,
fra gli interventi di Leonardo risulta l’avere esteso le acque del
Giordano fino ad immergervi i piedi del Battista, come se avesse voluto
restituirgli una dignità negata.
Quasi a voler chiudere come aveva cominciato, San Giovanni Battista è
l’ultimo soggetto raffigurato da Leonardo, nonché il più enigmatico:
l’efebico eremita ammicca allo spettatore mentre con il braccio
mollemente levato indica il cielo.
Stesso gesto, stesso sorriso e, praticamente, stessi tratti somatici
raffigurano la madre della Madonna in un’altra opera che coinvolge il
Battista: si tratta del cartone, conservato a Londra, Sant’Anna, la
Vergine, il Bambino e San Giovannino.
Nel dipinto più tardo che propone lo stesso soggetto, oggi al Louvre, al
posto di San Giovanni troviamo un agnello. Ed è proprio quell’agnello,
per il modo con cui è raffigurato, che ci schiude inquietanti allusioni
alle più radicali eresie del primo cristianesimo.
Esso sembra posto a conclusione di una “catena genealogica”, come a
simboleggiare una progenie resa vittima, e questo ci ricondurrebbe alla
tesi della stirpe di Cristo cancellata dalla storia tanto cara a Dan
Brown.
Ma l’animale simbolo di martirio ed innocenza, così bistrattato nelle
mani di Gesù bambino sotto lo sguardo eccessivamente tollerante di Maria,
potrebbe alludere ad un’altra teoria eretica, quella facente capo al
patriarca gnostico Basilide ed affermata a sua volta dal Corano e dalla
dottrina islamica: ovvero che Gesù non morì in croce, ma venne
sostituito materialmente da Simone di Cirene (e non metaforicamente,
come quindi verrebbe a valere l’immagine evangelica di Simone che
“prende la croce” al posto del Signore). D’altronde, è un caso singolare
che Leonardo non abbia mai voluto raffigurare alcuna scena di passione,
morte o resurrezione di Gesù.
Oppure ancora, e torniamo a Giovanni Battista, essendone un sostituto,
potrebbe riconnettersi all’immagine apocrifa di Giovanni come secondo
Messia, di pari dignità e pari importanza rispetto a Cristo. Su di lui,
al pari che su Gesù, si abbatté infatti la furia di Erode, come viene
presentato in un manoscritto del XIV secolo, custodito presso la British
Library, ma databile verso il VI secolo, conosciuto come Codice Arundel
404 (da non confondere con l’omonimo codice vinciano). In questo
scritto, assistiamo alla fuga di Elisabetta con Giovanni bambino, al
loro miracoloso rifugiarsi dentro una montagna, all’affannosa ricerca
delle guardie di Erode che volevano morto il futuro battista ed alla
morte di Zaccaria.
Il discorso non è fine a se stesso: si ricollegherebbe alla teoria
essena del doppio Messia, cioè di due persone distinte tali da ricoprire
due distinti ruoli: uno regale ed uno sacerdotale, come figurato
nell’Antico Testamento dal rapporto fra Mosè ed Aronne (e come confluito
nella tradizione ermetica, nella forma di “via regale” e “via
sacerdotale” per il compimento della Grande Opera).
Questo tema del doppio appare in tutta la sua evidenza, e torniamo da
dove siamo partiti, nella presenza di due Cristi identici nel Cenacolo.
Tommaso detto Didimo, ossia “il gemello”, mostra di profilo la stessa
faccia di Cristo (senza dimenticare che compie lo stesso gesto del
Battista e di Sant’Anna).
Anche in questo caso occorre puntualizzare, aiutandoci con i testi.
Taumà in aramaico (da cui il greco Thomas) e didymos in greco sono
sinonimi, e significano entrambi “gemello”.
Il vero nome dell’apostolo Tommaso ci viene presentato nel vangelo
apocrifo che porta il suo nome.
“Queste sono le parole che Gesù il Vivente ha detto e Didimo Giuda
Tommaso ha trascritto.”
Giuda sarebbe dunque il nome vero dell’apostolo conosciuto come Tommaso,
guarda caso uno dei nomi con cui Matteo e Marco identificano i quattro
fratelli di Gesù: Giacomo, Giuseppe, Simone e, appunto Giuda (Mt 13, 55
e Mc 6, 3).
Tuttavia, gli studiosi che si sono occupati dei vangeli apocrifi
propendono unanimemente per la teoria secondo la quale Tommaso fosse un
gemello “spirituale” di Gesù, colui al quale il Signore ha affidato la
custodia delle “parole segrete”, una via esoterica per i pochi in grado
di comprenderle.
Per concludere un discorso che potrebbe durare in eterno, sempre il
Cenacolo ci regala un ultima sorpresa.
A quanto pare, le dimensioni della stanza, il numero delle finestre e la
loro disposizione coincidono con le indicazioni di uno dei manoscritti
ritrovati a Qumran, il luogo dove una comunità essenza ha nascosto la
propria biblioteca ai tempi della prima incursione romana (66-70 d.C.),
e che rivelato testi di inestimabile valore soprattutto di argomenti
veterotestamentari. Il rotolo 5Q15 espone forma e dimensioni che avrebbe
dovuto avere la Nuova Gerusalemme Celeste, arrivando a descrivere
minuziosamente le misure di ciascuna casa. La stanza in questione è
quella del piano superiore, proprio come dicono gli evangelisti Marco (Mc
14, 15) e Luca (Lc 22, 12), ossia quella “grande sala con tappeti” in
cui, Gesù celebrò la pasqua. Per i dettagli delle misurazioni rimando
all’articolo Leonardo da Vinci conosceva un testo ritrovato a Qumran?
del prof. Sabato Scala, che ha osservato questa affascinante
coincidenza, consultabile on line al suo sito “Il tredicesimo apostolo”.
Un articolo quindi il cui titolo è un provocatorio interrogativo, che
ben si adatta a concludere le tesi rilanciate da un romanzo che, seppure
nelle imprecisioni dozzinali, ha fatto della provocazione un incentivo
alla ricerca.
Cosa si nasconde dietro agli enigmi di Leonardo? Forse tutto o forse
nulla. Forse il solo, bizzarro desiderio di farci sentire come lui
stesso ci dice di sentirsi nelle righe del Codice Arundel, sospesi
all’ingresso di una “scura spelonca”, divisi fra la “paura” dell’ignoto
ed il “desiderio” di vedere si vi sia veramente qualche “miracolosa
cosa” da scoprire.