IL BATTESIMO DELLA SPADA
di Carlo Caprino
Un minimo di premessa, per inquadrare meglio la situazione. Pratico da diversi anni Daito Ryu ed Aikido, due Arti marziali giapponesi, la seconda delle quali presenta anche un certo aspetto esoterico e spirituale. In entrambe le Arti sono previste sia la pratica a mani nude che con armi tradizionali, in specie con la katana, la tradizionale spada dei samurai giapponesi.
I due aspetti della pratica sono fortemente legati tra loro, infatti, pur essendo a prima vista di scarsa utilità un addestramento all’uso ed alla difesa da armi da taglio (nessuno di noi gira per strada con una spada e ben difficilmente qualcuno potrebbe volerci attaccare con una simile arma), pure questo tipo di addestramento ha una notevole importanza, sia dal punto di vista tradizionale che dal punto di vista “pedagogico”, permettendo l’impiego delle armi di affinare tecniche da praticare poi a mani nude.
Diversi mesi fa il mio Maestro istruttore ha voluto donarmi la sua spada; una spada ricevuta in dono da un amico con cui poi i rapporti si erano deteriorati notevolmente. Questa situazione ed una sua personale riconsiderazione del proprio percorso marziale lo avevano portato a non sentire più affinità con quella spada ed a decidere di affidarla a me per concedergli “nuova vita”.
Pur senza entrare nel dettaglio della cosa (su internet sono disponibili diversi siti che si occupano diffusamente della questione) è il caso di dire che per un samurai la spada non era una semplice arma ma aveva addirittura un’anima ed un carattere, conferitole all’atto della forgiatura dal fabbro (che era praticamente un sacerdote) ed affinate poi da colui che quella spada avrebbe usato. La spada era vista addirittura come un Kami (divinità) per il suo potere di dare la morte.
Da quanto sopra appare evidente quanto sia importante “sentire” l’affinità con la spada e quanto ritenessi importante il dono ricevuto e comprensibili i motivi alla base del dono stesso.
Fino a qualche settimana fa però, tra me e quella spada non era scattato il feeling, pur praticando spesso con lei, questa continuava a rimanere “una” spada e non la “mia” spada.
Una sera di qualche settimana fa però, durante un momento di raccoglimento personale, mi è balenato in testa un termine strano, mai sentito prima, termine che ho sentito essere il nome della mia spada. Il giorno dopo una rapida ricerca su internet, il nome appare effettivamente come un cognome giapponese, sembra non avere una traduzione specifica pur avendo assonanza marcata con il sakura, il ciliegio che tanta parte ha nell’identificare lo spirito del Giappone e dei suoi guerrieri.
E’ quindi nato in me il desiderio di “battezzare” la spada (non me ne vogliate per l’uso improprio del termine, ma al momento non ne trovo di più esplicativi) ed ho chiesto e cercato lumi in merito, senza però risultato.
Dopo giorni di vane ricerche, ho deciso di seguire una procedura mia, che avrei approntato in base a quanto mi sarebbe venuto in mente al momento, direi in base a quanto la spada stessa mi avrebbe suggerito.
Ripeto ed evidenzio che la spada è giapponese e non per esibizionistico desiderio di esoticità ma per rispetto della sua natura, origine ed impiego che ho deciso per un rito fortemente improntato da caratteri e influenze orientali, pur senza rinunciare ad alcune note proprie della cultura cui appartengo
In una notte di fine febbraio, di luna piena, con condizioni metereologiche che mi hanno purtroppo impedito di svolgere la cerimonia all’esterno come mi aveva acutamente suggerito la mia compagna e come mi sarebbe piaciuto fare, ho così indossato la mia bianca divisa di pratica. Il bianco è in oriente il simbolo della purezza e della morte, condizioni entrambe fortemente legate allo spirito ed al codice comportamentale del bushi (guerriero) giapponese.
Ho approntato un piccolo altare, sullo sfondo due calligrafie giapponesi, una con i caratteri di “corpo – anima” simbolo delle due componenti di ciascuno di noi, l’altra una tradizionale della scuola che seguo.
Sul piano dell’altare cinque candele, ognuna con inciso il carattere che identifica i cinque componenti basilari del creato (acqua, terra, legno, metallo, fuoco) ed un “rappresentante” degli elementi stessi: una coppetta con dell’acqua, un’altra con il riso (elemento fondamentale del nutrimento e quindi della vita, dal cui grafema deriva il carattere che identifica il ki), la mia spada di legno d’allenamento, una stecca d’incenso accesa e la spada di metallo da battezzare.
Ancora, sullo sfondo, sulla parte sinistra della calligrafia della scuola ho voluto poggiare una foto di mio nonno, scomparso quindici anni fa, ho sentito di doverlo fare perché era un fabbro, un fabbro come colui che aveva forgiato la spada che mi accingevo a battezzare, un fabbro che ha forgiato, direttamente ed indirettamente il mio carattere e che, oggi dopo tanti anni, mi manca per quello che mi ha dato e per quello che non ha fatto in tempo a darmi.
Sulla destra un’altra immagine virtuale, un’immagine che non c’era fisicamente ma che io ho immaginato ci fosse, l’immagine di un Maestro, in cui ho rappresentato e riunito tanti altri Maestri, cui ho chiesto aiuto e sostegno per la Via che percorrerò.
Ho acceso le candele e l’incenso, mi sono inginocchiato in seiza (la classica posizione di riposo dei praticanti marziali giapponesi, praticamente quella di zazen) su un tappeto rosso scarlatto <ho scoperto dopo diversi giorni che proprio su un tappeto rosso si inginocchiava il samurai che praticava il seppuku (suicidio rituale) con l’hara kiri (taglio del ventre); i casi della vita…> mi sono inchinato in segno di rispetto, ho recitato il “Padre nostro”, ho chiesto assistenza e conforto a mio nonno ed al Maestro, ed ho cercato di entrare in sintonia con la spada, con gli elementi del creato che avevo di fronte a me.
Giunto il momento ho sguainato la spada, ne ho intinto la punta nell’acqua dicendo: <<con l’acqua che disseta e da' la vita io ti battezzo (nome della spada) >>.
Poi ho posto la stessa punta tra i chicchi di riso ed ho detto: <<col riso, frutto della terra, che nutre e da' la vita io ti battezzo (nome della spada) >>, ancora ho passato la spada in aria e tra i fumi dell’incenso ed ho detto <<con l’aria che da la vita io ti battezzo (nome della spada) >>, poi ho passato la spada sulle fiamme delle candele ed ho detto <<col fuoco che scalda e da la vita io ti battezzo (nome della spada) >>, ancora con la punta ho toccato la spada di legno dicendo <<con il legno che protegge la vita io ti battezzo (nome della spada) >>, ho preso la lama tra le mani e l’ho alzata di fronte all’altare dicendo <<col metallo di cui sei fatta, forgiato per la vita io ti battezzo (nome della spada) >>.
Ancora con la spada tra le mani ho portato la lama alla fronte, dicendo <<Con l’impegno che questa mente sia sempre lucida come la tua lama, io ti battezzo (nome della spada)>>, poi ho portato la lama alle labbra dicendo <<Con l’impegno che questa bocca sia sempre sincera come il tuo filo, io ti battezzo (nome della spada)>>, infine ho portato la lama al petto dicendo <<Con l’impegno che questo cuore sia sempre diritto come la tua lama, io ti battezzo (nome della spada)>>.
A questo punto avevo intenzione di concludere la cerimonia incidendo l’anulare della mano sinistra con la lama per bagnarne il filo con una goccia di sangue ma, confesso, non me la sono sentita, anche perché temevo che il filo della spada causasse un taglio più profondo di quello che ero intenzionato a praticare (in effetti, rifletto sulla cosa da diversi giorni e mi rendo conto che c’è anche una mia paura più profonda proprio relativa all’atto del tagliare ed incidere il mio corpo fisico, ma che al momento non riesco ad individuare meglio) così mi sono alzato ed ho punto il dito con un ago sino a farne stillare quattro o cinque gocce di sangue che ho fatto cadere sulla lama dicendo <<Con questo sangue, simbolo della mia vita, io ti battezzo (nome della spada) >>.
Ho tenuto la spada vicino a me per qualche minuto dopo averla pulita, ho cercato ancora di entrare in contatto con la sua anima, di sentirla mia, poi ho salutato l’altare con un inchino, ringraziando mio nonno ed il Maestro che mi avevano assistito nella cerimonia, ho spento le candele e smontato l’altare, riponendo i vari oggetti impiegati nelle loro abituali sistemazioni.
Mi rendo conto che, tra coloro che potrebbero leggere queste righe, ben pochi sarebbero quelli che mi grazierebbero di un giudizio che non oscilli tra la pazzia esaltata e la singolare stranezza, a quei pochi che comprenderanno il significato di queste righe non per la chiarezza delle mie parole ma per la capacità del loro cuore, questa testimonianza è dedicata.
Una testimonianza scritta dopo settimane in cui il tutto si è sedimentato, si è fatto posto in me, ha trovato i suoi spazi ed il suo posto. Una testimonianza che esprime se stessa e non solo, che vuole servire da modesta ed umile traccia per invitare altri a seguire le proprie “stranezze” ed a testimoniarle a coloro che tanto strane non le troveranno…