Eldo Stellucci
Prima di entrare nel quadro specifico del nostro tema, proporrei una semplice riflessione di carattere filologico e semantico sui termini salute/salvezza, sacro/salvifico e, last but not least, sul concetto di terapia.
«Salute» e «salvezza» sono termini che possiamo considerare co-originari, ovvero nati da uno stesso concetto, condividendo a lungo la stessa sorte e lo stesso significato globale originario, che venne a scindersi storicamente e culturalmente solo molto più tardi. Si tratta del significato sanscrito di svastha (benessere, pienezza) che poi ha assunto la forma semantica del nordico heill e più recentemente di heil, whole, hall nelle lingue anglosassoni, che indicano «integrità» e «pienezza». Lo stesso accade per il termine soteria nella lingua greca, dove appunto il dio greco della medicina, Asclepio, appare come soter, «colui che guarisce» e che è nello stesso tempo il «salvatore». Nella lingua latina è emblematico il significato di salus, termine che ancora oggi incorpora sia il significato di «salute» sia quello di «salvezza». Ma occorre ricordare che anche in altre lingue è avvenuta la stessa combinazione. Ad esempio, il termine ebraico shalom (pace, benessere, prosperità) e la formula dell’antico egiziano snb che indica pure benessere fisico, vita, salute, integrità fisica e spirituale. Tutti questi termini esprimono in definitiva la salvezza come «integrità dell’esistenza», come «totalità di situazioni positive», non intaccate dal male, dalla malattia, dalla sofferenza, dal disordine. Da questo punto di vista era infatti impossibile distinguere nel pensiero antico tra salvezza e felicità in quanto l’una confluiva necessariamente nell’altra. L’aspetto teologico che oggi si attribuisce al primo termine, entro un contesto esclusivamente religioso, era inseparabile dall’aspetto antropologico che assumeva lo stesso termine in contesti meno religiosi.
Un analogo processo si è dipanato nel corso della storia anche in riferimento al confronto tra «sacro» e «salvifico». Anche qui l’analisi filologica ci viene in aiuto in riferimento ai concetti di sacer e heilig. Tra gli studiosi è opinione diffusa che le aree semantiche in cui ricorre il termine «sacro» siano fondamentalmente due. La prima è alla base dei termini sacer, sanctus, hagios, kadosh, ed è connessa con il culto, con ciò che è «consacrato». Si indica essenzialmente ciò che è «messo da parte», che è «separato» e che viene di conseguenza riservato alla divinità. La seconda area semantica, invece, sembra gravitare intorno al termine sanscrito yaj e l’avestico yaz con un significato iniziale di «concessione, regalo» che poi si è esteso al significato di «dotato di poteri», «particolarmente utile» tramite l’avestico spenta collegabile allo slavo svetu. Il passaggio significativo si sarebbe avuto quando le lingue germaniche tradussero spenta con heilwirkend (cio’ che produce benessere), utilizzando una radice del termine che significa «intero, solido, intatto». Fu facile il passaggio a contesti più vicini a «forte», «in salute» e «di buon auspicio». Possiamo ancora risalire al gotico Hails che significava «sano», mentre l’antico islandese e l’alto tedesco Heil e il runico heilag significano rispettivamente «di buon auspicio» e «di buona fortuna».
Ora tutto ciò sta a indicare un’origine comune e suggerisce un compito integrato delle religioni in rapporto all’uomo e al suo destino globale. Le religioni hanno da «salvare» l’uomo nella sua totalità, oggi diremmo secondo una visione psicosomatica, cioè sul piano fisico, psicologico, spirituale. Anche il sacro è il «salvifico» per eccellenza. La salvezza non è dissociabile dalla salute e isolabile dai contesti in cui si vive. Da qui prende piede lo «star bene» godendo di un sentimento di «pienezza» e di «integrità». Non a caso l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha colto benissimo le correlazioni tra salute e integrità quando ha espresso nel suo paradigma fondamentale la salute come «stato di completo benessere fisico, spirituale e sociale» creando non poche resistenze per una definizione così allargata all’interno della classe medica. È interessante anche come nel Vangelo di Luca 9, 1-6, si dica:
«Gesù chiamò a sé i dodici e diede loro potere e autorità su tutti i demoni e di curare le malattie. E li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi... Essi annunciarono dunque la buona novella e operarono guarigioni».
A questa visione presta soccorso nel corso della storia delle religioni il termine «terapia» che inizialmente non fu affatto un termine medico ma religioso. Nella concezione classica degli antichi il concetto di therapéia indicava innanzitutto «un assistere», uno «stare vicino», un «prendersi cura» e si trattava di un termine che è nella sostanza molto vicino al concetto cristiano di diakonía.
La visione sciamanica come primissima forma di contatto con il sacro e al tempo stesso di cura e di guarigione, a proposito della definizione e della sua concezione della salute, (argomento di cui ci occuperemo in esteso in riferimento al pensiero di Carl Gustav Jung), si allontana dalla nostra classica visione occidentale. La salute è un fatto globale, è una condizione di benessere, uno stare bene nel corpo e nello spirito, è un giusto equilibrio tra le forze della natura e le forze dello spirito. Questo equilibrio può essere soltanto il risultato di uno stretto equilibrio con entrambi gli ambiti della realtà: lo spirito deve armonizzarsi con il corpo, con il mondo circostante, con la natura, con gli altri e con gli spiriti del mondo. Una visione che ricorda la concezione olistica della natura psicosomatica dell’uomo e quella della cultura neoplatonica rinascimentale con la sua visione dell’anima mundi, dell’anima del mondo.
Se lo sciamano imita il canto degli uccelli (così ancora simile per via analogica alle conoscenze della c.d. «lingua verde», del «linguaggio degli uccelli» dell’iniziato) e conosce il linguaggio della natura, questo è soltanto un simbolo della sua capacità di vivere in una stretta unione con essa. Se nella sua trance si reca nell’aldilà, nei «mondi altri» per strappare l’anima che è stata rubata all’ammalato, ciò sta a dimostrare la grande dimensione spirituale che è comune alla salute. Lo sciamano usava tremila anni fa attraverso le sue «tecniche dell’estasi» quelle tecniche di gruppo che oggi riscopriamo per esempio con i gruppi Balint. Lo psicodramma, le terapie di gruppo, l’analisi dei sogni, la suggestione, l’ipnosi, la catarsi, l’immaginazione guidata e le terapie psichedeliche facevano già parte del suo bagaglio terapeutico e dei suoi riti di guarigione.
La concezione sciamanica va al di là della comune concezione biologica e fisiologica dell’Occidente. La salute parte da una dimensione spirituale, di profonda armonizzazione cosmica e di interrelazione con tutti gli elementi in cui la natura umana è interprete, anticipando una visione olistica, multisistemica delle relazioni tra natura, cultura e spiritualità. Il principio di fondo è semplice e tuttavia fondamentale per uno scavo in profondità e per meglio comprendere la natura complessa dello stesso «processo di guarigione»: il corpo non può stare senza l’anima.
L’arte e la pratica della psicoterapia è nella sua infanzia comparabile alla storia millenaria dello sciamanismo. Ci sono caverne nel sud della Francia che contengono dipinti di sciamani in trance di oltre dodicimila anni fa. Estendendosi non solo nel tempo ma nello spazio, le pratiche sciamaniche sono state rintracciate in tutto il mondo, dalla Patagonia alla Siberia. Non dovrebbe quindi sorprenderci che uno studioso attento come Carl Gustav Jung abbia realizzato, con la sua profonda concezione del processo di guarigione, delle riflessioni estremamente puntuali sulle molte forme di guarigioni e di medicine primitive, sciamanismo compreso. Egli scrisse infatti :
«L’estasi [dello sciamano] è spesso accompagnata da uno stato [di coscienza] in cui lo sciamano è “posseduto” dallo spirito dei suoi familiari o di quelli guardiani. Tramite questa possessione egli acquista gli organi mistici che in qualche modo costituiscono la sua vera e completa personalità spirituale. Questo conferma l’inferenza psicologica che può essere data dal simbolismo sciamanico, che diventa una proiezione del processo di individuazione.» (Jung, L’albero filosofico, CW, 1967, vol. 13, p. 341.)
Jung realizzò che nonostante le differenze, sia lo sciamanismo che la psicologia analitica si focalizzano sul processo di guarigione e sulla crescita (individuazione ) della personalità. Molti episodi specifici della vita di Jung fanno riferimento direttamente e indirettamente a un percorso di vera e propria iniziazione e trasformazione sciamanica. L’osservazione dell’emersione di una personalità di questo genere, con tutto il patrimonio teorico, esperienziale che ci ha consegnato, ci ha permesso di cogliere e proporre nel corso di questa rivisitazione una lettura della relazioni tra questa antichissima e ultramillenaria «tecnica del sacro» e la psicologia analitica di Jung.
Cercheremo di valutare alcuni spaccati della sua vita e del suo lavoro terapeutico senza peraltro addentrarci in questioni cliniche particolarmente specifiche. Potremmo dire subito che tutta la vita e l’esistenza di questo grande studioso svizzero presenta caratteristiche e consonanze molto simili a quelle degli sciamani. Alcuni di questi singoli confronti potranno apparire ad un primo esame fortuiti, casuali, ma quando colti nel loro insieme, potranno apparirci più chiari e significativi. Esamineremo le esperienze del guaritore Jung (healer) nel contesto del suo complesso o archetipo sciamanico cercando di gettare luce proprio sulle implicazioni sciamaniche del suo lavoro.
Lo studio della sua vita nei suoi aspetti biografici e soprattutto autobiografici (nel corso degli ultimi cinque anni le biografie critiche di Jung sono aumentate in modo significativo) ha acquistato sempre maggior importanza e significatività come fondamentale contributo alle discipline che si occupano della guarigione psichica. Gli scopi principali del suo lavoro, ma direi dell’intera sua esistenza (in Ricordi, sogni, riflessioni [RSR] dirà che la sua vita è la storia di un’autorealizzazione dell’inconscio), sono orientati alla comprensione del processo di guarigione della psiche che si esprime e realizza con il suo fondamentale concetto di individuazione, che è l’idea di una realizzazione delle piene potenzialità psicologiche dell’individuo.
Mentre Jung fu ufficialmente uno psichiatra e un medico, il suo pensiero negli ultimi tempi è stato sempre più diffusamente esaminato ed ampliato, non solo dalla letteratura specialistica ma anche da una molteplicità di altre prospettive transdisciplinari, religiose, filosofiche, antropologiche, sociologiche e recentemente anche politiche. Mentre molti di questi livelli interpretativi rappresentano un contributo fondamentale al quadro più generale della sua «psicologia complessa» e appaiono indubbiamente utili per i nostri scopi, la dimensione complessiva dell’uomo-Jung rimane ancora per molti versi un mistero.
Joseph Henderson, psicologo analista a sua volta analizzato da Jung, dice:
«C’era tuttavia un altro aspetto del carattere di Jung che si rifiutava di conformarsi ai pattern culturali tradizionali europei perché sembrava totalmente fuori da ogni cultura, limite e valore predefinito. [...] Sembrava esserre attraversato e forzato da un livello primitivo, arcaico, transpersonale dell’essere. Oggi penso alla sua natura sciamanica. [...] Questa stessa tendenza sciamanistica era parte essenziale ed integrante del medico e dello psicologo durante le nostre ore di analisi.» (Henderson, 1963.)
Gli sciamani erano gli originali medicine-men (uomini-medicina), praticanti il più antico sistema di guarigione conosciuto al mondo.
Confronti e contrasti con lo sciamanismo
Il più importante punto di partenza comune tra Jung e lo sciamanismo è la valutazione dell’anima. Jung spesso tradusse la parola psyché dalla parola tedesca Seele, che significa anima, soprattutto quando cercava di cogliere la profondità e la natura plurale e in qualche modo pluralistica della psiche, enfatizzandone la sua molteplicità (Hillman direbbe politeistica). Anche lo sciamano vede l’anima come una pluralità di energie psichiche che possono coesistere in un bilanciamento armonico all’interno dello stesso individuo. Nello stesso modo Jung vede l’anima come una molteplicità nella unità. Come ci ha ricordato più volte James Hillman nello sviluppo della sua psicologia archetipica, c’è un certo sentimento animistico nei contenuti della psiche che Jung cercò di far emergere. È importante notare che questo animismo tende sempre ad essere una valutazione metaforica in Jung, mai letterale. Per esempio, i suoi principali termini psicologici non sono affetti, cognizioni, volizioni o altri termini comportamentali, ma egli usa nello stesso tempo termini altamente suggestivi, poetici, addirittura animistici, enfatizzando le potenzialità mitopoietiche e immaginali della psiche. Non sottovaluteremo come la parola animismo derivi dalla parola anima, che nella metapsicologia junghiana sarà una metafora esplicativa estremamente importante e significativa. Questi termini sono personificazioni di energie e strutture psichiche profonde, pensiamo alla metafora dell’ombra, del vecchio saggio, della sigizia anima/animus, del trickster, del buffone sacro, e così via. L’uso di un linguaggio così evocativo ha il senso di portare la realtà immaginale della psiche alla vita, all’emersione, alla rappresentazione. Jung diede a questi termini uno statuto numinoso per dilatare la loro importanza nel funzionamento della psiche. Jung e lo sciamano dunque hanno un approccio alla psiche secondo una modalità immaginistica, direi immaginale (nella visione che ne diede Henri Corbin parlando del mundus imaginalis). Per Jung l’anima era così importante come realtà in-sé e non un banale epifenomeno del processo biologico.
Il complesso dello sciamano e l’archetipo dello sciamano
Gli studi sulla fenomenologia sciamanica si arricchiscono continuamente delle più diverse prospettive di lettura, da quelle antropologiche, storico-religiose, psicologiche, a quelle medico-psichiatriche. Recentemente la frequenza e l’inflazione delle stesse parole «sciamano» e «sciamanismo» ne hanno dilatato moltissimo il significato originario, da un lato ampliandolo e semplificandolo, ma anche estendendone l’uso a troppo facili e comuni banalizzazioni pseudo-esperienziali tipiche dell’attuale supermarket del sacro, con il rischio di essere ridotto a contenitore generico privo di ogni connotato storico, metodologico e con il conseguente svuotamento sul piano del significato.
Sapientemente molti esponenti di culture native hanno incominciato a rifiutare lo stesso termine, «sciamano», attribuito alle proprie figure religiose tradizionali, ritenendo che esso rappresenti ormai «una sorta di spoliazione culturale e di travisamento delle peculiarità delle tradizioni indigene» alle quali verrebbe sovrapposta un’arbitraria, banalizzante e semplicistica etichetta. (Comba) Il termine «sciamano» è la derivazione da una parola russa che a sua volta riprende un vocabolo della lingua dei Tungusi della Siberia, Saman, il cui significato è «colui che è eccitato, mosso, risorto». Un’altra origine etimologica chiamerebbe in causa l’antico indiano, il cui significato è «riscaldare se stesso, animarsi o praticare austerità», o ancora un altro verbo tunguso con il significato di «sapere».
Il grande storico delle religioni Mircea Eliade sottolineò che il ruolo e la funzione dello sciamano è innanzitutto quello di essere coinvolto nelle c.d. «tecniche dell’estasi». Lo sciamano va in estasi o trance ed ha una comunione e un contatto diretto con gli spiriti coinvolti nella malattia o nel danno dell’individuo o della stessa comunità. Egli ha la capacità in questo sistema sociale, religioso e simbolicamente riconosciuto, di comunicare con la morte, con i demoni, con gli spiriti di natura senza esserne catturato o sopraffatto. Significativo è che lo spirito dello sciamano possa lasciare il proprio corpo e vagare intenzionalmente nei «mondi altri» dove egli cerca l’anima perduta del malato restituendola. Ma lo sciamano è soprattutto in grado di curare la più terribile forma di malattia primitiva: la perdita dell’anima.
Un altro importante studioso di mitologia comparata e fenomenologia sciamanica, in particolare nativo-americana, Ake Hulkrantz, fa notare che gli elementi costitutivi che contribuiscono a definire il fenomeno sciamanico sono essenzialmente quattro:
1. La premessa ideologica sull’esistenza di un mondo invisibile o soprannaturale e la possibilità di entrare in contatto con questo mondo.
2. Lo sciamano come operatore che agisce in nome e a beneficio dell’intera comunità.
3. I poteri conferiti allo sciamano dall’ispirazione ottenuta dagli spiriti aiutanti.
4. L’esperienza straordinaria di tipo estatico. (Hultkrantz, 1999.)
La guarigione sciamanica nella sua forma fondamentale è quel processo in cui può avvenire la restituzione dell’integrità psichica e fisica, sia che si tratti della restituzione dell’anima, eliminando il male o uno spirito maligno o comunque estraneo dal corpo del malato, sia rimuovendo oggetti all’interno del corpo o bloccando ed inibendo malefici, oppure ancora risolvendo una colpa per aver infranto un qualche tipo di tabù. Tutte queste procedure sono orientate al bilanciamento e al ripristino dell’armonia dell’anima del soggetto e del suo rapporto funzionale con il mondo.
Il «complesso sciamanico» con il suo caratteristico pattern archetipico si presenta con diverse caratteristiche, ma con una serie di tratti costanti e significativi. Innanzitutto la comparsa di una grave e precoce malattia nei soggetti che verranno chiamati ad essere sciamani. La malattia dunque è sperimentata sotto forma di «chiamata». L’ordine della vita di questo individuo è disturbata al punto che nel tentativo di curare se stesso, egli dovrà diventare un guaritore. Si confronterà con le più ardue prove, quei riti di iniziazione necessari per ottenere i poteri dello sciamano e la facoltà di sciamanizzare. Questa iniziazione coinvolgerà una profonda e significativa ristrutturazione della personalità attraverso un’esperienza di «morte e rinascita» arricchita da stati alterati di coscienza e di estasi in cui lo spirito può lasciare il proprio corpo ed entrare in contatto con i «mondi altri». Parte di questo processo di iniziazione può essere rappresentato dallo «smembramento» sciamanico, rappresentato dalla potente visualizzazione ed esperienza della percezione di se stesso sotto forma di scheletro e della propria morte reale e simbolica. Il candidato sciamano potrà procedere attraverso ulteriori processi evolutivi nel corso del suo training in grado di assicurargli certi tipi di poteri personali. Uno sciamano spesso ottiene i poteri della telepatia, della psicocinesi, della precognizione, della chiaroveggenza e naturalmente la capacità di sconfiggere certe malattie in contrasto anche con le più comuni elementari e acquisite leggi fisiche. Ma il potere più importante rimane la capacità di «vedere» nel «mondo altro» e attraverso il corpo e l’anima del malato, riuscendo a identificare ed eliminare la causa delle malattie. Inoltre lo sciamano è sempre in grado di operare in relazione con i suoi spiriti aiutanti che lo soccorreranno durante l’intero processo di guarigione.
Gli sciamani spesso sono associati a specifici animali che sono in grado di offrire loro il proprio particolare potere, potranno invocare la loro energia di guarigione. Lo sciamano ha sovente una «sposa celeste» che lo supporta, lo aiuta come guida o come musa.
Oltre a queste esperienze, egli evoca un mito di guarigione invocando simboli normalmente correlati con il contesto culturale in cui vive. Da questo mito di guarigione deriva una relazione trascendente con i mondi celesti e gli dei della sua cultura, con il risultato che la salute potrà trionfare sulla malattia ed essere raggiunta una armonizzazione da parte della persona che cerca i suoi servizi. Un particolare significato, in molti modelli culturali sciamanici, acquista l’idea dell’«albero del mondo», un albero che raggiunge i tre mondi noti della cultura e cosmologia sciamanica. Il mondo dell’oltretomba, dell’oscurità, dei demoni, dove esiste il male; il mondo mortale, quello degli uomini, il mondo del qui e ora; e infine il mondo superiore, celestiale, là dove abitano gli dei. Lo sciamano può ascendere e discendere a tutti questi tre mondi attraverso l’albero del mondo.
La malattia sciamanica di Jung
Nei suoi primi anni di vita Jung soffrì di un fastidioso eczema che coincise con la separazione dei suoi genitori. Egli racconta di aver avuto idee suicide in quegli anni. Descrisse di essere stato attraversato da vaghe paure e angosce notturne, di sentire voci, di vedere corpi abbattuti sulle rocce e nei pressi di un cimitero. Avrebbe spesso visto l’immagine di uomini in giacche e stivali neri e sentito donne urlanti e piangenti. All’età di 3 o 4 anni Jung ricorda il primo sogno significativo che lo preoccupò e lo fece meditare per il resto della vita, diventando il suo mito personale. Nel sogno vide uno splendido trono:
«un vero trono regale come in un racconto di fate! Sul trono c’era qualcosa, e a tutta prima pensai che fosse un tronco d’albero, di circa 4 o 5 metri di altezza e 50 cm di diametro. Era una cosa immensa, che quasi toccava il soffitto, composta stranamente di carne nuda e di pelle, e terminava in una specie di testa rotonda, ma senza faccia, senza capelli, e con solo un unico occhio che guardava fisso verso l’alto. [...] Al di sopra della testa vi era un’aureola luminosa. Quello strano corpo non si muoveva, eppure io avevo la sensazione che da un momento all’altro potesse scendere dal trono e avanzare verso di me strisciando come un verme. Ero paralizzato dal terrore, quando sentii la voce di mia madre, proveniente dall’esterno, dall’alto della stanza che diceva: “Sì, guardalo! Quello è il divoratore di uomini”.»
Per Jung bambino questa colonna di carne era un fallo rituale che rappresentava paradossalmente e angosciosamente la figura di Gesù (associato con i Gesuiti vicini alla sua casa), che avrebbe dovuto divorarlo. Il fallo era associato con la morte e con la tomba; l’occhio indicava l’avvento di una coscienza emergente che lo avrebbe segnato per il resto della vita. Ma il fallo era un dio sotterraneo, un dio così profondo che lo avrebbe trattenuto dalla piena accettazione della dottrina cristiana.
Durante gli anni della prepubertà presentò ancora sintomi fisici e psichici di natura estremamente fastidiosa. Soffrì di crisi di soffocamento e di angosce notturne con immagini di uomini con teste mozzate. Ebbe numerosi episodi d’ansia. Si sentiva alienato e separato dai suoi coetanei. Spesso si sedeva su una grande roccia (e qui inizia il significativo rapporto di Jung con la pietra, quasi ad anticipare la tensione psicospirituale che ritroverà, negli anni successivi, nella comprensione psicologica dell’alchimia con la sua spiritualizzazione della materia e il conseguente processo di trasformazione) sulla quale pensava:
«Era la mia pietra. Spesso, quando ero solo, andavo a sedermi su quella pietra, e cominciava allora un gioco fantastico, pressappoco di questo genere: Io sto seduto sulla cima di questa pietra e la pietra è sotto; ma anche la pietra potrebbe dire “Io” e pensare: Io sono posata su questo pendio ed egli è seduto su di me. Allora sorgeva il problema: Sono io quello che è seduto sulla pietra o io sono la pietra sulla quale egli siede?»
Jung possedeva un astuccio per matite. Ad una delle estremità incise un piccolo pupazzo in cilindro e scarpe nere, lo separò dal regolo e lo depose nell’astuccio dove aveva predisposto un lettino. Nell’astuccio depose anche un piccolo ciotolo proveniente dalle rive del Reno, che aveva tenuto a lungo nelle tasche dei pantaloni. Lo colorò dividendolo in due parti:
«Era la sua pietra. Tutto ciò costituiva il mio grande segreto. Di nascosto portai l’astuccio nella soffitta proibita e lo nascosi su una trave sotto il tetto. [...] Ero certo che lì nessuno avrebbe mai potuto scoprire il mio segreto e distruggerlo.»
Più tardi lo mise in relazione con altre immagini di pietra che erano state viste nei templi greci dedicati ad Asklepios e che erano usate come amuleti di guarigione.
«Non mi preoccupai [allora] mai di cercare un significato o di spiegarmi il perché di ciò che facevo; mi appagavo del sentimento della riconquistata sicurezza ed ero contento di possedere qualcosa che nessuno conoscesse e potesse scoprire. Costituiva un segreto inviolabile che non doveva essere tradito, pena la salvezza della mia vita. [...] Era così e basta.» (RSR)
Questo è un altro esempio della «malattia creativa» giovanile di Jung caratterizzata da frequenti sintomi isterici che incominciavano ad assomigliare a vere e proprie stigmate sciamaniche. Eliade ci farà notare che spesso le pietre diventano oggetti sacri investiti di poteri che potranno essere utilizzati nel corso del processo simbolico di guarigione. Qualche anno dopo, verso i 10-11 anni, Jung ricevette un colpo alla testa cadendo sotto la spinta di un compagno di classe. A questo fatto seguirono frequenti episodi di svenimenti per circa sei mesi in coincidenza della possibilità di rientrare a scuola, ma anche turbato dall’aumentata conflittualità tra i suoi genitori. Jung ebbe la possibilità di star lontano da una realtà che non lo interessava e immergersi totalmente nelle ricche fantasie di bambino e nella sua già profondissima vita interiore a stretto contatto con la natura. Questi incidenti rappresenteranno le premesse esperienziali della sua futura teoria della nevrosi.
Durante un colloquio udito casualmente tra il padre e un amico a proposito di questi episodi e delle preoccupazioni relative a una sospetta epilessia di Carl, Jung venne scosso profondamente, permettendo il ripristino ed il contatto con il principio di realtà:
«Da allora divenni un ragazzo serio.»
Più tardi parlò di nevrosi come rifiuto di sopportare una legittima sofferenza.
Non troppo tempo dopo questi episodi Jung incominciò a realizzare che in lui abitavano due persone distinte: la personalità numero 1 e la personalità numero 2. La personalità numero 1 era intellettuale, razionale, coinvolta nella vita di tutti i giorni, cercava al di fuori il significato diretto delle cose. La personalità numero 2 era invece quella di un uomo anziano, scettico, diffidente, lontano dal mondo degli uomini, vicino al mondo della natura, della terra, del sole, della luna, degli elementi e a tutte le creature viventi. Questo costituirà il terreno su cui si svilupperà la quota mistica e intuitiva di Jung. Uno dei più significativi criteri di valutazione della personalità sciamanica è proprio la sua capacità di dissociare. Al centro dell’esperienza sciamanica c’è infatti la capacità dissociativa in grado di condurlo verso alterati stati di coscienza e verso l’estasi. Questa dinamica costitutiva è per Eliade essenziale per l’esperienza sciamanica.
Sebbene egli abbia sempre negato di essere stato una personalità «dissociata» nel senso clinico del termine, è mia opinione che durante gli anni successivi Jung ebbe fenomeni depressivi e soffrì profondamente della sua «malattia creativa». La descrizione delle caratteristiche delle sue due personalità, così come risulta dalla sua autobiografia, suggerisce che questa «capacità dissociativa» fosse da un lato una fonte importante della sua creatività e contemporaneamente un tentativo di allontanare quegli aspetti disfunzionali della relazione tra lui e i suoi genitori e tra i genitori stessi. Egli notò ad esempio che la personalità numero 2 lo conduceva inevitabilmente nella malattia e nella depressione.
Oltre a queste stigmate dissociative, Jung ebbe potentissime capacità di vedere le cose in trasparenza, in modo telepatico e visionario, altre caratteristiche della personalità sciamanica. Aveva inoltre una profonda capacità e potere di entrare in contatto con gli animali e di sentirsi in rapporto con le loro anime. Queste sono alcune delle prime esperienze della vita di Jung che lo hanno condotto verso un processo di iniziazione al pari degli antichi sciamani. Giungeranno negli anni successivi esperienze ancora più profonde e significative.
L’iniziazione sciamanica di Jung
L’intenso coinvolgimento con Freud tra il 1913 e il 1916 segneranno gli anni della sua più profonda e drammatica discesa nell’inconscio. Questo periodo iniziò con un altro sogno molto significativo che fece in un viaggio assieme allo stesso Freud sulla nave che li stava trasportando negli Stati Uniti, dove erano stati invitati a tenere una serie di conferenze alla Clark University. In questo sogno Jung vide la sua casa strutturata con parecchi piani e livelli. Nei piani inferiori, in locali appartenenti ad epoche storiche diverse comparivano ossa e crani. Questa fu la sua prima e significativa rappresentazione di un «diagramma della psiche». Le sue successive formulazioni di un inconscio personale e collettivo deriveranno proprio dalle immagini di questo sogno. Sebbene ci fossero molti complessi personali coinvolti nel sogno, non secondario il rapporto con lo stesso Freud e con le loro reciproche ambivalenze relazionali, fu soprattutto di grande significato l’immagine finale riguardante i due crani. In base al nostro punto di osservazione potrebbe in qualche modo presagire l’immagine di un’iniziazione sciamanica che entrambi, sia lui che Freud, avrebbero dovuto sperimentare per comprendere il processo di guarigione nella sua vera essenza.
Jung subì un profondo disorientamento dopo la sua rottura con Freud. In quegli anni di disagio e sofferenza alcuni suggerirono e videro la comparsa in Jung di una vera e propria rottura schizofrenica, psicotica; altri una complessa «malattia creativa», altri ancora una nevrosi. A mio parere furono anni caratterizzati da una profonda dissociazione isterica con le coloriture della «malattia creativa», una malattia dell’anima di immense proporzioni i cui sintomi erano per altro visibili già durante la sua primissima infanzia. Se ci soffermiamo a cogliere i processi di sviluppo delle vere e proprie iniziazioni sciamaniche, troveremo notevoli e significativi punti di contatto e coincidenze.
Durante gli anni della Prima Guerra mondiale, Jung ebbe delle esperienze «visionarie» caratterizzate da vere e proprie qualità profetiche e preveggenti. Nell’autunno del 1913 la sua depressione si accentuò e sorsero le prime visioni. In una di queste vide l’Europa attraversata da un mare di sangue. Annunciò una catastrofe di migliaia e migliaia di morti. In questa visione il mare si colorava drammaticamente di rosso intenso. Pensò di vivere una vera e propria dissociazione psicotica. Dopo il 1914 ebbe un sogno caratterizzato dalla diffusione di un freddo glaciale che si estendeva progressivamente sulla terra per distruggere l’intera vita umana. Annunciava in realtà la drammaticità dello scoppio del primo conflitto mondiale. In questi anni Jung visse in una sorta di trance continua. Sono anche gli anni di studio intensissimo dello gnosticismo e delle sue prime intuizioni alchimistiche, strumenti non solo di conoscenza ma di radicamento nella ricerca di significato del contatto con le profondità dell’inconscio. Sono gli anni del libro rosso. Soprattutto in questa discesa Jung incontrerà figure visionarie con le quali coltiverà un profondo dialogo interiore. Si confronterà con figure immaginali dell’inconscio collettivo come Elia, Salomè, Filemone che gli permetteranno di ricostruire il senso e il significato di questo terribile viaggio agli inferi e all’interno della sua anima.
Nasce la tecnica dell’immaginazione attiva. Queste figure interiori avranno le caratteristiche degli spiriti aiutanti con cui lo sciamano spesso si confronta. Era una sorta di confronto spietato, una sorta di lotta contro la perdita dell’anima così come avviene nei processi di iniziazione sciamanica.
Jung come sciamano e guaritore
I ricordi di Jung come guaritore sono particolarmente vivi e significativi per l’inusuale stile che rivelano. Egli stesso ricorda casi in cui esercitò profonde e medianiche capacità telepatiche e preveggenti nel rapporto con i suoi pazienti, particolarmente nell’affrontare la questione insidiosa del transfert. In un caso particolare, prima di vedere una giovane paziente ebbe un sogno in cui descriveva perfettamente le caratteristiche psicologiche fondamentali di questa donna. Le abilità intuitive, cognitive e interpretative di Jung si raffineranno sempre di più integrandosi con il profondo processo di trasformazione della sua personalità. Jung era il solo analista che riuscisse ad analizzare i sogni dei pazienti senza ascoltarli direttamente. Questo è certamente un attributo sciamanico. Potrebbero essere enumerati moltissimi altri casi significativi in cui la personalità di Jung diventa nella sua essenza così carica di qualità magico-numinose al punto di indurre potentissime reazioni trasformative e coscienziali nei suoi stessi pazienti e conoscenti, nonché analizzandi. È una personalità che trasforma. A questo proposito Jung sarà sempre molto esplicito. Parlando del senso della malattia, del disturbo, dirà che se considerata in maniera finalistica è un tentativo della natura di guarire l’uomo. Questa guarigione, nel senso più profondo del termine è trasformazione. Questa «configurazione, riorganizzazione» risanatrice, questo scambio del «cuore di pietra» con un «cuore di carne» (secondo Ezechiele) non è possibile senza la necessità della sofferenza. (Barz, Kast, Nager, 105.) Jung scriverà:
«Nessuno sviluppa la propria personalità perché qualcuno glielo ha detto che sarebbe utile farlo. [...] Senza necessità nulla si cambia, meno che mai la personalità umana. Essa è tremendamente conservatrice, per non dire inerte. Solo la necessità più acuta può stanarla. Allo stesso modo anche lo sviluppo della personalità non ubbidisce ad alcun desiderio, ad alcun ordine né ad alcuna comprensione profonda, ma solo alla necessità. Ha bisogno della costrizione motivante di interni o esterni destini.» (C.G.Jung, Opere, vol. XVII.)
In un interessante caso segnalato da Joseph Henderson, sembra che Jung si fosse confrontato anche con poteri di presunta «contro-stregoneria» (Eliade) nei confronti delle influenze negative e distruttive esercitate da una signora anziana verso i propri nipoti. Jung attivò in quel contesto alcuni esercizi mentali che sembrarono interferire e bloccare l’inferenza manipolante di questa anziana donna che dopo poco morì di causa sconosciuta, lasciando «liberi» i nipoti da una «fattura a morte». Questa è un’altra caratteristica sciamanica del combattimento tra forze ontologiche contrapposte, tra le forze del bene e del male.
È documentato il caso in cui Jung diagnosticò un ascesso cerebrale in un paziente semplicemente leggendo i sogni del paziente e non conoscendo nulla della sua vita. In un’altra situazione differenziò e diagnosticò in modo estremamente circostanziato una malattia organica ad una donna con personalità isterica, utilizzando semplicemente i sogni del soggetto. Normalmente queste modalità diagnostiche sono altamente inusuali al di fuori di certi pattern standard dell’esperienza psicoterapeutica.
Il mito sciamanico di guarigione di Jung
Quando Jung formulò la sua teoria della psiche centrata sulla teoria dei complessi e degli archetipi, l’inconscio personale e l’inconscio collettivo, nella sua necessità di trovare gli antecedenti storici della sua metapsicologia, fece costanti riferimenti all’animismo come uno dei più antichi sistemi di credenze al mondo. Questo sistema religioso è intimamente connesso con lo sciamanismo con i suoi riferimenti ad una realtà naturale che è sempre vitale e vibrante.
Jung correlò la malattia sciamanica della perdita dell’anima (la malattia antica più conosciuta al mondo) e l’intrusione dello spirito (o possessione dello spirito) direttamente alla sua teoria psicopatologica correlata all’inconscio personale (complessi) e all’inconscio collettivo (archetipi) e in questa formulazione collocò sia la depressione che la schizofrenia.
Per quanto riguarda la metodologia psicoterapeutica e analitica, Jung descrisse quattro differenti metodi che indicò essere alla base di ogni psicoterapia e di ogni agire psicoterapeutico, compresa la sua. Queste comprendono la confessione o abreazione, l’elucidazione o interpretazione, il metodo educativo e quello trasformativo. Egli identificò forme di trattamento religioso con gli approcci confessionale e abreativo; la psicoanalisi classica di derivazione freudiana con il metodo interpretativo e la social-metodologia di Adler con quello pedagogico. Infine colse nel proprio metodo simbolico-analitico l’approccio trasformativo. Ognuna di queste metodologie ha un qualche rapporto con lo sciamanismo. La confessione e l’abreazione rientrano in metodologie e ritualità di purificazione. Ma è con i metodi della trasformazione simbolica che Jung e la sua prassi si avvicineranno sempre di più al modello sciamanico.
Quando Jung parla della metodologia e della psicodinamica del processo trasformativo, ci conduce all’interno di una relazione psicoterapeutica in cui sia il paziente che il terapeuta vengono «trasformati» e il modello junghiano dello scambio dialettico acquista tutta una sua particolare significatività. È questa metodologia che può essere considerata più vicina all’esperienza sciamanica, dove il guaritore (healer) può avere un contatto più diretto con il disturbo del paziente e forse recarsi come sciamano nei «mondi altri» e combattere con i poteri dell’oscurità liberarando il paziente dalla sua malattia. Al centro di questo processo si costellerà l’archetipo del «guaritore ferito». Questo è nella sostanza il pattern archetipico centrale di ogni processo di guarigione a un livello molto profondo. Lo sciamano e l’analista junghiano sono «guaritori feriti». Poiché hanno la ferita, essi «conoscono» la ferita e possono trattare quella del paziente.
Il sacerdote, l’uomo-medicina o il medico, l’insegnante e lo sciamano formano in un certo senso una categoria di «guaritori» molto interessante. Lo sciamanismo, la più antica forma di guarigione a noi conosciuta è il prototipo da cui sono derivate in senso evolutivo tutte le altre forme di guarigione. Jung enfatizzerà questa concezione al centro della sua teoria di guarigione.
Il mito di guarigione di Jung e il suo mito personale si svilupperà come già indicato proprio a partire dalle complesse psicodinamiche della sua personale difficoltà di rapporto con i genitori e dai suoi sforzi di risanare la loro separazione. La madre tendeva a personificare una natura primitiva della psiche. Sia lei che i suoi antenati avevano avuto esperienze transpersonali, di contatto e di channeling con realtà spiritiche e con fenomeni di natura parapsicologica. Di sua madre Jung dirà, ribadendo tratti che ritroverà poi in se stesso:
«Ero sicuro che in lei c’erano due personalità; una innocua, umana, l’altra inquietante: quest’ultima si manifestava solo di tanto in tanto, ma ogni volta inattesa, e tale da incutere timore: allora parlava come se si rivolgesse solo a se stessa, ma ciò che diceva si riferiva a me, e di solito colpiva le intime fibre del mio essere, mi lasciava senza parole. [...] C’era un’enorme differenza tra le due personalità di mia madre, ed era per questo motivo che da bambino la vedevo spesso in sogni angosciosi. Di giorno era una madre amorevole, ma di notte mi appariva inquietante: era come una di quelle veggenti che sono al tempo stesso uno strano animale, come una sacerdotessa nella grotta di un’orso. Arcaica e spietata; spietata come la verità e la natura. In tali momenti era la personificazione di ciò che ho chiamato natural mind, la mente naturale. Anch’io posseggo questa natura arcaica, e in me si combina col dono – non sempre piacevole – di vedere la gente e le cose come sono realmente.» (RSR, p. 78-79.)
Non dimentichiamo che Jung, stimolato dalle esperienze parapsicologiche e medianiche della cugina Helene, fece la sua tesi di laurea in medicina proprio sulla natura e sulla psicologia dei c.d. fenomeni occulti.
Dall’altro lato, la figura paterna, pastore protestante, era una persona molto più razionale. Jung ebbe tuttavia difficoltà a trovare un rapporto emozionale con lui, non riuscendo a condividere e risolvere i suoi problemi religiosi in modo intellettuale. Celebre fu la risposta che diede a Carl quando nell’affrontare la formazione catechistica, di fronte al capitolo della Trinità, si fermò e gli disse:
«Ora ci dovremmo occupare della Trinità, ma la tralasceremo, perché in realtà non ne capisco nulla io stesso.» (RSR, p. 82.)
In una straordinaria esperienza che potremmo definire «sciamanica» a tutti gli effetti, Jung descrisse la sua interazione con il padre. Notò che non aveva più sognato suo padre dal 1896, anno della sua morte. Per molti anni si meravigliò di non aver avuto più contatti con lui tramite il sogno. Nel 1922 Jung ha 47 anni e finalmente riesce a sognarlo. Suo padre viene verso di lui chiedendogli un consulto sul suo lavoro, specialmente nel trattamento di coppie che hanno problemi relazionali. Jung ne fu profondamente impressionato. Poco tempo dopo il sogno morì sua madre inaspettatamente. Jung concluse che suo padre non era stato in grado di risolvere i suoi problemi coniugali quando sua moglie era ancora in vita. Tuttavia quando egli venne a sapere che sua moglie sarebbe morta presto per incontrarlo nuovamente nell’aldilà, aveva riconosciuto la necessità di essere aiutato nel risolvere le difficoltà di quel nuovo incontro. Questa inusuale interpretazione personale, a livello del soggetto, suggerisce ancora una volta un ennesimo orientamente sciamanico nella vita di Jung.
Jung sull’alchimia e lo sciamanismo
Oltre allo sciamanismo Jung credeva anche che l’alchimia, se osservata attraverso le lenti di un’interpretazione simbolico-psicologica, piuttosto che attraverso quelle di una chimica scientifica, dovrebbe essere considerata (al pari dello sciamanismo) un precursore della moderna psicologia dell’inconscio. (Jung si sforzò sempre di trovare gli antecedenti storici delle sue teorie.)
Egli credeva che l’alchimia fosse in effetti la proiezione di un processo simbolico che sorgeva nell’inconscio e l’immaginario prodotto, come peraltro nello sciamanismo, abbondava in temi di trasformazione rituale. Con le varie operazioni magico-chimiche e attraverso le fasi di divisio, solutio, coagulatio, eccetera, l’alchimista cercava di trasformare i metalli in oro. Ciò, sul piano del profondo, in realtà era un’arte mistica piuttosto che scientifica e portava alla proiezione dei contenuti dell’inconscio nella materia. Jung intepretò l’oro, proprio come le pietre sacre quali il cristallo e il lapis-lazuli, come simboli del Sé e i processi di trasformazione chimica della materia diventavano un tipo di trasformazione rituale analoga alla trasformazione interiore che avveniva nella psiche degli stessi alchimisti, così come accade durante il processo di individuazione.
L’alchimista, come lo sciamano, praticava un’arte segreta, sacra ed esoterica. L’alchimista spesso aveva una donna che lo assisteva (la soror mystica) nel suo laboratorio immaginale, come lo sciamano aveva la sua «sposa celeste», e come lo sciamano praticava la sua arte ai margini della società.
Jung credeva che l’alchimia medioevale e rinascimentale, come la moderna psicologia del profondo, sorgesse come tentativo di compensare la unidirezionalità del cristianesimo. Essendo guidata da temi pagani e da un ricco immaginario archetipico, essa cercava di contrastare sul piano psicologico-simbolico con le espressioni dogmatiche e sessuofobiche del Cristianesimo meglio della teologia cristiana di allora e di come il Cristianesimo era stato colto e interpretato. In questo contesto possiamo vedere la profonda svalutazione della terra e del femminile. Jung riteneva inoltre che l’alchimia trattasse meglio il problema degli opposti psichici, cercandone una coniunctio oppositorum, una congiunzione piuttosto che una svalutazione, o una repressione o addirittura una dissociazione. E soprattutto incorporava, quindi integrava sul piano simbolico, piuttosto che reprimerlo l’oscuro, il male, il corpo, il femminile, quindi tutto ciò che era stato rimosso più o meno volontariamente dal cristianesimo. Ma noi ben sappiamo che, come in un percorso carsico, tutto ciò che è rimosso (quindi non risolto o integrato sul piano simbolico) prima o poi fa la sua ricomparsa, ritorna come sintomo. Hillman, riprendendo Jung, usa spesso dire che gli dei (rimossi) ritornano sotto forma di malattia.
Nel contesto della discussione sul significato alchimistico della pietra filosofale, il lapis lazuli, il cristallo e l’oro come simboli psicologici del Sé archetipico, Jung rivedeva il significato della numinosità che i cristalli avevano per esempio nello sciamanismo e nella mitologia nativoamericana. Jung dice: «Nello sciamanismo molta importanza è attribuita ai cristalli che giocano un ruolo importante nel ministering spirits. Essi vengono dal trono di cristallo dell’Essere Supremo o dalla volta del cielo. Essi mostrano ciò che sta succedendo nel mondo e alle anime del malato ed essi danno anche all’uomo il potere di volare.» (C.G. Jung, CW, 13, p. 132.)
Il potere dei cristalli riesce a canalizzare una conoscenza su ciò che è alterato nel malato, e questa è a sua volta una funzione del potere del Sé archetipico, nella sua capacità di regolatore di tutti i processi psichici, nonché strumento di integrazione e di guarigione. Jung aggiunge che gli attributi della pietra sono quelli usati simbolicamente per rappresentare il Sé archetipico. Questi sono gli attributi dell’«incorruttibilità, permanenza e della divinità.» (ibid., p. 126.)
Il simbolismo dell’albero alchemico e l’albero magico dello sciamano come simbolo del Sé archetipico
L’albero cosmico (albero del mondo) è un altro motivo simbolico comune all’alchimia e allo sciamanismo. La comprensione di Jung del significato dell’albero alchemico era basato almeno in parte sulla comprensione dell’albero cosmico dello sciamano come descritto da Mircea Eliade quale axis mundi, asse del mondo, un centro del mondo che connette le tre zone cosmiche della cosmologia sciamanica. L’albero cosmico è un tipo di passaggio rituale attraverso cui lo sciamano può salire e discendere nel mondo inferiore, nel mondo degli spiriti. Jung enfatizza che il simbolismo dell’ascesa e della discesa è un simbolismo presente in molti motivi onirici dei suoi pazienti. Un grande analista e psichiatra junghiano recentemente scomparso, John Weir Perry, attento studioso delle implicazioni tra immagini mitiche e psicosi, ha descritto e documentato la comparsa del motivo dell’albero cosmico in molte immagini allucinatorie di pazienti schizofrenici. Egli enfatizza che l’emergenza di questa immagine archetipica stabilisce una relazione profonda tra il Sé archetipico (l’immagine del Sé ) da parte dello schizofrenico con il profondo processo trasformativo della sua psiche. Poiché questo tipo di simbolismo dell’albero cosmico è così centrale nella simbologia sciamanica, diventerà piuttosto naturale per Jung interpretarlo come un simbolo del Sé, come unione degli opposti e come mezzo di accesso alla realtà dell’inconscio collettivo (simbolizzato come mondo superiore e come mondo inferiore).
Jung e la visione del mondo sciamanico
Entriamo nelle fasi finali della sua vita, quando il suo mito di guarigione si approfondisce e coinvolge un’esperienza di trascendenza potentissima che lo conduce ad una visione del mondo dall’alto. Durante questo periodo Jung ha diversi e gravi disturbi. All’inizio del 1944 si romperà una gamba e poi avrà un grave infarto cardiaco. Barbara Hannah, analista junghiana, descriverà questo periodo come il più grande passo nella storia del processo di individuazione personale di Jung. Durante la malattia ha un’esperienza visionaria in cui vede se stesso fluttuare sopra la terra e in lontananza vede il globo terrestre, avvolto in una splendida luce azzurrina (il blu alchemico di Hillman) e distingue i continenti e il blu profondo del mare. Ai suoi piedi si trova Ceylon e davanti a lui l’India. Questi sono anni di grande confronto con la cultura orientale. Era come vedere un’intera mappa della terra, un’esperienza simile al «volo sciamanico»:
«La mia visuale non comprendeva tutta la terra, ma la sua forma sferica era completamente visibile e i suoi contorni splendevano di un bagliore argenteo, in quella meravigliosa luce azzurra. In molti punti il globo sembrava colorato o macchiato di verde scuro, come argento ossidato. Sulla sinistra, in fondo, c’era una vasta distesa, il deserto giallo rossastro dell’Arabia... Poi seguiva il Mar Rosso e lontano – come a sinistra in alto su una carta – potevo scorgere anche un lembo del Mediterraneo, oggetto particolare della mia attenzione. Tutto il resto appariva indistinto. Vedevo anche i nevai dell’Himalaya coperti di neve, ma in quella direzione c’era nebbia o nuvole. Non guardai per nulla verso destra. Sapevo di essere sul punto di lasciare la Terra.» (RSR, pp. 344-345.)
Con questa visione Jung completa un’arrampicata celestiale, sciamanica, dell’albero del mondo che aveva iniziato con il primo sogno del fallo sotterraneo. Proprio in questa serie di visioni sperimenterà i segreti più profondi di guarigione, il mistero della guarigione. Ebbe anche un’esperienza visionaria in cui costellò nel suo medico personale la potente immagine del soter (colui che guarisce), associandolo al mitico dio greco della guarigione, Asklepios. Comprese la divina verità di Esculapio, che solamente il medico ferito può guarire. Questa consapevolezza lo toccò profondamente e gli mostrò quanto lo sciamano fosse infatti il guaritore ferito, the wounded healer...
Jung sottolineò il fatto che lo sciamanismo fosse una forma del processo di individuazione: la sua visione di vedere la terra dall’alto era un chiaro esempio di come lo spirito dello sciamano lascia il corpo e va nei «mondi altri» per adempiere la funzione trascendente nel recupero e nella comprensione dei segreti di guarigione per la comunità. In questo caso il mondo sta per la comunità.
La successiva serie di visioni coinvolse il tema della coniunctio alchemica. Queste lo spinsero ad unire alcuni dei miti centrali di guarigione dell’ebraismo, della cristianità e della cultura greca. Tutti questi miti prendevano ispirazione da potenti immagini dello «hierosgamos», il matrimonio sacro:
«Erano le nozze mistiche così come appaiono nelle rappresentazioni della tradizione kabbalistica. [...] Io stesso ero nel Pardes rimmonim [titolo di un vecchio trattato kabbalistico], il giardino dei melograni, e avevano luogo le nozze di Tifereth e Malchuth. [...] Non so dirvi quanto fosse meraviglioso. [...] Non so esattamente che parte vi avessi. Alla fine era me stesso: io ero lo sposalizio!» (RSR, p. 349.)
Più specificatamente, quando Jung scrisse il suo trattato sul transfert sottolineò come al centro del processo di traslazione ci fosse Eros nell’archetipo della coniunctio, la congiunzione alchemica degli opposti. Mai come in questa visione emergevano in modo significativo (RSR, p. 350 sgg) il concetto di individuazione e una visione così obiettiva della realtà. Questa esperienza confermò la sua relazione alla vita ed alla morte.
«Tutte queste esperienze sono meravigliose. Vagavo una notte dopo l’altra in uno stato di purissima beatitudine, “circondato da immagini di tutta la creazione”. Poi gradualmente i vari motivi si mescolavano e impallidivano. […] Nella stanza c’era un pneuma di un’ineffabile santità, la cui manifestazione era il Mysterium Coniunctionis. Non avrei mai pensato che si potesse provare un’esperienza del genere e che fosse possibile una beatitudine duratura. Le mie visioni e le mie esperienze erano effettivamente reali, nulla era soltanto sentito, soggettivo, anzi possedevano tutti i caratteri della assoluta oggettività.» (RSR, pp. 350-351.)
«Da allora in poi non mi sono mai liberato completamente dall’impressione che questa vita sia solo un frammento dell’esistenza che si svolge in un universo tridimensionale disposto a tale scopo. [...] Rifuggiamo dalla parola “eterno”, ma posso descrivere la mia esperienza solo come la beatitudine di una condizione non-temporale nella quale presente, passato e futuro sia una cosa sola.» (RSR, p. 351.)
Jung racconta di aver vissuto ancora un’esperienza di una tale obiettività e pregnanza, analoga alle visioni precedenti, dopo la morte della moglie Emma che gli apparve in sogno come in una visione. Appariva con il più bell’abito che avesse mai indossato, giovane, sui trent’anni, con l’espressione «di chi sa e riconosce obiettivamente, senza la minima reazione emotiva, come al di là della nebbia delle passioni. Conteneva il principio della nostra relazione.» (RSR, p. 352.)
«L’oggettività di cui feci esperienza in questo sogno e nelle visioni appartiene a una individuazione compiuta. Rappresenta un affrancamento da ogni valutazione e da tutto ciò che chiamiamo un legame affettivo: in genere gli uomini attribuiscono molta importanza ai legami affettivi, ma questi contengono proiezioni che è necessario respingere per realizzare se stessi e l’oggettività. I rapporti emotivi sono rapporti di desiderio, viziati da costrizioni e mancanza di libertà; si vuole dall’«altro» qualcosa che priva sia lui che noi della libertà. La conoscenza obiettiva sta al di là della relazione affettiva; sembra essere il segreto essenziale. Solo grazie ad essa è possibile la vera coniunctio”. (RSR, pp. 351-352.)
È importante ricordare che solo dopo questa serie di visioni Jung scriverà opere come La psicologia del transfert e Risposta a Giobbe e poi il grandioso Mysterium Coniunctionis.
Conclusioni: Implicazioni per l’analisi moderna e la psicoterapia
Vorrei concludere questa relazione senza eccessive enfasi di sintesi né di completezza. Potremmo far riferimento a tutta una serie di valutazioni sullo sciamanismo postmoderno, sul neosciamanismo, sulla perdita del senso del sacro nelle società industrializzata e secolarizzata, su una diagnosi sciamanistica da parte della cultura occidentale, sul recupero della funzione del mito nei processi di guarigione, sulla guarigione rituale di tutte le c.d. «tecniche del sacro e dell’estasi», sulla rivisitazione dei significati simbolici dello sciamanismo per la moderna psicoterapia, ma in ultima analisi credo sia giusto lasciare ancora una volta la parola allo stesso Jung:
«È decisivo che l’uomo sia orientato verso l’infinito. È il problema essenziale della sua vita. Quanto più un uomo corre dietro ai falsi beni e quanto meno è sensibile a ciò che è essenziale, tanto meno soddisfacente è la sua vita. Si sentirà limitato, perché limitati sono i suoi scopi. Se riusciamo a capire e a sentire che già in questa vita abbiamo un legame con l’infinito, i nostri desideri e i nostri atteggiamenti mutano.»
«Sia nella mia esperienza di medico che nella mia vita, mi sono ripetutamente trovato di fronte al mistero dell’amore, e non sono mai stato capace di spiegare che cosa esso sia. [...] Qui si trovano il massimo e il minimo, il più remoto e il più vicino, il più alto e il più basso, e non si può parlare di uno senza considerare anche l’altro. Qualunque cosa si possa dire, nessuna parola potrà mai esprimere tutto. Parlare di aspetti parziali è sempre troppo o troppo poco, perché soltanto il tutto ha significato. L’amore “soffre ogni cosa” e “sopporta ogni cosa” (I Cor., XIII, 7). Queste parole dicono tutto ciò che c’è da dire; non c’è nulla da aggiungere. Perché noi siamo, nel senso più profondo, le vittime e i mezzi e gli strumenti dell’“amore” cosmogonico. [...] L’amore non viene mai meno, sia che parli con la “lingua degli angeli” o che, con esattezza scientifica, tracci la vita della cellula risalendo fino al suo più ultimo fondamento. L’uomo può cercare di dare un nome all’amore, attribuendogli tutti quelli che ha a disposizione, ma sarà sempre vittima di infinite illusioni. Se possiede un granello di saggezza, deporrà le armi e chiamerà l’ignoto con il più ignoto, ignotum per ignotius, cioè con il nome di Dio.» (C.G. Jung, RSR, pp. 413-414.)