Jung e l'Alchimia
di Antonio D'Alonzo
L’alchimia, per Jung, sarebbe una sorta di antica “tecnica dell’anima”, in grado
di realizzare– mediante l’apparato simbolico – il Sé, il principium
individuationis, strutturato attraverso l’esplorazione integrativa dell’Io
nell’inconscio. Tramite questa chiave interpretativa acquista particolare
rilevanza l’immagine del laboratorio come metafora della personalità, attraverso
cui ottenere la trasmutazione (principio d’individuazione) del metallo (Io)
nell’oro (Sé). Le applicazioni alchemiche simboleggerebbero, ritualmente, il
processo di perfezionamento interiore. Il lavoro dell’alchimista non sarebbe
altro che un’allegoria inconscia del percorso di perfezionamento introspettivo:
anche quando egli opera empiricamente, riproduce- consapevolmente o meno – la
parabola del viaggio interiore del Sé. In Psicologia e Alchimia, Jung estende la
sua ermeneutica simbolistica all’analisi della ricezione storica delle correnti
alchemiche occidentali, allargando diacronicamente il campo di ricerca
strutturale all’esegesi testuale, mentre la materia è identificata con il
principio di ordine femminile che compendia sinteticamente la trinità cristiana,
esprimendo così la reintegrazione dello spirito con il mondo materiale ed il
negativo.
Nel Rosarium philosophorum, ad essere evidenziate sono soprattutto le “nozze
chimiche” del re e della regina, funzionali all’analisi del fenomeno del
transfert. È proprio il quarto fattore dialettico, di contro all’idealismo
hegeliano, a garantire la riabilitazione della polarità femminile e del
principio passivo, giacché,
«il lavoro sulla materia riabilita simbolicamente la polarità femminile e oscura
della realtà, quella che chiamiamo “male”, che la teologia cristiana di
Agostino, dopo la sconfita dello gnosticismo e del manicheismo, aveva privato di
realtà ontologica»[2].
Jung dedica grande spazio agli scritti di Paracelso, allo “spirito Mercurio” ed
al simbolismo dell’albero. Ma è soprattutto la figura di Zosimo di Panopoli
(III-IV d. C.), ad essere al centro
dell’interesse junghiano. Ad
affascinare Jung, nei trattati di Zosimo, è stato, probabilmente, l’aspetto
visionario dell’opera, sono state le proiezioni oniriche sull’oggettività della
materia, percepita dagli alchimisti come sostanzialità intrinseca e non come
mera risultante delle dinamiche del processo inconscio d’individuazione. Nel
Mysterium Coniunctionis, l’ultima opera prima della scomparsa, Jung sembra
rendersi conto che l’integrazione dialettica del quarto termine- la materia-
nello schema trinitario divino, pur esprimendo simbolicamente la Totalità, non
la realizza concretamente, limitandosi ad indicarne la mera possibilità. La
concretizzazione del lavoro alchemico è data soltanto dall’unione effettiva,
ossia spirituale, tra uomo e cosmo (Unus Mundus, secondo la terminologia
dorniana). Alla fine, dunque, Jung nel suo costruttivo approccio all’alchimia,
rinuncia ad oltrepassare il confine dottrinale tra la rassicurante riva
dell’interpretazione psicoanalitica e i turbinosi ed oscuri flussi carsici
dell’operatività iniziatica. A fronte della sterminata erudizione in materia,
egli rimane uno psicologo, distante anni luce dai seguaci della neognosi
contemporanea. Il compito di ampliare l’orizzonte epistemologico delle ricerche
junghiane sull’alchimia è stato raccolto da due continuatori della sua opera,
Marie Luise von Franz e Robert Grinell. La prima collega le elaborazioni
junghiane sulla coniunctio alchemica con la teoria della sincronicità,
riallacciandosi al lascito della classica dottrina esoterica del
micromacrocosmo, ossia della dimensione antropocosmica del Tutto. Grinnell, dal
canto suo, preferisce concentrarsi sulla rielaborazione “alchemica” dei processi
psicoidi, definiti come interazioni inscindibili di spirito e materia,
escludendo del tutto la possibilità di una qualunque lettura unilaterale che
prescinda dalla coniunctio dei due termini.
Jung, ha confessato di essersi sentito a lungo isolato, nella sua lunga attività
di ricerca. Di essere stato un solitario, perché interessato a cose «che gli
altri ignorano, e di solito preferiscono ignorare».[3]. Jung fu dapprima
emarginato per il suo interessamento alle teorie freudiane ed a quello strano
metodo- la “psicoanalisi”- che si proponeva di curare gli isterici con la
terapia dell’ascolto e prescindendo da terapie coatte. Ma il pensiero di Freud
era troppo focalizzato sulla libido e sulla «numinosità» del tema dell’incesto-
in altre parole, ratiocentrico e illuministico- per sfiorare nel profondo gli
interessi culturali e speculativi dello psicologo di Basilea, da sempre
stimolato da argomenti inerenti la dimensione sovrapersonale del simbolismo
religioso e mitologico. Jung arriva presto a cogliere la valenza di strutture
inconscie declinate nelle modalità di
a-priori collettivi, definiti “archetipi”, minimizzati da Freud. Si consuma
dunque la rottura con Freud ed inizia, per Jung, un nuovo periodo di
disorientamento interiore ed isolamento. Tra il 1918 ed il 1926, Jung comincia
ad interessarsi alle dottrine gnostiche, giudicandole, tuttavia, culturalmente
troppo distanti dalla mentalità contemporanea. L’incontro con l’alchimia
fornisce il “ponte” del legame storico tra il passato stratificato nelle
dottrine gnostiche e neoplatoniche ed il presente, costituito dalla moderna
scienza dell’inconscio. L’alchimia fornisce a Jung le basi storiche su cui
strutturare le proprie ipotesi di lavoro e le prefigurazioni letterarie
dell’esperienza interiore maturata durante la giovinezza e nel primo periodo
freudiano. Nel 1928, Jung riceve dal grande sinologo tedesco Richard Wilhelm un
testo di alchimia taoista, Il segreto del fiore d’oro, che dischiude a Jung
nuovi orizzonti speculativi. In particolare, grazie alla lettura dei testi di
alchimia, egli riesce a interpretare il significato di un sogno, in cui si
trovava imprigionato nel XVII secolo. Lo psicologo svizzero sogna di trovarsi in
guerra e di rientrare dalle prime linee sul carro di un contadino trainato da un
cavallo. Successivamente, un castello compare all’orizzonte, il carro entra
all’interno dal portone principale. All’improvviso, tutti i portoni si
rinchiudono ed il contadino esclama che lui e Jung sono prigionieri del XVII
secolo
Jung coglie l’evento come il segno della predestinazione personale allo studio
sistematico ed esaustivo della letteratura alchemica. L’alchimia diventa, per
Jung, l’equivalente storico della psicologia del profondo, grazie alla quale può
concepire l’inconscio alla stregua di un processo individuale e collettivo di
trasformazione che interagisce e si relaziona con la sfera cosciente, dinamica
che prende il nome di processo di individuazione; ma l’alchimia fornisce allo
psicologo svizzero le chiavi esegetiche per interpretare un universo di
significati simbolici e immaginali. La figura di Paracelso, ad esempio, permette
a Jung di esaminare il rapporto dell’alchimia con la cultura religiosa del
tempo. In Psicologia e Alchimia, Jung compara e mette in relazione simbolica
Cristo al lapis philosophorum, la leggendaria pietra che gli alchimisti
cercavano di produrre nei loro laboratori. Nel frattempo diversi sogni danno a
Jung la prova di essere sulla strada giusta. Una notte, Jung, al risveglio, ha
un’allucinazione ipnopompica e visualizza un grande crocefisso verde-oro deposto
ai piedi del letto. Lo psicologo svizzero interpreta il sogno come una visione
alchemica di Cristo. Nel Segreto del Fiore d’Oro, Jung descrive il processo
taoista di circolazione dell’energia vitale all’interno del corpo, ma
soprattutto riesce a mettere efficacemente in relazione la ricerca dell’elixir
interno cinese (nei tan) con l’istanza medievale e cristiana del corpo
spirituale, giungendo ad avere l’intuizione decisiva sul segreto dell’opus come
coniunctio oppositorum, trasmutazione della materia grossolana in materia
spirituale: in termini psicoanalitici, interrelazione della coscienza con
l’inconscio, processo volto a determinare il Sé, o principio d’individuazione.
Nel Mysterium Coniunctionis, l’ultima vera opera prima della scomparsa, Jung
affronta i testi di Ripley, Dorn, Abraham Eleazar, basandosi soprattutto
sull’analisi ermeneutica del simbolismo alchemico. La coniunctio junghiana della
materia e dello spirito s’innesta in un “luogo intermedio” (metaxû), dove la
coscienza e la materia psichica s’integrano interagendo. Negli stessi anni Henri
Corbin definirà tale strato come Imaginale, dando inizio ad una serie di
ricerche che delineeranno i contemporanei studi sull’immaginario collettivo,
avallati dagli stessi junghiani, ma anche da studiosi di altre discipline, come,
per esempio, Gilbert Durand, teorico di un’antropologia dell’Immaginario.
Jung dedica uno studio specifico al panopolita, Le visioni di Zosimo, dove
esamina il Trattato sull’arte o Peri aretes ( letteralmente, “sulla virtù”), in
cui il panopolita racconta il contenuto di una serie progressiva di sogni,
intervallati da brevi risvegli, quasi a scandire il tempo della produzione
onirico-simbolica e dell’interpretazione cosciente. Jung pensa che la serie
onirica non rifletta tanto una trasposizione allegorica, quanto piuttosto
un’unica visione, in grado di rimandare ad un’esperienza reale, giacché era
abbastanza usuale per gli alchimisti dell’epoca incorrere in sogni e visioni
durante l’esecuzione dell’Opus, dove contenuti psichici inconsci venivano
proiettati sulla materia e sui processi chimici.
Anche le visioni di Zosimo rispecchiano, secondo Jung, le proiezioni inconscie
sulla materia, un processo dinamico che sembra caratterizzare, pressoché, tutti
gli alchimisti. Mediante le proiezioni sulla materia, sul lapis o sull’acqua
divina, l’alchimista entrava in contatto- sia pure in forma allegorica- con
l’inconscio. Jung definisce
l’imaginatio come «un estratto concentrato di forze vive, tanto corporee quanto
psichiche», grazie alle quali l’operatore entra inconsapevolmente in relazione
con l’inconscio, e dunque- in ultima analisi- riesce a rielaborare e ridefinire
la propria personalità. All’epoca dell’alchimia tardo-antica, infatti- ricorda
Jung- non esisteva la rigida separazione cartesiana tra la materia e lo spirito,
gli alchimisti operavano dunque all’interno di un ipotetico regno intermedio,
che nella filosofia indiana prende il nome di “corpo sottile”. Zosimo, in tal
senso, proiettava sulla materia le sue convinzioni filosofiche, fortemente
permeate dalle dottrine gnostiche del tempo. Zosimo- come gli altri alchimisti-
doveva aver avuto sentore di una qualche sorta di relazione tra la
trasformazione della materia ed i processi psichici, senza tuttavia- data la
natura inconscia del processo- riuscire a definire con chiarezza le dinamiche
sottese all’interazione. Secondo la psicoanalisi, i contenuti inconsci rimossi
dai meccanismi censori della coscienza affiorano simbolicamente nei sogni e
nelle fantasie. La catabasi del pneuma come Figlio di Dio che discende nella
Materia, per liberarsene successivamente attraverso il processo anabatico,
corrisponde- sempre secondo Jung- alla proiezione di un contenuto inconscio che
si reifica, oggettivandosi nella materia.
Qui si trova anche, secondo Jung, la principale differenza tra il
cristianesimo e l’alchimia: in quest’ultima, il processo catabatico non si
concentra- come nel primo caso- nel corpo dell’eletto, ma prosegue la sua
discesa fino alle viscere “infernali” della materia. L’alchimia, in tal senso,
dialettizza la malvagità- d’ispirazione pitagorica e dunque orfica- della
Materia, recuperando il femminile, il “male”, la dualità, l’altro sentiero
parmenideo. Nell’alchimia la Materia non viene semplicemente sconfessata come
“tomba dell’anima”, ma si attua, altresì, un processo volto a liberare l’Anima
Mundi imprigionata nella stessa, attraverso la sua redenzione. Per Zosimo, il
Figlio di Dio è un Cristo gnostico, del resto secondo Jung, il panopolita
apparteneva ad una comunità ermetica, come testimoniato anche dal riferimenti al
simbolo del Cratere, titolo di uno dei trattati del Corpus Hermeticum. Nel
Commentario alla lettera Omega,
Zosimo denomina Heimarmene, il Figlio di Dio che ha realizzato la liberazione
dal regno della cieca fatalità. Il
Figlio di Dio è equiparato ad Adamo- di cui costituisce il lato interiore,
spirituale- a sua volta equivalente all’Anthropoos, simbolo della totalità,
raffigurato dalla croce e dalle quattro direzioni cardinali: dunque effige della
completezza. Nel passo di Zosimo, riportato in Psicologia e Alchimia, assistiamo
ad una serie di connessioni allegoriche: l’Adamo terrestre è equiparato a Thoth,
l’Ermete egizio, e a Epimeteo; mentre Cristo- l’uomo interiore, l’Adamo Celeste,
l’Adam Qadmon cabbalistico- è equiparato a Prometeo e ad un uomo di luce,
puramente spirituale. Tuttavia, sempre per Jung, l’uomo di luce è una
riplasmazione cristiana dell’originario archetipo dell’Uomo primigenio, idea
filtrata dal neoplatonismo e rielaborata dagli umanisti fiorentini del XV
secolo.
Zosimo pone come antagonista del Figlio di Dio, l’Antimimos daimon, l’imitatore,
che qui simboleggia il principio del male; tuttavia, non si deve pensare a
queste dicotomie come sostanziali ipostasi metafisiche, al contrario il dualismo
è soltanto uno stato intermedio, preparatorio della superiore sintesi monistica
che scioglie le contraddizioni del mondo fenomenico. Il Mercurio alchemico è
ecletticamente in grado di “diventare tutto” e superare le aporie. Simbolo
dell’onnipresenza pervasiva dell’Uno-Tutto è l’ouroborus, il serpente che si
morde la coda, allegoria della circolarità della trasformazione, della duplice
natura dell’anello perenne del divenire: come Giano Bifronte, la luce e la
tenebra, il bene ed il male, il Basilisco ed il Salvatore, lo scorpione e la
panacea, non sono che due facce della stessa medaglia. Come la Grande Madre Kali
che crea per distruggere e distrugge per creare, l’ouroborus divora e rigenera
se stesso, allo stesso modo in cui l’ermafrodito dialettizza riunificando la
scissione degli opposti, originata dal rancore di Zeus verso la felicità
androgina, secondo la celebre immagine del Simposio platonico. L’Anthropos di
Zosimo testimonia proprio il tentativo di ripensare l’intero e la totalità, che
in termini junghiani significa intuire il principio d’individuazione, il Sé, il
punto d’interrelazione tra la coscienza e l’inconscio. Mercurio è equiparato
all’Ouroboros, il serpente che divora se stesso, simbolo della trasformazione
autorigenerante ed entrambi si riconducono all’Ermafrodito: si tratta di spiriti
ctoni, che possiedono un aspetto maschile e spirituale ed uno femminile e
grossolano. Non a caso, ricorda Jung nella prima materia, nous e physis sono
diventati identici ed indistinguibili, una natura abscondita che si richiama al
mito gnostico della prigionia di Sophia nel mondo della manifestazione
grossolana:
«Il mito gnostico originario ha subito una curiosa trasformazione. Nella prima
materia nous e physis sono diventati una sola cosa indistinguibile, una natura
ascondita[4] »
Ovviamente, Jung non avrebbe mai potuto avallare il mitologema gnostico della
divinità imprigionata nel regno della Materia, ma le sue grandi capacità
interpretative gli hanno permesso di rileggerne i contenuti in chiave
psicoanalitica. Il processo alchemico, la lavorazione della Mathesis, è
riconducibile alle proiezioni del rimosso inconscio nella materia, ossia al
ritorno del perturbante nella coscienza, processo che normalmente trova la sua
esplicazione nei contenuti onirici e nelle fantasie:
«il processo consiste in un’invasione della coscienza da parte dei contenuti
inconsci, ed è così strettamente connesso al mondo di idee alchimistico da
giustificare la supposizione che nell’alchimia si tratti di processi identici o
almeno molto simili a quelli dell’immaginazione attiva e dei sogni, dunque, in
ultima analisi, del processo d’individuazione[5]»
. L’alchimista non era consapevole di realizzare un processo di divinizzazione o
d’imitatio Christi. Tuttavia, giacché il lapis, altro non è che una proiezione
del Sé, quest’ultimo è equiparabile al Redentore: l’alchimista che fosse
diventato capace di analizzare le sue proiezioni «<…> non solo avrebbe visto in
sé l’analogo di Cristo, ma avrebbe dovuto riconoscere in Cristo il simbolo del
Sé [6]».
La differenza tra l’ortoprassi cristiana e
l’opus alchemico risiede nel fatto che mentre la prima si configura come
un operare nel mondo in onore di Dio Redentore, nella seconda è l’uomo stesso ad
essere investito del carattere di Redentore, circoscritto, però, al ruolo di
medium, di strumento per liberare gnosticamente il divino imprigionato nella
materia. Mentre nel cristianesimo la redenzione scende dall’esterno e dall’alto
su tutti gli uomini di buona volontà, nell’alchimia l’Artifex si autoredime
redimendo la materia:
« il cristiano ottiene ex opere operato i frutti della grazia; l’alchimista si
crea invece ex opere operantis (in senso letterale) una “medicina”, un “rimedio”
di vita, che per lui o sostituisce i veicoli della grazia offerti alla Chiesa, o
è il complemento e il parallelo dell’opera di redenzione divina che prosegue
nell’uomo»[7].
All’epoca, doveva essere molto diffusa nell’immaginario religioso, l’immagine
dello spirito prigioniero delle tenebre del mondo, nell’attesa della
liberazione, operazione che avrebbe portato alla salvezza personale dell’eroe e
di tutto il creato. È evidente che la liberazione dello spirito si limitava alla
proiezione degli archetipi o dei contenuti inconsci nella materia, ma nel
sentire comune degli alchimisti la realizzazione dell’opus avrebbe dovuto
garantire la restaurazione dell’armonia edenica perduta, ossia, ancora in
termini psicoanalitici, l’afferenza e l’interelazione dell’inconscio con l’Io,
il principio d’individuazione.
Tre tipi di simbolismi alchemici
In questo paragrafo- per motivi di spazio- analizzerò soltanto tre tipologie tra
i diversi simbolismi onirici presenti nel sogno di Zosimo ed interpretati da
Jung. Si deve notare come sia possibile ritrovare molti di questi simboli anche
al di fuori della produzione onirica propriamente detta, ad esempio
nell’iconografia religiosa, nella produzione letteraria o nell’elaborazione
figurativa artistica. Possiamo,
dunque, rilevare insieme ad Jung, come il simbolismo religioso- e quello
alchemico in particolare-costituiscano il fondamento strutturale in grado di
connettere la produzione inconscia del soggetto all’esperienza ordinaria della
sfera razionale.
a) L’acqua e l’ouroboros
Jung focalizza la sua attenzione sul simbolismo dell’acqua- introdotto dallo
stesso Zosimo nell’apertura del trattato- perché nelle diverse tradizioni
religiose è associata al sorgere della vita ed alla purificazione. Inoltre,
nella psicoanalisi, l’acqua raffigura l’inconscio. Nell’alchimia, l’acqua è
detta Aqua Divina o Permanens, e viene estratta dal Lapis- in questo caso inteso
come Materia Primordiale- attraverso la cottura del fuoco o con un colpo di
spada dall’Uovo Cosmico, simbolo della totalità allo stato potenziale, oppure
viene ricavata tramite la Separatio, la scomposizione nei quattro elementi
(Radices). L’aqua divina si trova nella materia come Anima Mundi (anche detta
Anima Aquina). il processo della separatio viene rappresentato allegoricamente
con lo smembramento del corpo umano e simboleggia il principio della
trasformazione che scandisce le diverse fasi dell’opus ed il passaggio dalla
nigredo all’albedo.
Un altro simbolo dell’aqua divina è il serpente mercuriale che viene fatto a
pezzi e richiama lo smembramento del corpo umano, metafora
dell’autotrasformazione rigeneratrice, efficacemente richiamata dall’ouroboros,
il rettile che si divora la coda. Secondo Mertens, Zosimo potrebbe aver preso
l’idea dello smembramento del serpente, funzionale all’edificazione del tempio,
da un testo magico denominato lapidario Orfico, dove si affronta la tematica
dello smembramento del rettile con l’aiuto di una spada ed in prossimità di un
altare.
È interessante notare come nel simbolismo dell’Ouroboros il contatto della bocca
con la coda, possa presentare un significato ambivalente. Alla prima
impressione, sembra che il rettile si stia mangiando le estremità inferiori, ma
niente vieta di pensare che, al contrario, stia fecondandosi la coda ed il corpo
stesso. Quest’ambivalenza deve essere intesa come un tentativo di uscire dalla
dicotomia dell’esperienza empirica, in cui l’osservatore è sempre costretto a
riconoscere davanti a se un oggetto, riportando la speculare metafisica
cristiana al paradigma neoplatonico d’ispirazione monistica, mentre nella
prospettiva junghiana testimonia il tentativo di sciogliere la polisemia dei
costrutti onirici nel principio della sincronicità.
Non a caso, nella prima visione di Zosimo appare la figura del sacerdote che
sacrifica se stesso: richiamo evidente all’ouroboros, ma anche- secondo Jung- a
Cristo. Non è casuale- nell’interpretazione junghiana- che l’autosacrificio sia
perpetuato attraverso lo smembramento, motivo che richiama la tradizione
misterica dei culti di Dioniso, fatto a pezzi dai Titani, e dell’Orfismo, in cui
lo stesso eroe viene dilaniato dalle menadi. Del resto, nelle Baccanti, Euripide
descrive le menadi all’estatico inseguimento di un cervo da dilaniare ancora
vivo con i denti come massima manifestazione dell’orgasmo dionisiaco.
b) Lo scorticamento e la decapitazione
L’altare a forma di coppa, in cui nel sogno di Zosimo vengono fatti bollire gli
uomini, rimanda al simbolismo dell’Atanor e del forno alchemico. La morte e
resurrezione simbolica per scorticamento, cui viene sottoposta la principale
figura del sogno di Zosimo, rimanda, secondo Jung, al mito del dio Attis- morto
dissanguato, dopo essere stato attaccato da un cinghiale- a quello di Marsia,
che aveva osato sfidare Apollo in una prova musicale, ed allo stesso Mani,
contemporaneo di Zosimo. Il rito dello scorticamento, ricorda Jung, era presente
ad Atene, dove ogni anno si scuoiava ed impagliava un bue, ma esisteva anche tra
gli sciiti, i cinesi, gli abitanti della Patagonia. Anche nel pantheon
meso-americano, a fronte di una complessa cosmologia simbolico-numeriaria, gli
dei si sottopongono a numerose morti per scorticamento per riprodursi nei
relativi doppioni delle stesse divinità. Nella visione di Zosimo, il rito di
scorticamento concerne il capo, ossia è piuttosto uno scotennamento: Jung
ricorda, dottamente, come divorare il cuore, il cervello, o indossare la pelle
del nemico significasse assumerne le qualità e le caratteristiche vitali: ecco
perché, in molte tradizioni arcaiche, il rito era riservato al guerriero fatto
prigioniero e sconfitto. Lo scorticamento rappresenta, dunque, la trasformazione
rigeneratrice. Si tratta, nell’universo simbolico alchemico, dell’estrazione del
pneuma, l’elemento volatile o liquido, dalla materia, attraverso la
mortificazione del corpo di quest’ultima.
L’Aqua Divina estratta serviva per rinvigorire il corpo deceduto, ma
anche per completare l’ulteriore processo d’estrazione dell’anima. Ecco, dunque,
il motivo della circolarità dell’autotrasformazione rigeneratrice presente
nell’alchimia: l’essenza è presente ed obliterata nello stesso corpo
corruttibile e deve essere estratta per rinvigorire ciò che era destinato alla
decadenza della corruzione, o, in alternativa, per assicurare la liberazione
dell’anima. Lo schema è presente nel mitologema della morte per smembramento del
vecchio re, simbolo dell’ipertrofia dell’Io, sopraffatto- giacché ignaro-
dall’inconscio. L’estrazione dell’edema e l’asciugamento del cadavere preludono
al rinvigorimento ed alla rinascita vitale: mentre all’inizio il corpo del re
era sopraffatto dall’acqua- ossia dall’inconscio- adesso asciugata e separata
l’acqua dal corpo si è come aperta la via dell’analisi e si è presa coscienza
dei contenuti rimossi.
Nel sogno di Zosimo, anche la decapitazione assume un significato importante,
perché la testa, effigie di rotondità, simboleggia il movimento circolare che
sottende la trasformazione della sostanza arcana. La decapitazione del serpente,
dunque, significa che l’adepto è entrato in possesso della sostanza arcana. Da
notare, come ricorda Jung, come la testa richiami allegoricamente anche il sole,
in connessione simbolica con l’oro, dunque con la stessa sostanza arcana o
lapis.
c) Il cratere, gli angeli, Iside
L’altare a forma di coppa richiama un’immagine ermetica che Zosimo conosce
certamente, quella del cratere pieno di nous del IV trattato del Corpus
hermeticum, simbolicamente equiparabile anche alla. caverna iniziatica, o
all’acqua battesimale che racchiude il passaggio da una stato di coscienza ad un
altro. Infatti, Jung riporta un passo in cui Zosimo esorta una discepola ad
affrettarsi a immergersi nel cratere, cosicché possa risalire alla sua vera
stirpe. È evidente, quindi, il valore iniziatico della coppa-altare:
immergendosi in essa, la discepola riuscirà a realizzare il passaggio
iniziatico- nella scansione della morte profana per immersione e della rinascita
per emersione- entrando a far parte a tutti gli effetti della scuola o del
circolo degli alchimisti:
«il cratere di Poimandres è la vasca battesimale in cui possono acquisire
consapevolezza gli uomini ancora inconsapevoli e privi della conoscenza, i quali
anelano all’ennoia»[8].
Anche in un altro testo citato da Jung, Iside e Horus, l’acqua assume importanza
primaria; del resto- come ricorda lo stesso autore- essa rimanda al Nilo, al
grande fiume che in Egitto assicura lo scorrere della vita. Osiride, dio
smembrato come Dioniso ed Orfeo, simboleggia il piombo e lo zolfo, quindi, la
sostanza arcana. Il piombo è l’acqua che proviene dall’elemento maschile, il
quale a sua volta è in connessione con il fuoco, dunque con lo spirito: infatti,
come ricorda lo stesso Jung, nel concetto di aqua nostra alchemica, si
richiamano simbolicamente, oltre all’elemento acquatico, anche il fuoco e lo
spirito.
In Iside e Osiride, la dea egizia rifiuta l’unione con due angeli, il secondo
dei quali le rivela il segreto della preparazione dell’oro e dell’argento,
tradizione che la stessa dea egizia trasmette al figlio Horus. Secondo Jung,
l’angelo richiama, al contempo, la sostanza volatile, il pneuma- nell’alchimia
da sempre in relazione con l’acqua, in altre parole con la sostanza arcana- ma
anche la personificazione delle forze inconscie che si presentano alla
coscienza. Non a caso nel sesto capitolo del Genesi, gli angeli dimostrano
particolare interesse per le donne della terra, e nel libro di Enoch si
congiungono carnalmente con loro. Da questo mito, ricorda Jung, deriva l’usanza
delle donne di velarsi la testa, quando entrano in Chiesa. In tutti e due i
casi, sia che gli angeli simboleggino la sostanza volatile o le forze
dell’inconscio- il perturbante- è evidente il motivo junghiano che attribuisce
ad essi la valenza di potenti ierofanie, in grado di simboleggiare l’irrompere
epifanico di energie che oltrepassano la sfera della razionalità e della
coscienza, segnavia della probità nel cammino d’individuazione.
Ma la stessa Iside, ricorda Jung, può essere identificata anche come Materia
Primordiale e polarità femminile preposta alla trasmutazione. Il motivo
dell’archetipo della Grande Madre simboleggia l’insostanzialità del divenire e
deve essere ricercato nello scatenamento degli istinti contrapposti presenti
allo stesso tempo nel femminile:
«come Kerény ha dimostrato brillantemente sulla base dell’esempio della Medea,
si tratta di una tipica combinazione di motivi di amore, perfidia, crudeltà,
maternità, assassinio di congiunti e infanticidio, magia, ringiovanimento e…
oro. La medesima combinazione compare in Iside e nella prima materia, e forma il
nucleo del dramma causato dal mondo materno, senza il quale pare essere
impossibile qualsiasi riunificazione»[9].
Il vero significato della Pietra
Jung rileva come Zosimo contrapponga l’uomo “carnale” a quello “spirituale”. Il
secondo è caratterizzato dall’incessante ricerca di Dio: tuttavia, non si deve
trascurare che l’uomo carnale- ribattezzato Thoth o Adamo da Zosimo- presuppone
in nuce, nella sua essenza, l’uomo spirituale, denominato “Luce”. L’uomo carnale
e quello spirituale sono anche appellati rispettivamente come Epimeteo e
Prometeo, il titano che sposando Pandora è corresponsabile delle disgrazie
dell’umanità ed il titano che regala agli uomini il fuoco. I due uomini,
nell’esegesi junghiana, formano un unico uomo, ma l’uomo spirituale non può
liberarsi dal corpo, perché vi è stato legato da Eva o Pandora. Quest’ultima,
dunque, altro non è che l’Anima nel senso junghiano del termine, l’equivalente
occidentale della Sakti, la sposa-prolungamento di Siva o di Maya, l’illusione
magica sottesa al mondo fenomenico. Nel pensiero junghiano la funzione animica
regola l’atteggiamento che l’Io assume nei confronti del mondo interiore, dove
si concretizzano tutti quegli aspetti sommersi della personalità che non possono
affiorare alla coscienza, a causa dei meccanismi censori. La funzione animica
maschile è l’Anima, opposta al ruolo pubblico dell’identità e caratterizzata dal
Logos, mentre quella femminile è L’Animus, il cui principio è l’Eros. Dunque
Pandora o Eva, nel pensiero junghiano, designa l’Anima. Ma anche il Lapis indica
l’uomo interiore, il deus absconditus obliato nella materia; Jung, a questo
punto coglie bene l’analogia tra il lapis e Cristo: il Figlio assumendo la
natura umana, rivestendosi di un corpo corruttibile destinato alla sofferenza ed
alla morte, è in relazione simbolica con il Lapis, il Principio divino nascosto
nella materia; ma per Jung, i due termini più che in un rapporto d’identità
sono, piuttosto, complementari, ed il simbolo del Lapis serve a compensare la
spiritualità troppo rarefatta e lontana dalle possibilità dell’uomo comune. Al
contrario, nel lapis, sempre secondo Jung, lo spirito si trasforma nella
“carnalità” della materia, fissando gli attributi del Cristo interiore presente
nel cuore di ogni uomo. Il lapis dunque completa e corona la redenzione
cristica, «esso è il Filius Macrocosmi, al contrario del “figlio dell’uomo”, che
viene definito filius microcosmi».
Ma il flius macrocosmi, immagine che da sola evoca la reificazione concreta del
Principio divino in grado di trasmutare operativamente la natura interiore, non
è messo da Jung tanto in relazione con l’Io, quanto con le zone psichiche di
confine. Sotto l’aspetto teologico, secondo Jung, il dogma della Trinità è
incompleto ed imperfetto, perché amputato del quarto termine- dall’autore,
peraltro, richiamato incessantemente nella struttura onirica e nel simbolismo
del mandala- il femminile, ossia in termini psicoanalitici, l’Anima. Il dogma
dell’assunzione e incoronazione di Maria, per lo psicologo svizzero, in un certo
modo riesce a compensare questa carenza, accogliendo l’elemento femminile e
conducendo dalla Trinità alla Quaternità.
«il corpo incorruttibile, la “cosa che non muore”, la pietra “invisibile” e
“spirituale”, il lapis aethereus, la panacea di tutti i mali e
l’alessifarmaco[10]».
Inoltre, dato che l’acqua richiama metaforicamente il flusso delle rinascite,
essa è connessa simbolicamente all’ouroboros, il serpente che si morde la coda,
a sua volta- per certi aspetti- imago dello stesso Cristo: accostamento,
peraltro, ricorrente nello stesso gnosticismo. Tuttavia, l’acqua miracolosa e
l’ouroboros non intendono
certamente avallare la figura del Salvatore così come viene “semplicemente”
propugnata dai Vangeli Canonici. Il Cristo di cui parlano gli alchimisti ha
forti similitudini con il deus absconditus obliterato nella materia, con il Nous
gnostico caduto nel regno del mondo corruttibile, che attende di essere liberato
con l’arte regia e la produzione del lapis.
Conclusione
Sul pensiero di Zosimo, che aveva conosciuto una grande diffusione tra il V
ed il VII secolo d.C., era caduto il silenzio. Il medioevo cristiano non
apprezzò il carattere pagano della sua filosofia, mentre gli eruditi del
Rinascimento furono allontanati dalle sue opere, dal carattere oscuro e bizzarro
delle sue visioni. Si deve, dunque, dare merito a Jung di aver contribuito a
salvare Zosimo dall’oblio, dedicando al panopolita uno studio specifico in Studi
sull’alchimia, oltre che numerose citazioni e richiami disseminati nel resto
della sua opera, anche se già all’inizio del ‘900 era stato Richard
Reitzenstein- uno degli ultimi esponenti della Religionsgeschichtliche Schule-
ad inaugurare il filone di studi sull’alchimia. Dopo Reitzenstein e Jung, lo
studio storico dell’alchimia e dell’esoterismo in genere, non è più guardato con
sufficienza e supponenza dal mondo accademico, che, fino a pochissimo tempo fa,
relegava ad un’improvvida infanzia dello spirito tutte quelle discipline che si
erano sviluppate al di fuori dei rassicuranti confini della scienza moderna. In
particolare, Jung ha dimostrato come nel simbolismo alchemico non solo si cela
un senso compiuto, ma anche che tutte le operazioni astruse e bislacche degli
alchimisti ineriscono all’evoluzione ed alla completezza interiore.
Gli alchimisti, dunque, non erano allora molto diversi dai moderni e le
loro ricerche riproducevano sul piano simbolico le istanze dell’uomo
contemporaneo. Non solo. Il simbolismo alchemico era presente nel contenuto dei
sogni di molti pazienti affetti da nevrosi, e conoscerlo significava accelerare
il processo terapeutico. Jung fu il primo a capire che il lapis philosophorum,
l’oscura pietra ricercata incessantemente dagli alchimisti, non era altro che il
Sé, il processo dinamico delle interrelazione tra la coscienza e l’inconscio.
Jung fu il primo a percepire che, dietro alla molteplicità dei contenuti e alla
polisemia simbolica degli scritti alchemici, il messaggio era univoco ed
universale, poiché parlava all’uomo di tutte le epoche e condizioni. Non
sarebbe, tuttavia, onesto tacere sugli eccessi dell’esegesi junghiana, sul suo
carattere a tratti inopportunamente programmatico nel tentativo di voler ridurre
molte interpretazioni nelle maglie
sistematiche della sua personale lettura; limite, del resto, che si può
riscontrare in molti illustri interpreti del passato e che l’ermeneutica
contemporanea ha cercato di superare con il principio della c.d. “fusione degli
orizzonti”. Forse l’analisi junghiana incorre nel difetto di sopravvalutare in
maniera unilaterale l’importanza della dimensione simbolica, dimenticando o
trascurando la funzione operativa concreta, su cui lo stesso simbolo alchemico
deve essere intrinsecamente fondato. In tutti i casi, le opere junghiane
sull’alchimia rimangono una pietra miliare per chiunque voglia accostarsi a
quest’ambito di ricerche, indipendentemente dalle diverse finalità che possono
delinearsi nel lettore contemporaneo. Il resto, lo regala la “capacità
d’ascolto”.
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[1] Cfr. Jung, Mysterium coniunctionis, pp. 165-166.
[2] Cfr. Pereira, Arcana Sapienza,
p. 278.
[3] Cfr. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, p. 70.
[4] Cfr. Jung, Psicologia e alchimia, p. 333.
[5] Cfr, Jung, Psicologia e alchimia, p. 334.
[6] Cfr. Jung, Psicologia e alchimia, p. 343.
[7] Cfr. Jung, Psicologia e alchimia,
p. 343.
[8] Cfr. Jung, Studi sull’alchimia,
p. 91. l’opera da cui Jung trae la citazione è Zosimo di Panopoli,
Il primo libro del computo finale, in Visioni e risvegli, a cura di A.
Tonelli, par. 8.5 p.196.
[9] Cfr. Jung, Mysterium coniunctionis,
p. 27.
[10] Cfr. Jung, Studi
sull’alchimia, p. 121.
Articolo pubblicato nella rivista
LexAurea43,
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